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Ida (Katharina Adler)

Ho letto un po’ di recensioni in giro sul web: tutte più o meno positive. Io mi posiziono tra quelle “meno positive”.

E’ la storia di Ida Bauer, che è stata una paziente di Freud, che ne ha scritto un saggio in merito alla sua presunta isteria, chiamandola Dora.

Bisogna dire che Ida si è fatta psicanalizzare da Freud solo per qualche mese e poi ha abbandonato la terapia, scontenta delle conclusioni a cui arrivava il medico.

Il romanzo biografico, però, lascia un po’ l’amaro in bocca perché dalla presentazione dell’editore ci si aspetterebbe più spazio per il rapporto tra Freud e Ida; invece il padre della psicanalisi resta una figura secondaria che, se non sbaglio, non parla neanche mai in prima persona, le sue parole sono sempre riportate nel discorso indiretto.

La stessa psicologia di Ida viene sempre descritta dall’esterno, non si riesce a legare un legame leggendo la sua storia. E’ una descrizione meccanica, molto fredda.

Certo, la sua vita non presenta nulla di sensazionale: famiglia ebrea benestante, matrimonio, le serate al teatro, il fratello (Otto Bauer, leader del movimento socialdemocratico austriaco)… ma neanche l’arrivo del nazismo e la fuga di Ida riescono a creare un po’ di immedesimazione.

Ida ha una serie di sintomi che non si spiegano (tosse, svenimenti, afonia, dolori di varia origine), ma neanche lei sembra interessata a cercarne una causa, li sopporta e li descrive senza farsi tante domande: è forse questo atteggiamento poco introspettivo che l’ha portata, alla fine, alla rottura con Freud, che invece andava a far le pulci ad ogni suo pensiero.

Insomma, al di là del rapporto con Freud, Ida mi appare come una donna abbastanza superficiale, che vive nel suo tempo senza farsi troppo coinvolgere se non quando strettamente necessario o perché trascinata dalle compagnie (ma mai con una comprensione profonda dell’ambiente e delle motivazioni altrui).

La vita di Ida, Insomma, non presenta grande interesse.

Questo non sarebbe un ostacolo a una bella biografia, se la biografia fosse romanzata bene, cosa che con questo libro non accade.

Le descrizioni sono scollegate dalle emozioni dei protagonisti e la storia è raccontata con continui salti temporali che non hanno motivo di esistere: l’impressione che ne ho avuta io è che l’autrice abbia inizialmente scritto il romanzo in modo strettamente cronologico, per poi spezzettarlo e mischiarne le parti nel tentativo, fallito, di fargli un po’ di movimento.

Ovviamente sono la prima a mettere in dubbio le mie valutazioni se qualcuno ha letto il romanzo e riesce a convincermi dei miei errori.

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Padre padrone padreterno – Joyce Lussu #femminismo @internazionale

Ma… il femminismo esiste ancora?

Di sicuro non ci sono più femministe come Joyce Lussu.

Una tipaccia: ha fatto la guerra nella resistenza (ed era pure incinta), ha preso una medaglia al valor militare (volevano dargliela senza cerimonia, e lei si è fatta valere), e ogni volta che teneva una conferenza per il partito obbligava gli uomini a portare le mogli, che erano regolarmente assenti.

Di famiglia nobile, laica e benestante, poliglotta, laureata in lettere alla Sorbona di Parigi e in filologia a Lisbona, ha viaggiato molto in Europa e nel mondo. Era scrittrice, poetessa e traduttrice.

Il libro che ho letto è breve, e rivede la storia mondiale dal punto di vista della donna.

Certe affermazioni storiche mi sono sembrate semplicistiche o, perlomeno, un po’ fuorviate, come, ad esempio, queste:

L’impero romano decadde, come tutti gli imperi, per una crisi di manodopera.

Il grande terremoto della Rivoluzione d’Ottobre aveva dimostrato che le masse possono vincere contro la classe dominante e che l’industrializzazione si può fare al di fuori del sistema capitalistico.

Ora c’era la Rivoluzione cinese, la prima vittoria rivoluzionaria non europea.

Tuttavia, altre parti denotano una notevole chiarezza sulla situazione femminile:

Il femminismo massimalista, con le sue proposte riduttive e alienate, in quanto improponibili a livello di massa (il rifiuto del maschio; il lesbismo come liberazione; i bambini in provetta e allevati in batteria, come i polli; l’atteggiamento acido e vendicativo verso l’uomo-lupo, come se noi donne fossimo dei candidi agnelli), non matura nessuna collocazione storica e nessuna prospettiva.

Se le donne devono ancora fare della strada in direzione della completa parificazione (soprattutto qui in Italia, dove il cattolicesimo ha fatto e fa danni), la strada va fatta insieme al maschio, non contro; e non si può prescindere dalla situazione economica (lei parla ancora di classi, ma se togliamo questa parolina, ormai priva di significato, la sua analisi rimane attualissima).

Posso dire la mia?

Il libro è del 1976 ma… Non sono molto ottimista.

E non mi riferisco solo al lavoro, dove le donne non sono ancora parificate; né solo alla famiglia, dove per mio marito (e per tanti altri) è normale, dopo cena, alzarsi e andare a guardare un film lasciando tutto sulla tavola.

Mi riferisco alla mancanza di solidarietà femminile, che genera assenza di dibattito, assenza di consapevolezza di interessi comuni.

Mi riferisco alle giovinette, che non si accorgono neanche di essere ridotte a esseri estetici, considerando superfluo quello che hanno dentro al cranio (e loro sono contente così!).

E mi riferisco… al meccanico che, quando gli porto la macchina (mia, e di cui pagherò io la riparazione), chiama mio marito per spiegare cosa ha fatto e chiedere cosa deve fare…!

Ci rido sopra ogni volta, però è sintomatico.

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Autofiction #Pordenonelegge 2018

Ieri sono stata al Pordenonelegge ad ascoltare un dibattito sull’autofiction tra Carlo Carabba ed Emanuele Trevi. L’incontro era presentato da Alberto Garlini.

Cos’è l’autofiction?

Bè, non è proprio un genere. Per spiegarvi cos’è, vi faccio subito due autori che la usano o l’hanno usata nelle loro opere: Carrére e Chatwin.

Carabba ci ha proposto una suddivisione:

Primo filone: autori che mettono direttamente a nudo la propria anima con lo scopo di cercare la Verità (es. Proust, S. Agostino)

Secondo filone: autori che presentano un racconto molto simile alla propria realtà individuale (es. Jack London col suo “Martin Eden” o Breston Ellis col suo “Luna Park”).

Terzo filone: autori che uniscono il racconto della propria vita a fatti di cronaca (uno su tutti: Emmanuel Carrère).

Dai pochi esempi elencati, si evince che l’autofiction non è un genere a sé, perché si può infiltrare in altri generi (letteratura di viaggi, autobiografia, horror, cronaca…). Trevi ha usato un verbo: parassitare.

Quale è la necessità di fondo dell’autofiction?

Fondamentalmente, è un modo di reagire all’inerzia dell’esistenza, alla mancanza di eventi significativi nella vita di tutti i giorni. La sua ragione d’essere, è la stessa ragione per cui amiamo le storie inventate: perché abbiamo bisogno di vedere un filo conduttore in tutto ciò che succede, abbiamo voglia di segni, di significato.

Abbiamo bisogno che la persona, che vive una vita banale, si trasformi in personaggio, cioè in una persona privata degli innumerevoli momenti in cui non succede nulla. Ecco perché agli autori piace mischiare la persona (autobiografia) al personaggio (fiction).

Emanuele Trevi ha espresso un suo parere su Carrère: dice che i suoi libri si leggono tutto d’un fiato, sì, ma a volte, annoiano. Perché? Perché Carrère si mette sempre in mezzo, come se avesse difficoltà ad accettare che la vita è costituita più da assenza di eventi significativi che da eventi significativi. Secondo Trevi, non si può rendere interessante tutta una vita in tutti i suoi momenti: se lo si fa, si gonfiano i contenuti, e, così facendo, ci si allontana dalla Verità (o dalla sua ricerca).

Carabba ha appena pubblicato un esempio di autofiction: “Come un giovane uomo”. Parla di una sua esperienza del lutto. Nel libro racconta della morte di una sua cara amica, e di come, il giorno del funerale, lui si trovi davanti ad un bivio: andare a darle l’ultimo saluto o a firmare un contratto di lavoro che significherà la fine di una vita di precariato.

Ecco: il bivio.

Il bivio spesso non è altro che un rito di passaggio, un evento significativo nella vita di una persona. Dunque vale la pena scriverne. E spesso il bivio riguarda la scelta tra sentimento/intuito/affetti (nel suo caso, il funerale dell’amica) e razionalità (la vita lavorativa).

Sia come sia, dice Trevi, l’arte, e dunque la letteratura, deve creare un cambiamento. Se non lo fa, allora è un romanzo da nevrotici (v. Freud e il chiacchiericcio mentale dei suoi malati), un meccanismo di difesa che non crea cambiamento; un tentativo, vano, di compensare il quotidiano.

Il cambiamento deve essere qualcosa che non ti aspetti, qualcosa di diverso dalla vita vera, in cui la direzionalità (forse) non c’è.

Sono così d’accordo con Trevi e la sua concezione della letteratura, che ho subito comprato il suo “Qualcosa di scritto”. Ma devo stare attenta a leggerlo: non devo guardarlo come un libro autobiografico, anche se l’autore parla a volte in prima persona. Come per stessa ammissione di Trevi, la sua autofiction ha sempre un taglio di critica letteraria. Nel caso di “Qualcosa di scritto”, si dedica a Pasolini.

E ora una nota personale, di autofiction, direi: mi sono ricordata di chiedere a Trevi una foto, ma non mi sono ricordata di fargli autografare il suo libro che tenevo sotto il braccio e che avevo appena comprato. Sì, sono reale, ma imbranata come un personaggio dei cartoni animati.

E adesso, da raccoglitrice compulsiva di autografi di scrittori, mi mangio le mani.

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Le lacrime di Nietzsche, Irvin D. Yalom @NeriPozza

Bel libro: mi sento di suggerirlo a tutti gli amanti dei romanzi, non solo a chi si interessa di psicanalisi e filosofia.

Yalom, psichiatra e scrittore, parte dai dati anagrafici, reali, di personaggi storici (Nietzsche, Lou Salomè, Breuer, Sigmund Freud…) per farne un romanzo di fantasia, ma senza mai allontanarsi dalla verosimiglianza dei caratteri per quanto se ne può trarre da testi e testimonianze scritte; tranne forse nel caso di Lou Salomè, che difficilmente si sarebbe sentita in colpa per aver rifiutato di sposare Nietzsche, almeno al punto da ricorrere a un medico per aiutarlo. Ma non c’è rischio di confondere fantasia e realtà, perché l’autore alla fine ci spiega cosa ha inventato e cosa no.

Le malattie (o la malattia) di Nietzsche sono un mistero clinico difficile da svelare. Breuer, nel romanzo, dandone un’interpretazione, quasi giunge a una forma di guarigione: e se non ci giunge del tutto, questo dipende da Nietzsche. Ma non posso dirvi di più, altrimenti svelo troppo.

Quello che posso dire, è che nel romanzo è ben delineata l’amicizia che nasce tra il filosofo e il medico, nonostante i blocchi emotivi di entrambi; e sebbene il rapporto medico-paziente venga rivisto in modo originale – ribaltato, direi –  alla fine entrambi riescono a imparare qualcosa su se stesso e sull’altro. Merito della logoterapia, la terapia della parola, che riesce non sono a creare un’amicizia, ma anche a farci conoscere personaggi storici nel loro carattere, nei loro pregi e difetti (perché, diciamolo, Nietzsche aveva dei problemi con le donne…).

L’insegnamento generale che ne ho ottenuto, però, non è tanto nozionistico: non gira attorno alla storia del pensiero o della filosofia. L’insegnamento che si ottiene da questo libro è che nella solitudine non si guarisce.

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Tre piani, Eshkol Nevo @NeriPozza

Non mi soffermerò molto sulle storie in sé, perché si possono leggerne i riassunti in ogni blog o sito che parli del libro. Vorrei solo sottolineare brevemente la bravura di Eshkol nel raccontare tre vicende, ambientandole nello stesso condominio, e legandole tra loro in modo lieve ma significativo.

Nel risvolto di copertina si legge che le tre storie rappresentano i tre piani freudiani della personalità umana, es, io e super-io.

Sarà… per me, però, risalta di più la scelta di far raccontare le storie direttamente dai personaggi in modo che i loro interlocutori siano sempre un po’ più lontani.

Mi spiego: nella prima parte, Arnon racconta la sua vicenda a un amico scrittore che non vede da tanto tempo, ma che ha là, davanti a lui, che può toccare, guardare negli occhi.

Al secondo piano, Hani racconta la sua vicenda a una vecchia amica, che però ora abita negli Stati Uniti e che non vede da molto tempo.

Infine, Dovra, la giudice del terzo piano, racconta la storia al marito defunto tramite la cassetta di una segreteria telefonica.

Tre interlocutori su tre diversi piani di lontananza.

Non è un caso.

Al primo piano, Arnon è succube della propria parte animale, c’è bisogno di qualcuno da toccare, di un rapporto fisico. Al secondo, Hani è già più evoluta, si fa molte domande sulla propria salute mentale, ma la sfera animale è già stata superata. Infine, al terzo piano Dvora è una persona che sa cos’è l’autocontrollo ma è anche quella che sente più degli altri la solitudine della sua situazione. E che si attiva per contrastarla. Il marito morto, già lontano, diventa superfluo del tutto alla fine:

Ma d’ora in poi non si tratta più della nostra strada, amore mio, fiore mio, mia sventura.

D’ora in poi è la mia strada.

Sono tre righe bellissime che concentrano autoconsapevolezza, responsabilità e amore.

Un bel libro. Oltre alle vicende in sé, è costellato di tante belle frasi che ti fanno capire come Nevo conosca la natura umana. Come questa, dove Hani racconta come non riesce a instaurare un rapporto di vera amicizia con le madri di altri bambini:

All’inizio stavo sempre ad aspettare il momento in cui da tante chiacchiere futili sarebbe emersa qualche verità. Per ora ci stiamo solo conoscendo, pensavo, i primi approcci, delicati. Fra poco una di noi si libererà dalla necessità di presentare la sua vita come perfetta e passeremo a una conversazione vera.

Col tempo ho capito: non succede mai. Resta sempre così. Un viaggio in nessun posto.

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Le passioni della mente – Irving Stone

Romanzo biografico su Sigmund Freud

Irving Stone è conosciuto principalmente come autore di biografie romanzate. Lui stesso, in un video su youtube, si definisce un Bookworm, uno che va pazzo per i libri. Il suo primo incontro con Freud è stato a diciannove anni, quando, appena entrato all’università, ha fatto una capatina nella biblioteca, e si è portato via, tra l’altro, “Psicopatologia della vita quotidiana”: che coincidenza! Questo è proprio il titolo che ha fatto innamorare me, di Freud, quando avevo sedici anni! Ed è anche il libro che Freud ha scritto per il vasto pubblico, mentre prima i titoli si indirizzavano principalmente al mondo medico, visto che la psicanalisi doveva ancora farsi accettare come scienza.

Ma torniamo alla biografia.

Il romanzo inizia quando Freud ha poco meno di trent’anni e sta facendo la corte a Martha, sua futura moglie. Si è appena laureato e il suo sogno sarebbe quello di lavorare nell’università, come ricercatore, ma non ce la fa. Intanto però mette da parte un bel po’ di esperienza con le malattie organiche… Ci vuole molto prima che lui si accorga di aver dato inizio ad una nuova scienza della psiche (ricordo che allora la psicologia non era considerata come una scienza), e non gli mancano i detrattori.

Pian pianino, l’impalcatura della psicanalisi cresce e si espande a tutto il mondo. Prima di arrivare a questo, però, il dottor Freud dovrà superare molte difficoltà: dall’antisemitismo (lui era ebreo, sebbene non praticante), al baronaggio, alle invidie, alle guerre… Ci sono diversi periodi in cui Freud ha difficoltà a comprarsi un abito nuovo o un nuovo paio di scarpe, soprattutto all’inizio della sua carriera.

Ci sono due punti importanti che caratterizzano Freud (così come molti altri personaggi famosi):

1: non si demoralizzava quando riceve critiche, anche se pesanti, e anche se queste provenivano da persone di cui lui aveva un’altissima stima. Era convinto, appassionato, innamorato di quello che stava studiando e continuava per la sua strada.

2: pian pianino si costruì una rete di amicizie. E che amicizie! Breuer, Adler, Rank, Steiner, Jung, Ferenczi, Lou Salomé… Tutta gente con la quale poteva discutere e lo aiutava a diffondere le sue idee. Arrivò ad avere dei contatti anche con Thomas Mann ed Einstein.

A me la psicanalisi piaceva molto una volta, prima di scoprire che non spiegava tutto; dunque la biografia interessava. Devo però ammettere che questo romanzo è troppo lungo (873 pagine): in particolare, l’autore avrebbe potuto risparmiarci alcuni casi psicanalitici; ne vengono riportati davvero tanti, molti dei quali già letti nei testi originali di Freud; forse qui era il caso di essere un po’ più sintetico (anche perché poi, alla fine, le cause delle malattie per la psicanalisi sono sempre le stesse, più o meno).

Inoltre, Stone avrebbe fatto bene ad essere più sintetico anche sulle parti che riguardavano le vacanze: ogni anno in estate la clientela di Freud andava in villeggiatura, e siccome il dottore restava quasi senza nulla da fare, si godeva anche lui le vacanze. Ecco: descrivere le varie case o alberghi con i dintorni, nonché le attività con cui trascorrevano le giornate (passeggiate e passeggiate!), alla fine allunga molto il libro senza dire nulla di concreto sulla vita del protagonista.

A parte questi due punti, libro consigliato a chiunque interessi la vita di questo pioniere della mente umana.

 

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Fidati di te – Isabelle Filliozat @ifilliozat @edizpiemme

Parliamo di autostima!

Il libro è diviso in quattro parti:

  • Di che cosa stiamo parlando

La Filliozat ci tiene a sottolineare che spesso usiamo la mancanza di autostima come un’etichetta, una scusa per non metterci in gioco, non rischiare: ci diciamo che non siamo in grado di fare una certa cosa, che non potremmo mai cambiare lavoro, che non siamo degni di trovare una/un compagna/o migliore, proprio perché abbiamo paura di buttarci, di stare in mezzo alla gente, di esporci.

  • Da dove viene

Molto spesso le cause delle nostre paure risiedono nella nostra infanzia, ma non bisogna sottovalutare nemmeno le esperienze successive, dato che il nostro cervello continua ad accumulare ricordi ed emozioni per tutta la vita. Le cause possono essere diverse: esclusione, prepotenze, sofferenze… Una cosa è abbastanza sicura, però: il successo porta al successo, l’insuccesso all’insuccesso.

  • Guarire

Ci sono tre tipi di fiducia che vanno a costruire la c.d. autostima: la fiducia di base, o sicurezza interiore; la fiducia nella tua persona (sensazioni, emozioni, giudizio); la fiducia nelle tue competenze; la fiducia sociale.

  • Basta pensare! passiamo all’azione…

Gli esercizi si possono suddividere, a grandi linee, in due tipi: quelli che ci fanno lavorare su noi stessi e quelli che ci fanno lavorare con gli altri. I libro offre molto spazio per la riflessione e la scrittura personale (sottoscrivo comunque il consiglio dell’autrice, di non fare più di un esercizio al girono, perché si rischia di non metabolizzare bene i vari passaggi).

Per me la parte più interessante del libro è stata la prima, che ci parlava di etichette autoimposte. Infatti, uno degli esercizi che possono essere più utili è quello del “come se”: agiamo come se fossimo sicuri di noi stessi, come se sapessimo come ci si comporta in un determinato ambiente, come se non avessimo paura di intavolare un discorso con una certa persona… l’idea stessa di recitare ci fa muovere come persone sicure. E… successo chiama successo!

Altro consiglio facile da seguire, è quello di individuare una persona che ammiriamo per la sua sicurezza e… imitarla.

Di esercizi ce ne sono tantissimi, e sebbene alcuni possano sembrare un po’ ingenui e altri già conosciuti, ognuno deve trovarsi il suo. Sebbene il libro in sé non sia di una novità sconcertante, ho trovato molte frasi su cui riflettere. Eccone alcune:

L’autostima si costruisce con l’esperienza, ma anche con l’immagine di noi stessi che ci rimandano gli altri. Non è possibile costruirla da soli.

La dipendenza e l’isolamento (…) sono due grandi cause di perdita di autostima.

La fiducia in se stessi si fonda sull’accumulo di esperienze: quando non le si è ancora maturate, non si può essere sicuri di sé. Ma non si aspetta di essere competenti per intraprendere un’attività, lo si fa comunque e si acquisisce esperienza giorno dopo giorno, e dopo numerosi insuccessi.

 

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UN GENITORE QUASI PERFETTO – Bruno Bettelheim

Sono quasi 600 pagine, ma scritte in modo molto amichevole e, soprattutto, senza tecnicismi ne’ estremismi: solo buon senso! Lo consiglio a tutti i genitori (anche ai papà, che di solito sono meno portati alla lettura di testi del genere).

Il principio è che per essere genitori passabili (la ricerca della perfezione in questo campo rischia di fare più male che bene) bisogna avere fiducia nella propria capacità e nelle capacità (mentali ed emotive) del proprio figlio. Non guasta inoltre una certa capacità di immedesimazione nei panni dei bambini, per quanto possa essere difficile ricordare come ci sentivamo trenta o quarant’anni fa.

Il succo è sempre quello: inutile fare grandi discorsi, perché i figli sono più impressionati dalle emozioni provate dal genitore che dalle sue intenzioni coscienti; e anche se non sanno verbalizzare, captano le nostre insicurezze meglio di un radar. Dunque… prima di fare un figlio: tutti dallo psicologo!!

Scherzo. Ma non tanto.

Il libro è diviso in capitoli per argomento. Ho trovato particolarmente interessante quello che riguarda le punizioni, perché spiega nel dettaglio perché sono inutili e come possono diventare controproducenti.

Inoltre, bisogna stare attentissimi alle critiche:

(…) muovendo delle critiche a un bambino, nonché imponendogli quello che deve fare, si riduce il suo rispetto di sé perché si richiama la sua attenzione sulle sue carenze. Allora, anche se ubbidisce, in realtà non ha imparato nulla di utile, perché non viene incoraggiata la formazione di una personalità autonoma.

E pensare che anche oggi non mi rivolge la parola se non per criticare qualcosa!

Il fatto è che invece di sgridare i figli o di imporgli di smettere quello che stanno facendo, bisogna spiegargli il PERCHE’. Dunque, se al supermercato il piccolo tocca tutto, col rischio di far cadere la montagna di lattine o i vasetti di vetro dei sottaceti, non basta dirgli “non toccare!”, bisogna farlo ragionare su come ci sentiamo quando lui si comporta così, o su quello che può pensare il proprietario del supermercato se lo vede toccare i suoi prodotti in quel modo.

Infine, tra le tante dritte che questo libro può dare (raccomando anche il capitolo incentrato sulla scolarità), vi lascio questa:

Le biografie dei grandi uomini del passato sono piene di riferimenti alle lunghe ore trascorse da giovinetti in riva al fiume immersi nei propri pensieri, o a vagare per i boschi in compagnia del cane fedele a sognare i propri sogni. (…) Nelle classi borghesi, la giornata di ogni bambino è densa di attività organizzate: riunioni dei boy scout o delle guide, lezioni di musica o di danza, attività sportive; questi bambini quasi non hanno il tempo per esser semplicemente se stessi.

In fondo lo diceva Goethe: il genio si nutre nella solitudine. Mi immedesimo in queste frasi: perché mio figlio raramente ha delle ore totalmente vuote. Col risultato che quando gli capita, viene da me e mi chiede: Mamma, che faccio??

La prossima volta gli risponderò: vai nel bosco a fantasticare.

 

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Mental aikido – Emanuele Tessarolo

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A volte è difficile capire perché un libro non ti prende, anche se i suoi contenuti sono affini ai tuoi interessi.

In questo saggio si legge come gestire le relazioni problematiche, senza sottomettere o umiliare la controparte. Si inizia sempre da se stessi, dallo stare bene: cibo, sonno, consapevolezza… Ma se queste fasi, che sono basilari, non vengono descritte molto, si dice solo di farci attenzione, perché se la fisiologia va storta, il cervello la segue.

Belle e bibliograficamente documentate le parti dedicate alla psicologia transazionale, alla piramide di Maslow, ai meta-programmi, al linguaggio del corpo… Ma mancano esempi concreti, e quelli che ci sono… non mi acchiappano.

E poi: il rapporto costruttivo parte da una fase essenziale, che è quella empatica, quando si costruisce una relazione con l’emotività dell’altro, si creano basi comuni, gestualità condivise, addirittura si dovrebbe regolare il proprio respiro su quello dell’altro. Poi si va avanti con gli altri step.

Ma qui mi chiedo: e se io questa relazione empatica non riesco a crearla? Di solito i rapporti problematici ce li ho con persone che mi stanno sulle palle, probabilmente perché in passato hanno tenuto più e più volte degli atteggiamenti ostili nei miei confronti. Come faccio a entrare nei loro panni? Ecco questa risposta non c’è. Se la collega mi parla senza guardarmi in faccia, non c’è bisogno di leggere questo libro per capire che farebbe a meno di rivolgermi la parola, ma, materialmente, come faccio a entrare in sintonia con lei?

Infine: capisco che l’aikido possa essere utilizzato come filosofia per ogni cosa, ma qui lo vedo poco correlato. A parte le frasi di Ueshiba & C., i suggerimenti e le tecniche sono prese da varie discipline ed esperti. Non c’è bisogno di chiamare in causa l’aikido…

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