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Meditate gente, meditate…

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Dite pure che ce l’ho con le riviste patinate (e che le compro solo quando regalano campioncini di creme per il viso), ma questo articolo del Guardian lo trovo istruttivo sul ruolo di un certo c.d. giornalismo; ma si può parlare ancora di giornalismo? Perdonatemi, ma a certa gente non dovrebbero permettere di usare la parola “giornalista” nei biglietti da visita…

Era inevitabile che la foto di Melania Trump sulla copertina di Vanity Fair Mexico sollevasse indignazione. Senza parlare del fatto che compare con un bicchiere pieno di gioielli come se dovesse mangiarseli: farlo sulla copertina di una rivista di un paese in cui quasi la metà della popolazione vive in povertà ha solo aggiunto benzina sul fuoco.

“E’ mancanza di sensibilità da parte dell’editore,” ha detto Guadalupe Loaeza, scrittrice e giornalista, “Avevo iniziato a leggere e non sono riuscita ad arrivare alla fine dell’articolo. Non volevo sapere nulla della moglie del nemico numero uno del nostro paese”.

Le copertine delle riviste messicane offrono spesso esempi dei privilegi, degli eccessi e dei dubbi interessi delle celebrità e dei ricchi.

“Grosse fette della popolazione messicana sono culturalmente programmate dai media per venerare i bianchi e i famosi,” dice Andrew Paxman, professore al Center for Research and Teaching of Economics, che studia i media messicani.

Giocano sulle fantasie e sul bisogno di evasione foraggiato in Messico da decenni di telenovelas sullo stile Cenerentola, dove buone ragazze di modesta origine possono esaudire i loro desideri sposando il Principe Azzurro.

L’anno scorso, un’indagine BuzzFeed Mexico ha scoperto che la stragrande maggioranza dei personaggi nelle riviste messicane era rappresentata da bianchi – anche se la maggioranza della popolazione è considerata indigena o meticcia.

(Liberamente tradotto da questo articolo: https://www.theguardian.com/us-news/2017/jan/27/melania-trump-vanity-fair-mexico-cover-backlash)

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Qualcosa di vero – Barbara Fiorio

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Giulia, una donna in carriera, si ritrova quasi ogni sera a raccontare favole alla figlia della vicina. La bimba, Rebecca, ha quasi nove anni. Solo che le fiabe non sono quelle che sconosciamo noi, slavate e potate di tutte le violenze raccontate nelle versioni originali: Giulia ha il coraggio di raccontare alla bimba le storie vere, dunque se le principesse sono stupidotte e i principi ancor di più, lo dice. Se le storie finiscono male perché un bambino muore, lo dice. Se vengono fatti a pezzi personaggi e Biancaneve vomita un pezzo di mela anziché venir risvegliata da un bacio, lo dice.

La cosa però non tarda a venir pubblicizzata a scuola dalla stessa Giulia che si è appena trasferita e ha scoperto un bel modo per farsi degli amici. Poi la narrazione si allarga a una mamma in fuga dal marito manesco e al collega di Giulia che ci prova ma non si capisce.

Commento: i bambini non sono mica così. Le descrizioni dei compagni di classe di Giulia secondo me sono troppo ingenue: non ce li vedo bambini di otto, nove anni a raccogliersi attorno a una loro coetanea perché racconta le favole vere. Mio figlio ha quasi otto anni, vedo i suoi amici, e continuo a dirmi che questi qui non lo farebbero mai. Secondo me purtroppo si sta già perdendo il senso del racconto: i bambini sono tutti presi da App e TV. Mio figlio adora “Hansel e Gretel cacciatori di streghe” e gli è piaciuto anche il film sulla vera Biancaneve, ma una cosa è vederli al cinema, un’altra cosa è farseli raccontare da una coetanea.

Altra faccenda poco probabile: la Gilda del Cerchietto, cioè il gruppo di bambine che prende di mira Rebecca. I bambini, quelli veri, non si schierano così. C’è qualcosa che non mi torna in queste ragazzine perfettine che vanno in giro per la scuola in cerca di ammiratori.

Anche la mamma di Rebecca è una plasticcona: parla poco e, per quanto esaurita dalla recente fuga dal marito, non trovo verosimile il comportamento che tiene nei confronti di Giulia quando scopre che ha raccontato le favole vere alla figlia, anche se è reduce da un incontro con la preside per colpa di queste storie. E’ il personaggio meno riuscito del romanzo.

Infine, lo stile. Il romanzo inizia con una lingua molto, molto ironica, sfacciatamente simpatica, sembra quasi spasimare per ammirazione; e ammetto che questa fantasia verbale (le battute, le similitudini, le metafore…) sono ben ingegnate, anche se alla lunga stancano. In realtà, non fanno in tempo a stancare perché da circa metà romanzo, non ce ne sono quasi più. Come se ci fosse stata una cesura. Mi si dirà: il cambio di registro è dovuto all’evolversi della storia, abbiamo una donna maltrattata dal marito, non si può far tanto i simpatici. Però il cambio di registro inizia prima, come se si fosse esaurita la spinta iniziale e ci si concentrasse ora più sulla fabula che sullo stile.

Barbara Fiorio conosce sì bene le fiabe, e di ciò gliene siamo grati, ma questo romanzo non finirà nella lista dei miei preferiti. La storia fila, ci sta, ma non mi convince del tutto.

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