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Il canto di Penelope (Margaret Atwood)

Margaret Atwood in questo romanzo, lascia parlare Penelope dall’Ade. La moglie di Odisseo si rivolge a noi, nel nostro secolo, e ci racconta la sua versione dei fatti: Ulisse, Troia, Elena…

Perché l’Odissea racconta un solo punto di vista: quello dell’eroe che aiuta a sconfiggere i troiani con lo stratagemma del cavallo di legno e che poi, tornando a casa, si ferma qua e là, mentre la moglie Penelope lo aspetta a casa, fedele e paziente, imbrogliando i pretendenti con lo scherzetto della famosa tela (che in realtà è un sudario per il suocero, che, nell’eterna attesa del figlio che non torna, potrebbe morire da un momento all’altro).

Penelope era figlia di un re di Sparta, intelligente ma non molto bella, sicuramente non bella come la cugina Elena, che faceva impazzire gli uomini ai suoi piedi. Quando è venuto il momento di darla in sposa, essendo una principessa, c’era in gioco una dote consistente, dunque i pretendenti erano numerosi. Ma erano tutti là per la dote, non per lei!

Lo stesso Ulisse aveva provato a sposare la bellissima Elena, ma non c’era riuscito: insomma, Penelope è un ripiego, e ce lo fa, molto femminilmente, notare. Ciononostante, una volta sposati, con Ulisse riesce a instaurare un bel rapporto, finché dura… perché a un certo punto inizia la guerra di Troia e Ulisse, essendo vincolato a un giuramento, deve partire.

Sta via vent’anni, abbandonando la moglie in uno scoglio di regno in mezzo a rocce e capre.

Ma Penelope ci parla da morta: ora sa tutto quello che è successo e adesso può parlare, perché nessuno può più farle del male.

Ad esempio, ci rivela che lei si era accorta subito che il mendicante che ha sfidato i pretendenti era suo marito, ma ha voluto lasciargli credere di esserci cascata, perché lui ci teneva a passare per uno bravo nei travestimenti. E quando Ulisse fa uccidere le dodici ancelle che per lui erano delle traditrici, ci confessa che le aveva mandate lei a spiare i proci per capire che intenzioni avevano, e le ancelle avevano obbedito.

Alcune poi, in seguito a questo atto di obbedienza, sono state stuprate, altre si sono addirittura innamorate di questi pretendenti di Penelope (erano giovani e belle, ricordiamocelo), ma a Ulisse questo non rileva: lui le fa impiccare perché lo hanno tradito.

E Penelope, dal regno dei morti, si pente e di duole di questo spargimento di sangue innocente di cui lei è parzialmente colpevole.

Ma a mio parere, le parti più interessanti del libro sono quelle in cui lei si confronta con la bellissima cugina Elena: vanitosa, attentissima al proprio aspetto, civetta con gli uomini e li lascia cadere nella sua trappola solo per il piacere di dimostrare che può farlo. Non le interessano le conseguenze.

Rispetto all’Odissea, qui si punta l’attenzione su Penelope che è, in definitiva, bruttina, ma intelligente, che tutti hanno corteggiata principalmente per i suoi soldi; si sottolinea che suo figlio Telemaco era viziato e che suo marito Ulisse era un furbastro che faceva quello che voleva; e che, infine, le donne sono sempre quelle che ci rimettono (a meno che non usino gli uomini ai propri scopi, come fa Elena).

Alla fine, non può manca un tribunale dei giorni nostri dove Ulisse viene giudicato.

Colpevole o innocente della morte dei pretendenti?

Innocente.

Colpevole o innocente della morte delle dodici ancelle?

Innocente.

E Ulisse, maestro d’inganno e travestimenti, anche se morto, non può restare a lungo nell’Ade. Va e viene, rivivendo nel nostro mondo sotto le spoglie più diverse. Alle sue calcagna, le furie, inviate dalle dodici ancelle che cercano vendetta.

Per scrivere questo romanzo, Margaret Atwood si è basata in gran parte sull’Odissea, ma anche sulle teorie di Graves, dove Penelope sarebbe stata la sacerdotessa di un culto di una divinità femminile; e devo dire che questa Penelope mi piace molto di più di quella canonica che tesse durante il giorno e disfa durante la notte.

Ne viene fuori una donna che vive all’ombra di un marito famoso ma che non è così passiva come ce la vogliono far sembrare: che per essere accettata, bruttina com’è, deve farsi passare per paziente e sottomessa, tanto da diventare l’archetipo della moglie ideale, per molti.

Lei a casa a respingere i pretendenti e a tutelare la sua virtù, il marito in giro per il mondo a intingere il biscottino dove gli pare.

Ma quanto piace questa versione di Penelope silenziosa a certi uomini?

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Eroiche (Inna Shevchenko)

In generale non mi piacciono i testi femministi. Molti di loro sono un continuo ripetersi che siamo forti, intelligenti, meno guerrafondaie degli uomini ecc…

Anche questo non fa eccezione, se non per il fatto che Inna Shevchenko è andata al di là delle proteste contro il patriarcato: è finita nei guai per aver lottato contro il regime russo.

Inna Shevchenko infatti è ucraina (li libro in Italia è uscito a febbraio del 2020) ed è nata nel 1990, quando l’Urss stava già crollando. Ma il crollo dell’Urss ha portato ancora più criminalità, povertà, disoccupazione, corruzione.

In un paese così in crisi, il “patriarcato” ha ripreso le redini in mano. Nell’Urss, le donne valevano per quello che producevano, come gli uomini, dunque la diseguaglianze non erano così acute.

In un’Ucraina in cui è pericoloso uscire e il cibo non è più garantito, le donne sono tornate sotto il controllo maschile. Il destino di una bambina era segnato: o metter su famiglia e far figli, o diventare prostituta. Guai a pensare di intraprendere una carriera fuori dagli schemi, come ha fatto la Shevchenko che ha studiato per diventare giornalista, con gran delusione dei suoi parenti.

Fin da piccola, purtroppo, le son mancate le eroine in cui identificarsi. Non che non ce ne fossero nella storia russa ed ucraina: solo che non se ne parlava.

Le sue prime eroine sono Sailor Moon, Xena, Kill Bill, e rappresentano un esempio lontanissimo dalle donne che la circondano, sempre pronte ad assecondare gli uomini e a chiudere la bocca.

Ma crescendo ne conoscerà molte altre, e in questo libro ce ne racconta le storie (brevissime però, è un po’ didascalico sotto questo punto di vista).

Finirà col ricevere minacce di morte, alcune terrorizzanti.

Gli agenti del KGB, perché di loro si trattava, ci cosparsero di benzina e si misero ad armeggiare attorno a noi con dei fiammiferi. Sole nel bel mezzo di un bosco, ci aspettavamo di esser bruciate vive. Ci obbligarono a spogliarci e, mentre ci filmavano, mimarono una violenza sessuale. Per finire, mi tagliarono i capelli con un coltello da caccia e mi versarono in testa un disinfettante verde che dopo feci un’enorme fatica a lavar via.

Quando l’uomo debole si sente minacciato, ricorre alla violenza.

La Shevchenko attualmente vive in esilio in Francia e fa parte di un collettivo femminista, Femen, che organizza azioni di protesta un po’ dovunque.

Per quanto io non sia una che si dichiara femminista, bisogna dire che siamo tanto indietro sulla strada della parità dei diritti.

Mi si risponde che non siamo come in altre parti del mondo dove ricorrono alle mutilazioni genitali o dove si costringono le bambine a sposarsi a 10 anni.

Ma siamo in un mondo in cui ai colloqui di lavoro ti chiedono se sei sposata e se hai intenzione di far figli, dove ti pagano meno di un uomo a parità di prestazioni, dove il cognome da dare al figlio deve essere quello maschile perché così si è sempre fatto, dove non puoi vestirti come vuoi perché sennò sei una poco di buono, dove ammazzano una donna ogni giorno, dove non puoi fare l’astronauta o darti alla politica perché devi badare alla famiglia, dove è colpa tua se ti violentano, dove la casa la devi pulire tu perché sei la femmina…

Solo due mesi fa ho sentito questa frase nella mia azienda, che, per altri aspetti, è abbastanza liberale: “Ora abbiamo solo rappresentanti maschi. Meglio così”.

Ma nonostante tutti questi aspetti negativi, se provo a parlarne con parenti o amici, mi dicono che sono esagerata, che i femminicidi non mi riguardano (ne è successo uno nel paese qua vicino il mese scorso), che non mi manca niente, che ho potuto studiare.

Dunque devo stare zitta e smettere di lamentarmi. Anzi, devo anche esser grata di ciò che mi è stato concesso. Grazie.

Che poi, diciamolo qua una volta per tutte: io non sono una che si lamenta tanto.

Sbotto solo quando non ho voglia di cambiare le lenzuola o far le lavatrici (perché devo farlo per forza io?) o devo cucinare o alzarmi da tavola per prendere qualcosa (perché sempre io?). Sciocchezze, forse. Ma sono il sintomo che qualcosa non va, neanche nel nostro piccolo ambiente.

Poi, appena una alza la testa e vuol mollare la famiglia perché si è stufata di spiegare sempre le stesse cose, passa per isterica o peggio.

Il messaggio della Shevchenko è che le donne eroiche ci sono, non ci sono solo gli eroi maschi. Solo che non se ne parla.

Lei sprona infine le donne ad unirsi, a sostenersi l’un l’altra e a intraprendere delle azioni che possano avere una valenza politica. Non necessariamente andando in giro a seno nudo come fanno lei e le altre donne del Femen, ma magari indossando una maglietta con un messaggio forte, frequentando certi incontri, parlando di ciò che ci sta a cuore, praticando la sorellanza.

Questo ci dice lei.

Cosa dico io?

Che bisogna partire da noi.

Che quando il titolare ha detto che è meglio avere solo rappresentanti maschi, io ero al 90% d’accordo con lui.

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Sottomissione (Michel Houellebecq) @libribompiani

Libro molto chiacchierato perché parla della presa del potere da parte di un partito islamico in Francia ed è uscito il giorno dell’attacco terroristico a Charlie Hebdo.

Ne ho sentito parlare da alcuni Youtuber, anche termini molto diversi tra loro, e questo è segno che il romanzo dà adito a molte interpretazioni.

La storia non è complicata: Francois è un professore universitario esperto di Huysmans. Insegnare non gli è mai interessato, ma la carriera accademica è ben pagata, prestigiosa, e gli permette di venire in contatto con molte studentesse che gli regalano relazioni tanto focose quanto brevi.

Vive da solo, non ha amici, ha tagliato i ponti coi genitori, mangia cibo surgelato e non si interessa di politica, finché (siamo nel 2022!) un islamico vince le elezioni presidenziali.

La Francia inizia a cambiare: viene ammessa la poligamia e pian piano si modifica l’abbigliamento delle persone che si vedono per le strade; le donne non possono più lavorare e all’università possono insegnare solo professori islamici.

Francois perde il lavoro, ma non si spaventa per niente, perché gli viene data una buona pensione e potrebbe continuare a vivere così.

Ma vivere come?

Non ha interessi, non ha amici, è un uomo senza scopo che ormai pensa al suicidio.

Non vi dico come finisce, anche se si può intuire.

E’ un romanzo sulla sottomissione delle donne all’uomo e dell’uomo alla religione; del ritorno dell’irrazionale, dell’aborrimento della laicità. Ma Houellebecq non ha forse azzeccato alcune tendenze?

Di recente negli USA è stata abolita una famosa sentenza che permetteva alle donne di abortire: non è questa sottomissione delle donne all’uomo?

Le famiglie sono sempre più nucleari, e l’individualismo prevale (di solitudine non parliamo): venute meno le grandi religioni, niente le ha sostituite, se non la grande distribuzione: non è mancanza di senso questa?

E poi, fate attenzione: come ha intenzione di prevalere la religione musulmana nel romanzo? Prendendo il controllo della cultura, della scuola, dai gradi più bassi fino alle università. Tolgono i fondi alla scuola pubblica, ridimensionandone di molto la qualità, mentre le scuole private (islamiche), godendo di aiuti petrolarabi, sono l’unica scelta possibile per genitori che vogliono dare una cultura ai figli.

E’ così che si diffonde un pensiero.

E’ un romanzo, ci mostra il punto di vista di Francois, che non è proprio una bellissima persona: le donne gli interessano solo dal punto di vista sessuale, è cinico, ingeneroso… ma è interessante come, nella mente di Houellebecq, la mancanza di senso porti all’islam.

L’autore ha scelto l’islam, ma forse poteva mettere qualche altro tipo di religione dalle regole ferree e irrazionali (come, a mio parere, sono tutte le religioni: irrazionali). O forse no.

Fatto sta che il modo in cui l’islam, nel romanzo, sale al potere, è perfettamente legale: attraverso gli inciuci politici e – forse – il controllo dei media, che, pian piano, fanno accettare i cambiamenti all’opinione pubblica.

Se infatti ci sono dei tafferugli, all’inizio, Francois quasi non li nota, non ci pensa più di tanto: sì, va a casa di un tipo per star tranquillo, ma non mostra alcuna indignazione, alcun impeto a far qualcosa.

Francois è un intellettuale che potrebbe agire ma non agisce, perché più interessato alla cena da scongelare e alle mutandine della prossima studentessa che alla deriva del suo paese. Forse è questa la chiave di lettura del romanzo: non l’ascesa dell’islam, ma il ritiro dell’intellighenzia nelle torri d’avorio.

Mi chiedo se il romanzo non sia anche una critica velata alla troppa libertà che c’è in giro.

Libertà significa possibilità di scegliere, ma le scelte, in questo mondo, sono sempre più più, e ogni scelta è dolorosa, perché comporta almeno una rinuncia. E le rinunce creano angoscia, se la scelta non ha linee guida, se tutte le opzioni hanno lo stesso valore. Da qui, la necessità di sottomettersi a qualcuno che faccia le scelte per te.

Per chi non lo ha letto, è lo stesso processo di cui parla Fromm in “Fuga dalla libertà”.

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La spiaggia del lupo (Gina Lagorio)

CANDIDATO PREMIO CAMPIELLO 1977

Incredibile come cambi lo stile di scrittura in pochi decenni. In questo libro ho trovato alcuni termini che sarebbe un eufemismo chiamare desueti, oggi: “mongoloide” ad esempio, o l’uso del diminutivo con i nomi dei bambini (“Carlino”… pensavo parlasse del cane di uno dei protagonisti).

Ho guardato in giro le recensioni su questo romanzo, e ho spesso trovato tentativi di leggerlo in senso femminista, solo perché la protagonista, Angela, è una donna che fa delle scelte coraggiose. Dunque ogni romanzo di formazione con un uomo come protagonista dovrebbe essere definito “maschilista”??

Ma iniziamo con la trama…

Angela vive col nonno in una casa sulla spiaggia ligure. La madre lavora lontano e il padre, pittore rinnegato dalla famiglia di origine, è morto.

Da bambina e da adolescente si distingue dal gruppo dei suoi coetanei per la trasparenza e l’ingenuità con cui vede il mondo. Il suo ambiente ovattato viene messo in subbuglio quando incontra Vladi e diventa la sua amante a 19 anni.

Peccato che Vladi sia già sposato, addirittura con una donna che appartiene alla famiglia del padre di Angela.

Angela resta incinta e decide di tenere il bambino, nonostante Vladi non sia molto deciso sulla strada da prendere. Quando la ragazza si sposta a Milano per studiare arte, Vladi le procura un appartamento in cui trovarsi a quattr’occhi, ma il loro rapporto è spesso rannuvolato dalle difficoltà dell’uomo, che deve dirigere una fabbrica in tempi (la fine degli anni Sessanta) a dir poco turbolenti.

Le cose precipitano quando scoppia una bomba in fabbrica e Vladi rimane ferito.

Angela si ritrova a dover riflettere su cosa fare della sua vita e, pur con molti dubbi, decide di continuare a vivere da sola.

Nasce il figlio (il “Carlino”!) ed Angela inizia una storia con un suo maestro, ma non riesce a viverla con l’intensità che aveva vissuto con Vladi.

Non vi dico il finale, preferisco approfondire alcuni passaggi, magari scrivendone li chiarisco anche a me stessa.

Innanzitutto, ho l’impressione che le motivazioni di Angela siano un po’ fumose.

Ad esempio: perché molla Vladi?

Vladi è sempre indeciso tra lei e la moglie; Vladi non prende neanche in considerazione il fatto che lei possa avere delle idee politiche; Vladi vorrebbe che lei rimanesse a casa per fare la madre e la moglie.

Queste sarebbero già motivazioni sufficienti a mollare un uomo, ma lei aspetta. E non lo fa perché ha bisogno dei soldi per quando nascerà il bambino (è sempre stata chiara su questo punto, vuole essere indipendente), né perché non può vivere senza di lui (o almeno a me non ha dato l’impressione di essere pazza di lui quando è a Milano).

Ho l’impressione che resti con lui perché anche lei non sa come comportarsi, e allora lascia passare il tempo continuando a fare quello che faceva prima.

A parte questo, per il resto, Angela non ha difetti. Se fa degli sbagli, vengono giustificati da tanta verbosità che, alla fine, non sono più sbagli, e se fa la musona e non parla, è perché pensa profondamente.

E poi, tutta la sua vita sembra ruotare attorno agli uomini. Ne ha avuti solo due, è vero (il romanzo copre forse una trentina d’anni della sua vita), ma si parla quasi solo di questo. Ci sono accenni alla situazione politica, e ogni tanto pensa al figlio e agli esami, ma tutto resta molto più fumoso, l’autrice mi sembra più preoccupata ad esercitare la sua capacità verbale che a dire chiaro e tondo come stanno i settori della vita di Angela non legati all’universo maschile.

Ad esempio, Angela decide di studiare arte: da dove viene questa passione? Perché di passione dovrebbe trattarsi. Però nel romanzo ci viene descritto solo uno dei suoi quadri, tutto il resto della sua attività artistica resta sullo sfondo, come si trattasse di pratiche burocratiche anonime.

Diciamo che non mi è tanto simpatica, Angela…

Ma non possono essermi simpatici neanche i due uomini: Vladi tiene i piedi in due scarpe e perde più tempo a giustificarsi che a pensare al figlio che deve nascere; Pezzarocchi parla e parla di come lui vede Angela ma alla fine si ha il dubbio che non la guardi sul serio per come è.

Infine, ma qui il libro è il frutto degli anni in cui è scritto, i dialoghi… i personaggi parlano come “libri stampati”, come professori di filosofia e sociologia. La gente non parla così.

insomma… Lo ho letto fino alla fine “solo” perché la Lagorio sta mettere le parole sulla pagina in uno stile davvero curato.

Voto: 3+ (su 5)

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Padre padrone padreterno – Joyce Lussu #femminismo @internazionale

Ma… il femminismo esiste ancora?

Di sicuro non ci sono più femministe come Joyce Lussu.

Una tipaccia: ha fatto la guerra nella resistenza (ed era pure incinta), ha preso una medaglia al valor militare (volevano dargliela senza cerimonia, e lei si è fatta valere), e ogni volta che teneva una conferenza per il partito obbligava gli uomini a portare le mogli, che erano regolarmente assenti.

Di famiglia nobile, laica e benestante, poliglotta, laureata in lettere alla Sorbona di Parigi e in filologia a Lisbona, ha viaggiato molto in Europa e nel mondo. Era scrittrice, poetessa e traduttrice.

Il libro che ho letto è breve, e rivede la storia mondiale dal punto di vista della donna.

Certe affermazioni storiche mi sono sembrate semplicistiche o, perlomeno, un po’ fuorviate, come, ad esempio, queste:

L’impero romano decadde, come tutti gli imperi, per una crisi di manodopera.

Il grande terremoto della Rivoluzione d’Ottobre aveva dimostrato che le masse possono vincere contro la classe dominante e che l’industrializzazione si può fare al di fuori del sistema capitalistico.

Ora c’era la Rivoluzione cinese, la prima vittoria rivoluzionaria non europea.

Tuttavia, altre parti denotano una notevole chiarezza sulla situazione femminile:

Il femminismo massimalista, con le sue proposte riduttive e alienate, in quanto improponibili a livello di massa (il rifiuto del maschio; il lesbismo come liberazione; i bambini in provetta e allevati in batteria, come i polli; l’atteggiamento acido e vendicativo verso l’uomo-lupo, come se noi donne fossimo dei candidi agnelli), non matura nessuna collocazione storica e nessuna prospettiva.

Se le donne devono ancora fare della strada in direzione della completa parificazione (soprattutto qui in Italia, dove il cattolicesimo ha fatto e fa danni), la strada va fatta insieme al maschio, non contro; e non si può prescindere dalla situazione economica (lei parla ancora di classi, ma se togliamo questa parolina, ormai priva di significato, la sua analisi rimane attualissima).

Posso dire la mia?

Il libro è del 1976 ma… Non sono molto ottimista.

E non mi riferisco solo al lavoro, dove le donne non sono ancora parificate; né solo alla famiglia, dove per mio marito (e per tanti altri) è normale, dopo cena, alzarsi e andare a guardare un film lasciando tutto sulla tavola.

Mi riferisco alla mancanza di solidarietà femminile, che genera assenza di dibattito, assenza di consapevolezza di interessi comuni.

Mi riferisco alle giovinette, che non si accorgono neanche di essere ridotte a esseri estetici, considerando superfluo quello che hanno dentro al cranio (e loro sono contente così!).

E mi riferisco… al meccanico che, quando gli porto la macchina (mia, e di cui pagherò io la riparazione), chiama mio marito per spiegare cosa ha fatto e chiedere cosa deve fare…!

Ci rido sopra ogni volta, però è sintomatico.

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Il racconto dell’ancella – Margareth Atwood

La storia è raccontata in prima persona dall’ancella stessa. Il suo nome è Difred, cioè appartenente a Fred. Ci troviamo in una distopica repubblica nordamericana nella quale, sotto un regime teocratico, le ancelle sono le uniche donne in grado di procreare. Dunque il loro controllo è vitale.

Il mondo è andato a catafascio, a causa delle guerre e delle scorie nucleari, e le donne, soprattutto le ancelle, sono sottoposte a strettissima sorveglianza. Non possono parlare tra loro né ridere né comportarsi in modo strano. La loro vita è dedicata alla procreazione, solo che gli eventuali figli, se nascono senza deformazioni, vengono poi cresciuti dalle mogli degli uomini che le hanno ingravidate.

Le ancelle non possono leggere, niente di niente, e le loro giornate sono scandite da compiti ripetitivi e cerimonie pseudopolitiche. Sono controllate in ogni loro movimento, anche per evitare che si suicidino appena ne hanno l’occasione.

Non succede molto, non è un romanzo di fantascienza avventurosa. E’, invece, un racconto intimista: Difred ci narra quel poco che le succede intervallando numerosissimi flash-back. E’ quasi un romanzo di memorie: ed è proprio la memoria a causare la sofferenza maggiore, quando lei si ricorda del marito Luke e della figlioletta che le è stata sottratta.

Il fatto che lei racconti la sua storia, però, è un sintomo di speranza. Lei non ha più il suo passato, se non nel ricordo, e le resta solo la speranza per il futuro. Lei e le altre ancelle sono così sottomesse da aver rinunciato a ribellarsi.

O forse no?

Il cuore umano rimane un fattore non trascurabile

E’ una distopia, sì, ma solo per i paesi occidentali. Basti pensare a questa frase, pronunciata da uno degli antagonisti, a quanto può esser applicata a realtà contemporanee relativamente lontane da noi:

Il nostro grande errore è stato di insegnar loro a leggere.

Nel romanzo è solo questione di tempo: le generazioni successive dimenticheranno il passato e con esso spariranno tutti i tentativi di ribellione. Senza lettura, senza racconti, il passato smetterà di ispirare libertà.

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L’età del malessere, Dacia Maraini

A volte mi capita che un romanzo non mi piaccia perché… è scritto troppo bene.

Mi spiego: i romanzi son fatti di personaggi, e se i personaggi sono molto reali, allora tu, per tutto il tempo della lettura, trascorri le tue ore con loro.

Nel caso de “L’età del malessere”, ho frequentato gente senza un minimo di progetto nella vita: gente che si lascia trascinare dall’impulso del momento, e questo indipendentemente dal loro livello di studio o dal loro ceto economico.

Tutti i personaggi del libro si lasciano vivere, si lasciano trascinare dai propri impulsi o dagli altri senza rifletterci su. Dopo aver appena letto il saggio di Mancuso sulla libertà da e libertà per, la cosa mi ha davvero appesantito gli occhi davanti alla pagina!

Mi chiedo inoltre se un romanzo così, dove nessuno si salva (salve la protagonista, che aspetta le ultime righe per farlo) possa considerarsi realistico. Possibile che nessuno si sollevi dalla massa?

E poi questa Enrica: passa uno in macchina, la carica su e lei ci va a letto… sono una dannata moralista, ma mi dà fastidio frequentare gente così! E non dipende dal fattore “sesso”: se avesse gettato in terra una carta perché qualcun altro gliel’aveva chiesto, mi avrebbe dato lo stesso fastidio.

Per non parlare di come si fa trattare da quel ca…ne di Cesare!

No, no, io non posso frequentare queste persone qui.

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Uccidere il cancro – Patrizia Paterlini-Bréchot

Bella questa autobiografia (anche se credevo si trattasse del solito manuale su cosa mangiare e quanto allenarti). La prof.ssa Paterlini, italiana con cattedra di biologia cellulare e molecolare all’università di Paris-Descartes, si racconta sia dal punto di vista professionale che personale.

E’ un testo pieno di speranza: la Paterlini ha sviluppato un sistema per verificare se nel sangue ci sono cellule tumorali circolanti, in modo da stanare un cancro prima che diventi visibile agli esami con imaging. La tecnica fa uso di una macchina che ha brevettato lei (si è dovuta anche improvvisare industriale, perché non trovava nessuno che le finanziasse la produzione dei prototipi) e che sfrutta la differente grandezza delle cellule ematiche e tumorali per scovare tumori allo stadio iniziale. E’ riuscita, partendo da una macchina che filtrava il latte, a crearne una che filtra il sangue in verticale (mentre di solito il sangue viene filtrato con una specie di centrifuga). Ed ha dovuto anche brevettare una sostanza per rendere filtrabile il sangue senza rovinarlo.

Lo ripete più volte nel corso del libro: il cancro è mortale solo quando gli si dà il tempo di diventarlo. Anche i c.d. tumori fulminanti sono tumori che sono rimasti nel corpo a lungo, a volte per anni, prima di dare sintomi: e quando i sintomi sono arrivati, è già troppo tardi, per qualcuno.

Durante la lettura, l’ho percepita, oltre che molto competente e determinata, anche umana: si sente investita di una missione perché soffre quando vede un paziente soccombere alla malattia, non lo fa per ottenere onori e attenzione mediatica, e dedica diversi paragrafi del libro a descrivere le vicende di alcuni suoi malati.

La macchina che permette di stanare cellule maligne nel sangue, e che potrebbe ridurre moltissimo i casi di decesso grazie alla tempestività dell’intervento, dunque, esiste, ma è ancora poco diffusa. Perché bisogna comprarla? No: perché non fa guadagnare alcuna multinazionale. Nel libro ci sono ampi passaggi dedicati alle multinazionali del farmaco e a come influenzano la ricerca scientifica, le prescrizioni di medicinali, le pubblicazioni sulle riviste.

E, a proposito di pubblicazioni sulle riviste scientifiche, la Paterlini ci dà un’ampia panoramica di come il sistema del peer-review mostri il fianco alle critiche. In pratica: per pubblicare su una rivista (ricordo che la pubblicazione è quasi l’unico modo per convincere enti e istituzioni e rilasciare fondi per la ricerca) bisogna passare l’esame di una commissione medica di pari (peer) che sono e restano anonimi. Il problema è che la concorrenza in campo scientifico è enorme. Se i revisori sono competenti nel campo su cui verte la ricerca, è probabile che si tratti di concorrenti che lavorano sullo stesso argomento: la mancanza di obiettività è sempre in agguato. Se invece i revisori sono più lontani da quel campo di ricerca, di solito sono meno compromessi, ma è anche probabile che non dispongano delle competenze necessarie per valutare bene tutti i contenuti della ricerca. E quel che è peggio, è che i revisori possono rifiutare la pubblicazione di una ricerca senza dare motivazioni (il che è quello che è successo alla Paterlini: se danno delle motivazioni insufficienti, ci si può appellare all’editore, ma se non ci sono motivazioni, non puoi attaccare il verdetto).

Dunque: da un lato, onore e gloria a ricercatori come la Paterlini che con tanta, tanta, tanta resilienza si danno da fare per combattere questa malattia. Dall’altra, vergogna, che una ricercatrice del genere, e tanti altri come lei, sia dovuta emigrare in Francia perché qui il baronaggio non le avrebbe dato via di uscire allo scoperto.

Sono sempre più stufa di questa Italietta.

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Questa non è l’America – Alan Friedman

Ma perché leggo libri che poi mi innervosiscono? L’informazione non ha nessun senso se poi non puoi influire sulla realtà… comunque, facciamoci del male.

Friedman analizza gli Stati Uniti dell’era Trump.

Perché molti si dicevano che Trump si sarebbe dato una calmata, che dopo eletto si sarebbe piegato ai principi della Realpolitik e della diplomazia, che non poteva fare davvero quello che minacciava. E invece…

La società americana diventerà sempre più la società Walmart, composta da lavoratori nel terziario, quasi tutti nel settore dei grandi centri commerciali. Quasi tutti con lo stipendio minimo di 7,25 $ all’ora, dunque praticamente obbligati a ricorrere ai food stamp e all’Obamacare. Finchè ci saranno. Walmart, di proprietà della famiglia più ricca d’America, non accetta i certificati medici per maternità, e il licenziamento in gravidanza è più la regola che l’eccezione. E le clausole dell’assicurazione che la Walmart stipula per i suoi dipendenti prevendono che, in caso di risarcimento assicurativo esterno (cioè con assicurazione non-Walmart), la Walmart possa fare causa al dipendente per rifarsi delle spese sostenute (è il caso di un dipendente che ottiene un rimborso assicurativo per incidente fuori dell’orario di lavoro). E questi sono solo un paio di esempi…

Ma i punti che più mi hanno preoccupato non sono stati quelli relativi al razzismo contro i neri o i messicani, né le difficoltà dei poveri statunitensi (che in certe zone sono presi peggio dello Zambia o dello Zimbawe). Sono stati quelli che possono influire su noi italiani, o perché imiteremo gli americani fra cinque o sei anni, o perché ne verremo coinvolti nostro malgrado.

Ad esempio: le lobby farmaceutiche. In America sono già potentissime. I medicinali costano il doppio e una visita specialistica può arrivare fino a tre volte di quello che spenderemmo noi in privato. America: Shame on You. Se accettano questo in America, tra un po’ sarà naturale anche in Italia.

(…) gli Stati Uniti hanno una spesa medica pro capite superiore a quella di ogni altra democrazia industriale avanzata del mondo, in cambio di trattamenti nettamente inferiori.

(…) Negli Stati Uniti si eseguono circa il triplo delle mammografie rispetto alla media dei Paesi occidentali e si effettuano risonanze magnetiche in un numero superiore di due volte e mezzo, e quasi un terzo di parti cesarei in più.

Ad esempio: le lobby delle armi. Trump ha ottenuto un ingente aiuto dalla NRA (National Rifle Association), una delle maggiori produttrici di armi. Se negli States muoiono all’anno circa 300.000 persone per colpi di arma da fuoco, la cifra è destinata ad aumentare, perché questi signori, insieme a Trump, vogliono smantellare i già pochi controlli che ci sono sulle vendite di armi. Certo, qui andrebbe dato un giro di vite a tutto il popolo americano, se una delle mode imperanti è sfoggiare un fucile d’assalto nel salotto di casa; sta di fatto che molte stragi nelle scuole sono state fatte con fucili miliari che quasi chiunque può comprarsi. Ma non si possono apporre limitazioni: la maggioranza del parlamento è terrorizzata dai big delle armi, perché questi signori minacciano di non appoggiare più la tua campagna elettorale (lo stesso Obama si è sbottonato solo verso la fine del suo secondo mandato, quando non correva rischi). America: Shame on you!

Altra cosa che mi spaventa: Trump ha messo ai vertici di controllo del mercato finanziario cinque ex Goldman Sachs.

Non appena il governo Trump ha cominciato a prendere forma (…) Goldman Sachs ha visto il prezzo delle proprie azioni schizzare alle stelle.

Gente che ha causato la bolla finanziaria che ha portato alla crisi mondiale da cui non riusciamo più ad uscire.

Tra i loro obiettivi c’è lo smantellamento della legge Dodd-Frank del 2010, introdotta dall’amministrazione Obama sull’onda della crisi finanziaria. La Dodd-Frank vieta alle banche di utilizzare i depositi dei clienti per fare trading sui mercati finanziari con operazioni rischiose – ovvero, le pratiche speculative che sono state le prime responsabili della crisi stessa.

Perché, dicono Trump e i suoi amici, il mercato sa quello che fa, e bisogna deregolamentare. Togliamo i controlli, e gli operatori si regoleranno da soli. Certo, come no.

Ognuno di loro è fermamente convinto della necessità di tagliare le tasse sulle imprese e di rompere il più possibile i lacci che frenano Wall Street; ognuno di loro crede fermamente che si debbano scatenare gli “istinti animali” del mercato.

Guardiamo poi alla salvaguardia dell’ambiente, che oramai non riguarda più la sola politica interna. Trump ha nominato Segretario dell’Energia un certo Ryan Zinke, innamorato delle armi, negazionista del cambiamento climatico, contrario alle energie pulite (e sostenitore di petrolio e gas); un tipo che

Non ha lesinato sforzi per cancellare le misure federali a protezione di lupi, linci e galli della salvia, ha votato per esentare i grandi imprenditori dell’agricoltura e delle risorse idriche dalle limitazioni dell’Endagered Species Act, e ha combattuto ogni tentativo di porre fine al commercio dell’avorio sul mercato nero internazionale.

Mi fermo qui, perché c’è poco spazio e poco tempo per riportare tutti i dettagli della ricerca di Friedman su questo nuovo governo.

Dico solo due cose:

  1. solo gli stra-ricchi possono candidarsi alla presidenza americana. Per forza poi vengono fuori tipi del genere.
  2. Trump ha manifestate disprezzo per l’Euro e l’Europa. Un motivo in più per tenerci stretto l’Euro e l’Europa. Trump è un esponente del “ognuno per sé”, dunque se lui dice che l’Euro e l’Europa fanno schifo, vuol dire che possono (se gestiti bene) offrire la base per una concorrenza futura.

 

 

 

 

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Streghe – Lilli Gruber

Ero contraria alle quote rosa, prima di leggere questo libro. Dicevo: perché favorire una donna semplicemente in quanto donna? Bisognerebbe andare per merito, non per genere!

Ma ragioniamo come funzionano le cose adesso in Italia: si viene eletti per merito o perché si è uomini? Ribadisco: siamo in Italia; e in politica succede quello che succede nelle scuole, nelle università, nelle aziende private. Se si può, meglio un uomo,  e se proprio non si può, la donna si paga meno, almeno finché non inizia a rompere le scatole con maternità ecc…

All’estero le quote rosa (anche se bisognerebbe approfondire come vengono intese) hanno permesso un miglior equilibrio rappresentativo, e, guarda caso, non hanno comportato una riduzione della natalità per le donne impegnate in politica: certo i servizi alla maternità aiutano (asili nido, sgravi fiscali per certe spese ecc…). Ma chi si batte per attivare questi servizi, se in parlamento ci sono solo uomini? 

Qui siamo in Italia. Con un Vaticano che, anche se non lo dice, vede meglio le donne davanti alla stufa a pellet, che in politica o nei CdA delle aziende. Con le mamme di settant’anni che pelano le mele ai figli di quaranta. Con le famiglie in cui le bambine devono imparare a sparecchiare la tavola, mentre i figli maschi possono stare sul divano a guardare la TV.

Consiglio caldamente la lettura di questo libro alle donne. La Gruber ha intervistato un bel po’ di gente (Tito Boeri, Giuliano Ferrara, Valeria Parrella, Sofri, Rossana Rossanda, Gianna Nannini, D’Alema, Natalia Aspesi, Littizzetto…), nel nostro paese e oltre frontiera, ha sentito suore e prostitute, ha visitato centri antiviolenza e per l’assistenza all’aborto, donne con figli e madri single, studentesse fuggite all’estero e capitane d’industria…

Anche lei era contraria alle quote rosa, ma ha cambiato idea. Purtroppo la situazione italiana è questa, e serve una forzatura iniziale per cambiarla. Senza mai dare per scontate i diritti che abbiamo ottenuto. E possibilmente nutrendo meglio il dialogo tra donne, che al momento è messo in disparte da altri problemi contingenti.

Sono rimasta di stucco leggendo dell’ultima strega condannata in Svizzera, nel 1782, per aver stregato e fatto morire una bimba di otto anni. Nel 2008 la popolazione era favorevole alla riabilitazione. Ebbene: Chiesa protestante, partito di destra populista e l’Unione democratica di centro erano CONTRARIE!! Come si può essere contrari a un omicidio per stregoneria nel 2008?

 

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