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Excellence patterns of Italian craftsmen in food branch

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The Italian title of this essay is “The alchemist craftsman“. This research tries to understand wich are the ingredients of excellence in the food branch of the North-East Italy, and the question arises because, despite the crisis and the pessimism, these realities have grown.

Well, when I say that an Italian artisan firm has grown, please do not look for a giant in the American way. I mean that such firms are going better than before, that they are developing on a turnover and innovation point of view.

It can seems strange to an American eye that a (often) family-based reality can get good results, but this is exactly what it happens. And still more curious, the dimensional growth is not always one of the purposes of these firms, because it could lead to a lower power of control on the final product.

This survey, made through interviews by the author (a sociologist) and his partners, can cancel a lot of preconceptions in your mind. For instance, you can believe that a family-based firm will have big problem during a generation passage and that the young people are forced to enter into relatives’ work because they have no other alternative. Or you can be convinced that you absolutely have to sell abroad, that artisans do no make any kind of marketing and that the hands are their first and unique production instrument.
Well, you will see that your ideas are not so reliable!

The study of these 20 firms shows that the issues are not due to size. Some problems can arise from the lack of an istitutional training, from a too closed credit system or from a very silly bureaucracy, and we hope that this book will give some starting-points to work on in the future.

In the meanwhile, if you want to give a look to author’s curriculum, you can see his Linkeding profile here.

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L’artigiano alchimista – Ludovico Ferro

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Le crisi non hanno gli stessi effetti su tutti. Ce lo dimostra la fondazione di grandi imperi come Fortune Magazine (fondata appena 90 giorni dopo la caduta delle borse del 1929), Fedex e Microsoft (recessione dei primi anni Settanta), Hewlett-Packard e Revlon (grande depressione), Standard Oil (1865, ultimo anno della Guerra Civile), e molte altre.

“Ma questi sono i soliti colossi industriali americani, quello è un altro mondo” ci dicono.

Sbagliato.

Il sociologo Ludovico Ferro ci dimostra che anche nel nostro Veneto ci sono molte realtà d’eccellenza. In particolare questo studio ne analizza venti nel settore agroalimentare, tramite lo strumento empirico dell’intervista; e si tratta di aziende artigiane, piccole per gli standard americani, a volte microscopiche, ma che, nell’impaurito panorama prospettatoci dai media, spiccano come esempi di controtendenza. E che soprattutto occupano una fetta non indifferente di operatori.

I luoghi comuni da sfatare sono tanti. Il primo, è che la crescita dimensionale si un elemento necessario per l’eccellenza. I dati raccolti dallo studio ci mostrano artigiani orgogliosi della qualità del proprio prodotto, ma che non smaniano di diventare più grandi, anzi, li vediamo a volte sospettosi verso la grande distribuzione e l’allargamento del bacino dei clienti, se questo può ripercuotersi negativamente sull’immagine “familiare” e sul controllo diretto che esercitano sulla loro filiera produttiva.

Un altro mito da dimenticare, è legato al passaggio generazionale: si pensa spesso che i figli subentrino ai padri perché non hanno trovato altri sbocchi nel mercato del lavoro. A volte può essere così, ma sono sempre più frequenti gli esempi di giovani che entrano nell’azienda di famiglia dopo percorsi di consapevolezza che li ha portati a fare esperienza in altri settori. Non si tratta quasi mai di scelte di ripiego, e soprattutto gli esiti sono – a giudicare da queste interviste – molto positivi.

Il che non vuol dire che i passaggi generazionali non mostrino le loro incognite, ma di sicuro la scelta di entrare nell’azienda familiare non è più scontata: per questo è più consapevole.

Scordiamoci anche l’immagine dell’artigiano che lavora solo con le mani e che rifiuta ogni innovazione tecnologica. Gli investimenti nelle “macchine” ci sono, e può variare la percentuale di automazione rispetto al lavoro manuale: quello che non può mai mancare è l’elemento umano, la fonte delle decisioni sul cosa e quanto automatizzare. L’importante è garantire sempre la miglior qualità possibile e tenere fidelizzato il cliente e “farsi cercare”.

Tutto bello e lindo, dunque?
In confronto alle aziende che chiudono e lasciano a casa i lavoratori, sì, certo. Ciò non toglie che i soggetti istituzionali debbano impegnarsi di più su certi fronti: in primo luogo quello creditizio, ancora troppo lontano dalle reali necessità artigiane. In secondo luogo, nel campo della formazione, che al momento ci mostra un vuoto pericoloso. In terzo (ma non ultimo) luogo, sul lato burocratico, che impastoia e rallenta anche i più volenterosi. Un altro punto può essere, poi, la tutela ambientale.

Aziende eccellenti, dunque.
Attenzione però: non si deve essere ossessionati dall’eccellenza. Meglio parlare di qualità diffusa, tenendo sempre conto dei rischi e senza velleitari esclusivismi.

Sapete una cosa? A forza di leggere di millefoglie e pane fresco, e di vedere foto di pastine e cioccolatini, a me è venuta fame!

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