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E’ l’11/09: ma l’esercito statunitense sa farsi odiare

Senza nulla togliere alle colpe di chi ha attaccato le Torri gemelle… ma per pura coincidenza ho finito oggi di leggere “Il racconto del disertore” di Joshua Key, e il ruolo da vittima dell’11/09, sul quale gli americani puntano tanto, va molto ridimensionato (anche se poi a rimetterci sono sempre i civili).

L’invasione dell’Iraq ha sfruttato l’ondata emotiva dell’11/09 per motivi strategici e di potere che hanno poco a che fare con le Torri Gemelle e le loro vittime, questo lo sanno tutti, ma leggere il racconto di Key ce lo ricorda con molta vividezza.

Innanzitutto, guardiamo come lo hanno reclutato.

Joshua Key viveva in Oklahoma in una roulotte insieme alla famiglia. La madre passava da un compagno all’altro, da una scarica di botte a una settimana di depressione che non la faceva alzare dal letto. Lui, fin da piccolo, impara a maneggiare armi e fucili anche di grosso calibro: passa il tempo libero a scorrazzare per le strade e a distruggere con la mazza da baseball le cassette della posta dei vicini.

In paese regna sovrano il razzismo: neri, asiatici, arabi sono diversi, inferiori, pericolosi.

Libri e giornali in casa non se ne vedono, l’alcool è un compagno quotidiano e quando non c’è da mangiare, i bambini devono andare dal nonno per rimediare un boccone.

In questa situazione, i reclutatori dell’esercito si presentano alla porta e offrono uno stipendio fisso, l’assistenza sanitaria (oh, l’assistenza sanitaria!!) e 20.000$ di copertura spese universitarie.

Attenzione: i reclutatori non si presentano alle porte dei medici, degli ingegneri, dei politici. Vanno dai morti di fame, tanto che il loro lavoro negli States viene denominato “Caccia al povero“.

Ma doppia attenzione: quando Joshua Key si trova sul lastrico con una moglie, due figli piccoli e un terzo in arrivo, e decide di arruolarsi per tirar su qualche soldo, perché non ha neanche i mezzi per farsi togliere i calcoli renali, va dai marines.

E col cavolo che i marines lo prendono: famiglia troppo numerosa e, soprattutto, troppi debiti col fisco e con la carta di credito. Non vogliono mica le cacchette, i marines.

Al ragazzo non resta che provare con l’esercito. E là l’accoglienza è completamente diversa. Il reclutatore lo tratta gentilmente, gli offre sempre dolci e caffé (che per Joshua all’epoca erano quasi dei lussi), lo invita ad andare a fare jogging insieme. Un amico, quasi.

Quasi.

Perché Joshua non sta cercando di andare in guerra. Il suo scopo è far sopravvivere la sua famiglia: chiede più e più volte se sarà obbligato ad uscire dal suo paese, se sarà obbligato a partecipare ad azioni militari, e ogni volta lo rassicurano dicendogli che dovrà solo far saltare e costruire ponti nel suo paese.

Per legge, con una famiglia numerosa come la sua, lui non potrebbe arruolarsi, ma il reclutatore gli dice di non far menzione del terzo figlio in arrivo e di non far girare la moglie nei pressi della base militare.

Quando poi gli fanno firmare l’ultima documento, non gli fanno neanche leggere tutto il contratto, gli fanno saltare le clausole scritte in piccolo, e lui si fida. Non è abituato a leggere, e poi là sono tutti gentili, perché dovrebbero cercare di fregare uno del loro paese?

Durante l’addestramento gli insegnano ad odiare i musulmani. Non si parla mai di civili: gli iracheni sono sempre pericolosi, terroristi, assassini. I civili non vengono neanche nominati, come se non ce ne fossero.

Arrivato in Iraq, fin da subito è chiaro che tutte le promesse fattegli dal reclutatore erano aria fritta.

Joshua deve partecipare ai raid nelle case dei civili: lo scopo è trovare armi (magari di distruzione di massa) e arrestare tutti i maschi sopra il metro e cinquanta di altezza, indipendentemente dall’età.

In più di 200 raid, in sei mesi e mezzo di attività in Iraq, Joshua non troverà mai nessuna arma. Se ce ne sono, sporadiche, sono quelle che quasi ogni americano medio tiene in casa per difesa personale. Nelle case ci sono di solito donne e bambini, e gli uomini/ragazzi che vengono portati via (non si sa dove) non mostrano nessun tipo di aggressività. Terroristi: zero.

Non è che la sua squadra non venga mai attaccata: si trovano spesso sotto una pioggia di granate, ma non sono mai riusciti a vedere un iracheno armato.

La frustrazione è alta, dormono in media due ore per notte, il rancio fa schifo, cadono bombe, la temperatura si attesta sui 40-45°C, non ci sono né acqua corrente né servizi igienici (la merda deve venir bruciata in un calderone ogni due giorni): stiamo parlando di ragazzi che non sono abituati a controllare i propri impulsi, che negli USA vivono in case o roulotte fatiscenti.

Non ci vuole tanto prima che inizino a sfogarsi sui civili.

Distruggono le case in cui entrano: fanno uscire donne e bambini e iniziano a spaccare mobili, pavimenti, pareti, frigoriferi, tutto. Armi non ne trovano, ma appena un civile apre bocca, lo prendono a calci e pugni. I soldati arraffano tutto quello che vogliono: soldi, gioielli, tappeti.

Anche Joshua si comporta così nei primi tempi: gli iracheni non gli appaiono come esseri umani, non hanno diritto di proprietà. E poi l’esercito americano gode di impunità, possono fare quello che vogliono, nessuno li ferma.

Poi qualcosa scatta.

Vede dei soldati giocare a palla con le teste di alcuni civili. Vede scoppiare la faccia di una bambina di sette anni che era andata a chiedergli da mangiare. Vede i commilitoni picchiare gente innocente senza motivo. E nessuno dice niente. Lui stesso non può dire niente: chi ci prova si vede lo stipendio dimezzato, come minimo.

Joshua, prima di partire per l’Iraq, credeva nel suo paese e nel suo presidente, come ogni americano medio. Guai a parlargli male degli Stati Uniti, che per lui erano incaricati di mantenere la pace nel mondo e di portare la democrazia ai paesi che non la conoscevano. Sembrano parole ridicole per noi, ma per loro siamo quasi a livelli di fede.

Il suo sogno era vivere per sempre nel suo paesino e fare il saldatore per mantenere la famiglia: al momento presente si trova in esilio in Canada, dove spera che gli concedano l’asilo politico.

I Joshua sono tanti. L’esercito americano è grande, ed è sparso per il mondo. Anche in Italia. Sono soldati addestrati per uccidere che sono convinti della superiorità morale del loro paese, bevono questa convinzione col latte della colazione fin da piccoli.

Key si è accorto che il sistema era tutto sbagliato, ma quanti come lui riusciranno ad abbandonare una vita di credenze così radicate?

Mi chiedo quale potrebbe essere un buon antidoto a questo offuscamento di massa. Il fatto che non avessero libri in casa e che la lettura non rientrasse nel loro schema mentale mi sembra un sintomo del problema. Ma i libri si lasciano scrivere sia a favore che contro determinate campagne.

No, l’antidoto non sono i libri in sé, ma l’autoconsapevolezza. Il ragionamento. L’educazione.

Ci vuole tempo. Qualche generazione, forse.

Di certo, qualcosa bisogna fare, altrimenti, come specie umana, non ci evolveremo mai.

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Tatiana & Alexander, Paullina Simons

Tatiana e Alexander si conoscono in Russia il giorno che Hitler dichiara guerra al loro paese. E’ un colpo di fulmine.

In realtà, però, Alexander non è russo: è figlio dei Barrington, immigrati americani, che si sono trasferiti nella patria del comunismo per motivi idealistici. Attraverso una serie di vividi flash back veniamo a scoprire come i suoi genitori perdono ogni illusione circa le possibilità di rinnovare il mondo per mezzo dell’ideologia politica.

I Barrington sono costretti a cambiare spesso casa e a dividere le loro stanze con sconosciuti; devono svolgere lavori scelti dallo stato, lavori che non sono per niente motivanti e che non garantiscono né cibo né vestiti decenti. La politica russa si ripercuote anche nelle piccole cose, ad esempio, nei nomi degli alberghi, che cambiano ogni volta che un certo personaggio cade in disgrazia.

Se il libro della Simons merita di essere letto, è per questi dettagli storici anche se, nel descrivere l’assedio di Leningrado, sembra sfumare la narrazione, perdere chiarezza. Non credo sia una svista: credo sia dovuto al fatto che questo libro è il secondo di una trilogia, e che l’assedio sia meglio descritto nel primo volume.

Questo libro inizia la narrazione quando Alexander e Tatiana sono già divisi: lui è nelle mani della polizia politica russa, lei è a Ellis Island, libera ma sola, con un figlio appena nato. La loro storia è raccontata attraverso flash back.

Il resoconto della loro storia d’amore, però, mi fa scadere il libro. Era partito come un romanzo storico, ed è scaduto in un romanzo rosa. Peccato.

Sospeso a p. 306 (su 679).

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La Bibbia non l’ha mai detto, Mauro Biglino e Lorena Forni

Mauro Biglino è un cultore di storia delle religioni e, molto importante, traduttore dall’ebraico antico. Lorena Forni è professoressa di filosofia del diritto.

Si sono messi insieme per scrivere questo libro che tratta di bioetica e dei fondamenti delle regole bioetiche nel diritto italiano.

Mettiamola in questi termini: la religione cattolica si sente in dovere di intervenire sullo stato italiano indirizzandone la legislazione in materia di bioetica e lo fa dicendo che si basa sul suo libro sacro, la Bibbia.

Ma la Bibbia è davvero un testo adatto per ispirare una legislazione statale su materie così delicate come l’aborto, l’eutanasia, l’interruzione volontaria di gravidanza e il testamento biologico?

Cerchiamo di essere pratici.

Pensiamo alle lunghissime liste di ammazzamenti, stragi, stupri e atti di pedofilia elencati nell’Antico Testamento. Come si può giustificare tutto dicendo che questi elenchi di efferatezze erano necessari per mostrarci il grande salto operato con il Nuovo Testamento?

Pensiamo a quante migliaia di persone (donne e bambini inclusi) sono state passate a fil di spada per garantire al popolo eletto un territorio su cui vivere. Era Dio che ordinava di ammazzare tutti. O per lo meno, così la storia ci è stata tradotta.

A messa ogni tanto propongono letture in cui compare la parola Elohim. E noi, pecoroni timorosi di chiedere, crediamo che Elohim sia Dio. E nessuno sull’altare si premura di spiegarci che non è proprio così.

Gli Elohim (al plurale) probabilmente erano dei capi militari.

Yahweh era uno di questi capi militari. Il più forte. Il più efferato. Il più vittorioso.

I capi militari hanno un compito: far guerra per conquistare territori. E ammazzare in via preventiva donne e bambini, se c’è il rischio che un giorno questi si sveglino e si mettano a far guerra a chi li ha conquistati.

Per nostra fortuna, molta parte dell’etica contemporanea e della legislazione che ne è espressione non ha nulla a che vedere con la morale e la giustizia bibliche.

Ecco in soldoni di cosa parla la Bibbia secondo Biglino: non parla di Dio, ma della storia di una famiglia per conquistare il suo spazio vitale.

E’ dunque dura appoggiarsi a un testo del genere per negare il diritto all’aborto e la necessità di una legislazione sul fine vita, visto che nella Bibbia non c’è un diritto assoluto alla vita in quanto tale.

La argomentazioni di Biglino sono complesse e difficili da riassumere in un post. Però sono convincenti, perché, giustamente, per interpretare un testo puoi sì sfruttare riferimenti extratestuali, però per prima cosa devi analizzare il testo scritto così com’è, non puoi interpretarlo prescindendo dalla sua lettera.

Quello che mi convince meno è il salto logico che Biglino compie quando parla della creazione.

Ci sta che il verbo utilizzato dal testo originale non parli di vera e propria creazione dal nulla; ci sta che il verbo originario parli di trasformazione, di costruzione con materiali preesistenti. Quello che mi lascia perplessa è che Biglino affermi che il materiale preesistente con cui gli elohim hanno creato l’uomo possa essere il DNA. In un punto arriva a definirli “ingegneri genetici”. E, sempre attenendosi alla lettera del testo in ebraico antico, dice che gli elohim hanno creato gli uomini per compiere il lavoro che era troppo gravoso per loro: hanno progettato e costruito degli schiavi, insomma; e ci sono riusciti dopo vari tentativi andati male.

Ecco: la tesi creazionista fa ridere, al giorno d’oggi; ma anche questa è un po’ stiracchiata.

Per quanto nella mia ignoranza non mi senta di escludere alcuna ipotesi, credo che per indagare la nascita dell’uomo siano più affidabili gli strumenti scientifici che un testo scritto migliaia di anni fa basandosi su racconti orali ancora più vecchi.

 

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