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Foglie cadute – Adeline Yen Mah

Questa è l’autobiografia di Adeline nata nel 1937 a Tianjin, Cina.

Due settimane dopo la nascita, sua madre muore di infezione puerpuerale. Il padre si risposta con una donna bellissima, mezza cinese e mezza francese: in quegli anni, tutto ciò che è occidentale viene considerato superiore, e avere una moglie per metà europea è motivo di grande orgoglio.

La matrigna dà alla luce altri due figli, un maschio e una femmina.

Le differenze di trattamento tra i figli della prima e della seconda moglie sono subito evidentissimi: quello che mi ha lasciato perplessa durante la lettura è l’atteggiamento del padre di Adeline, totalmente sottomesso, obbediente come una scimmia ammaestrata.

Non si tratta solo di diverse dosi di affetto familiare: i figli di Jeanne sono vestiti in modo elegante, alla moda, mentre i figli della prima moglie sono costretti a indossare le divise della scuola. Gli amici della coppia se ne accorgono e chiedono le ragioni di questa disparità: purtroppo però nell’autobiografia non viene riportata la risposta del padre (era un uomo ricco, molto in vista nell’alta società del tempo).

Disparità ci sono anche nel cibo, nei giocattoli, nelle stanze dei bambini.

Leggendo delle ingiustizie di cui Adeline è fatta vittima (ma non solo lei), leggiamo anche la storia della Cina e di Hong Kong del Novecento, una storia che influenza la famiglia sia nelle ricchezze che negli spostamenti.

Adeline, nonostante le differenze di trattamento, riesce a diventare medico negli Stati Uniti e finisce anche per aiutare Lydia, la sorella maggiore, che l’aveva sempre maltrattata, e il di lei figlio, che studia al conservatorio grazie alla zia.

E’ un libro che ho letto in due giorni (314 pagine): mi sono appassionata a questo scontro di forze del bene e del male (per quanto si debba sempre ricordare che è un’autobiografia, dunque la visione può essere parziale), e non vedevo l’ora di arrivare alla fine per capire se alla fine Adeline sarebbe venuta in possesso della sua parte di eredità.

Sebbene il libro mi sia piaciuto, l’impressione generale che ti lascia in bocca è che non puoi fidarti di nessuno. I rapporti di forza e le insidie insite nella famiglia di Adeline sono così subdoli e ripetuti che fanno scricchiolare la tua fiducia nel genere umano: insomma, se fratelli e genitori si comportano così, cosa possono fare a chi non è della famiglia?

Amaro in bocca.

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Creatura di sabbia – @Tahar_B_Jelloun

Romanzo fuori dal comune, visionario, fiabesco, sensuale, comunque ispirato a una storia vera.

Marrakech. Ahmed è l’ottavo figlio dopo sette sorelle. Vive da uomo, gestisce il patrimonio familiare ed impedisce che l’eredità paterna venga distribuita fra gli zii, si comporta da uomo quando è necessario, addirittura si sposa… ma Ahmed è una donna. E’ nata donna e il padre lo ha tenuto nascosto al mondo.

Ahmed accetta il suo destino per anni; per anni ubbidisce alla volontà paterna. Poi, dopo una crisi che lo/la porterà a ritirarsi dal mondo, uscirà dalla propria camera per ritrovare la sua identità. Finirà in un circo come attrazione ambigua: e per un certo periodo sarà anche felice, finché il mondo non gli farà pagare l’annoso furto di personalità.

La sua storia è raccontata attorno al fuoco da beduini e mercanti, in seguito al ritrovamento del suo manoscritto. Quando il proprietario del manoscritto morirà e il documento sarà dato per disperso, ci penseranno i suoi compagni a completare la storia, ognuno a modo proprio.

Per me, che col francese ci marcio poco, non è stata una lettura facile, perché lo stile è molto poetico, pieno di visioni, sogni ed immagini, e dopo un po’ il ritmo rallenta. E’ comunque un romanzo che fa riflettere sull’imposizione dell’identità da parte della società.

E’ una letteratura che racconta una storia estrema, ma metaforica: un exempla di come i ruoli sociali possono stravolgere le persone.

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La casa della gioia, Edith Wharton @CasaLettori

Lasciatemi un attimo, che mi riprenda dalla drammatica fine di questo romanzo…

Ecco, adesso ce la faccio.

Lily Bart è una bellissima donna della New York dei primi anni del Novecento. Viene da una famiglia caduta in rovina, è orfana, senza mezzi, ma è abituata al lusso e dotata di modi squisiti, e indispensabili, per l’alta società del tempo. Per queste ragioni, le signore se la contendono come fosse un trofeo da mostrare alle numerose feste della Saison.

Ma la vita che conduce, costringe Lily a spendere più di quello che la sua magra rendita e l’aiuto di una vecchia zia le permettono. L’unica soluzione davvero definitiva sarebbe sposare un ricco. E le occasioni non le mancano, data la sua bellezza e la sua grazia.

Eppure… eppure finisce sempre col mettersi nei guai. Parlerei quasi di autosabotaggio.

Perché Lily, in fondo, pur anelando ad appartenere a quel mondo pieno di luci, ne sente anche la vacuità.

Non è un personaggio facile, Lily. La sua smania di lusso me la fa sentire estranea, all’inizio: la nostra mentalità moderna ce la rende incomprensibile, soprattutto quando capiamo che si innamora del giovane e intelligente avvocato Selden, ma che non accetta di sposarlo perché lui non può garantirle il lusso che lei vorrebbe.

Pian piano Lily scende nella scala sociale, di gradino in gradino, fino a una delle infamie più dissacratorie: la necessità di lavorare per vivere (sob!!).

Lily Bart è un essere combattuto, che si comporta esternamente in un modo ma che, internamente, critica ciò che fa e le ragioni per cui è costretta a farlo. Le astuzie a cui si riduce per accalappiarsi i ricconi sono rese possibili dalla sua intelligenza e dalla sua capacità di indagare i fini ultimi delle persone; eppure tutto ciò non basta, e Lily finirà male. Molto male. Quando sembra che ci sia un filo di luce, un’ombra di redenzione… niente, finisce male.

Il finale tragico è inevitabile per due ragioni:

  1. l’orgoglio.
  2. L’educazione.

Sono questi i due diavoli che impediscono a Lily e Selden di capirsi; e sebbene le regole di quella società siano molto diverse dalla nostra, i moventi del comportamento individuale sono sempre gli stessi. Si cercano i soldi, per ottenere altro. Ma alla fine i soldi diventano lo scopo, e lo scambio tra obiettivo e mezzi diventa fatale.

Edith Wharton doveva fare la psicologa: certe sfumature emotive solo una psicologa (donna) poteva illuminarle così.

Solamente un neo nel libro: questa edizione è piena di refusi.

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