Romanzo breve, appena 140 pagine, ma densissimo: all’interno troviamo la storia di tante, tantissime donne giapponesi arrivate negli Stati Uniti nella prima metà del Novecento, per sposare uomini di cui, nella stragrande maggioranza dei casi, non sapevano nulla.
Partivano con una lettera in mano o una foto, ma le parole e le immagini spesso si rivelavano, al loro arrivo, delle mere bugie: l’uomo che diceva di essere il proprietario di un ristorante, in realtà era uno sguattero; quello che diceva di dirigere una catena di lavanderie, in realtà era addetto alla stiratura; quello alto e con gli occhi intensi, in realtà era il cugino dell’uomo che la donna avrebbe dovuto sposare.
Poi gli anni passano, e le ragazze si adeguano al lavoro, ai soprusi, ai figli e alle loro morti. Sono poche quelle che hanno una vita facile.
E poi c’è Pearl Harbour: arrivano i sospetti, le sparizioni, i trasferimenti di massa.
E’ interessante lo stile: nei primi capitoli, sono le donne giapponesi a palare col “noi”.
Le assicurazioni ci cancellarono la polizza. Le banche ci congelarono il conto. I lattai smisero di consegnarci il latte a domicilio.
Nell’ultimo, quando le comunità giapponesi iniziano a ridursi ai minimi termini, quando i negozi e le strade che prima erano abitate da giapponesi diventano elementi di una città fantasma, il “noi” cambia. Sono gli americani che si chiedono cosa sia successo, se era giusto che succedesse, e cosa succederà.
Nuovi inquilini cominciano a trasferirsi nelle loro case.
“Noi” e “loro” non solo due pronomi: sono due culture e due destini.
Eppure sono anche pronomi, che ogni gruppo può usare: perché il contenuto di quel “noi” cambia nel tempo. Se oggi noi siamo i vincitori, domani potremmo diventare “loro”. E viceversa.