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Due di due (Andrea De Carlo) @EinaudiEditore

Ci sono libri che quando li cominci sai già come andrà a finire, eppure ciò non ti rovina il piacere di leggerli. “Due di Due” rientra nella categoria.

Mario, la voce narrante, ci racconta la storia della sua amicizia con Guido, dall’adolescenza, alla fine degli anni Sessanta, fino alla maturità.

Guido è un tipo che piace alle donne, insoddisfatto del mondo e sempre alla ricerca di nuovi stimoli. Mario non riesce a sottrarsi al fascino che emana, e per diversi anni lo segue nei suoi interessi, anche se ciò significa mettersi nei guai con i gruppi fascistoidi o farsi rincorrere dalla polizia alle manifestazioni.

Insomma, pur provenendo da due ambienti sociali molto diversi, Mario e Guido sono amici.

Negli anni, si perdono di vista: Mario riesce in qualche modo a creare un piccolo mondo che funzioni secondo i suoi principi restaurando due case in mezzo alla campagna di Gubbio; Guido se ne va in giro per il mondo, Londra, Australia, Stati Uniti, cambiando mille lavori e mille ragazze.

Nonostante le scelte di vita siano così diverse, i due restano periodicamente in contatto.

Guido però è sempre più spiazzato e spiazzante: scopre di possedere una buona vena da scrittore, ma il suo carattere e le sue insoddisfazioni gli impediscono di sfruttarla. La sua vita privata non va meglio: si sposa e fa un figlio, lui che era sempre stato contrario ai contratti matrimoniali, ma non riesce a rispettare le regole che gli impone una vita di famiglia.

Qualche anno fa avevo iniziato “Pura vita” di De Carlo: dopo una trentina di pagine l’avevo messo giù e mi ero ripromessa di non leggere più questo autore. Sono contenta di non aver mantenuto al promessa, perché in “Due di due” lo scrittore usa uno stile completamente diverso, molti meno dialoghi e più introspezione.

Sebbene sia ambientato tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Ottanta, De Carlo ci mette davanti a una personalità insoddisfatta come ce ne sono in tutte le epoche, soprattutto tra i giovani. Quando sei insoddisfatto, o riesci a incanalare le tue energie in modo positivo, o ti bruci.

Indovinate che fine fa Guido?

Quattro stelle su cinque.

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Prostituzione, alcolismo, droga e altre dipendenze

Il tentatore non “mette alla prova”, ma “commette un reato”, e il tentato che cede non è un “colpevole”, ma gode dell’innocenza della “vittima”.

La prostituta in quanto tentatrice è perseguitata dalla legge, mentre il cliente, in quanto cede a una forza a cui non può resistere, è innocente.

Ma perché questa sociologia che fa tesoro delle scoperte scientifiche mantiene la categoria mitico-religiosa della tentazione per lo spacciatore e per la prostituta, e adotta invece la categoria psico-biologica della forza irresistibile per il drogato e il cliente della prostituta?

Per sottrarre al drogato e al cliente anche la sola ipotesi di avere a disposizione la libertà dell’autocontrollo, perché solo persuadendo gli uomini che non si possono autocontrollare si può esercitare su di loro il controllo esterno a cui il potere per sua natura e per sua essenza tende.

(U. Galimberti (“L’ospite inquietante”)

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Works, Vitaliano Trevisan @EinaudiEditore

Siamo nel Nordest (nel libro ma anche io, ci vivo, nel Nordest). In questo memoir, Vitaliano Trevisan ci racconta l’interminabile lista dei suoi lavori: diplomato geometra, un’esperienza con la droga, venditore di cucine componibili, tecnico in un ufficio comunale, lattoniere, manovale, dipendente di un laboratorio orafo, gelataio in Germania, sceneggiatore, costruttore di giostre, magazziniere, giardiniere per una cooperativa sociale, magazziniere per un’industria del settore della plastica…

Li ha passati quasi tutti, i lavori, prima di iniziare a vivere di scrittura; e di tutti ci svela arcani e magagne. Di raro parla bene di qualche fabbrichetta o ufficio. Anzi, non ne parla bene per niente. Dalla tirchieria dei titolari, al mancato rispetto delle regole della sicurezza, dall’ottusità dei colleghi, alle guerre intestine per guadagnarsi il plauso di un superiore… e giù così, uno peggio dell’altro.

Ed è forse questa acrimonia che fa perdere punti al libro; frasi come queste:

Vecchio testa di cazzo, pensai, se è vero che lavoriamo coi secondi, perché cazzo devo perdere tutto il tempo che perdo solo per spostare le vostre macchine di merda?

Mi manca la tridimensionalità psicologica dei grandi romanzi. Voglio dire: nei Grandi, anche il cattivo di turno non è poi così cattivo. Viene descritto sempre in modo ambivalente, sfaccettato, come sono tutti gli esseri umani, alla fine. Qui no: l’ex moglie, la madre e la sorella sono erinni, e di là non si spostano; i capireparto sono nasi marroni (perché leccano il culo a chi conta); i dipendenti comunali si appropriano degli attrezzi pubblici; gli industriali non pagano le tasse e tirano sugli stipendi… un aspetto positivo, un punto forte, ce l’avranno?

No.

Non dico che tutto ciò sia falso: dico che è parziale, che manca l’altra faccia della luna di tutti questi “cattivi” (lui è molto più colorito con gli aggettivi), e questa mancanza toglie letterarietà al libro. E’ per questo che gli do un 3,5 (su 5) al posto di 4.

Perché Trevisan sa scrivere. Non mancano i riferimenti ad autori davvero letterari(Bernhard e tanti americani), e certe similitudini sono proprio azzeccate. Proprio per questo, dispiace quando i paragrafi si trasformano in un lungo elenco di recriminazioni, insomma, in uno sfogo (vendetta?) che non è molto diverso da quelli che si sentono al bar; contro l’ex moglie, ad esempio (di cui però accetta l’appartamento gratis) o contro Toni Servillo, il regista (ho notato un filetto di invidia per la carriera illustre?).

Al di là di tutto questo, che dire?

Il Nordest c’è, ed è così (o era: dieci, quindici anni e un libro è già un po’ obsoleto, quando si parla di industria)

I dipendenti (operai e impiegati e amministratori) ci sono, e sono così.

Ad esempio, parlando di un titolare (sì, bestemmiano tutti, nel Nordest, non conta il titolo di studio né il conto in banca):

(…) un Presidente sempre meno sicuro di se stesso diventava perciò sempre più aggressivo, e spesso, pieno di rabbia e frustrazione, non riuscendo a trattenersi, si sfogava bestemmiando e sbattendo i pugni sul tavolo.

Oppure, parlando di un collega (qui, ci possono essere eccezioni):

(…) nella sua voce un tono sempre rancoroso, e stupido, ottuso (…) che rimbambisce nella ripetizione stolida e priva d’invenzione di frasi fatte, sempre uguali.

O, parlando in generale (vero, in tutte, tutte le aziende dove sono stata io, e ne ho provate diverse):

Almeno una mezz’ora di abbuono, sempre a beneficio del datore di lavoro, è prevista ovunque.

Nel complesso: il libro di un autore arrabbiato.

Con cui non andrei d’accordo. Non potrei mai andare d’accordo con uno che ritiene normale rubare 40-50 marchi dalla cassa della gelateria.

Stop.

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Il cardellino, Donna Tartt @casalettori

892 pagine e non sentirle!

Il romanzo racconta la storia di Theo Decker, che a 13 anni perde la madre in un attacco terroristico in un museo. Lui sopravvive miracolosamente, e in quegli attimi di confusione e paura succedono altre due cose che lo segnano per tutta la vita: tiene la mano al signor Welty, che sta morendo, e si porta via il quadro del Cardellino, un’opera dal valore inestimabile e che sua madre amava tantissimo.

E’ morta per colpa mia. Gli altri sono sempre stati fin troppo solerti nell’assicurarmi che, andiamo, ero solo un bambino, chi avrebbe potuto immaginarlo, un terribile incidente, maledetta sfortuna, sarebbe potuto accadere a chiunque, tutto assolutamente vero, ma io no ho mai creduto a una sola parola.

La grandezza del romanzo, però, non è tanto nella storia, che ha i suoi colpi di scena, ma nella nostalgia che lo permea ad ogni pagina.

Theo, dopo la morte della madre, prende quella che noi definiremmo una brutta strada: si dà alle droghe e al bere insieme al suo amico Boris. Rischia grosso quando un malvivente scopre che lui è in possesso del quadro (ma lo è davvero?? Non faccio spoiler), e finisce per perdere anche il padre, che aveva già perso da piccolo (aveva abbandonato moglie e figlio) e che… bè, scusate, mi fermo qui, rischio di raccontarvi tutto.

Anche da giovane adulto, Theo continua a chiedersi cosa sarebbe successo quel giorno al museo se… se… se… Questa domanda salta fuori spesso, e ci coinvolge tutti, perché tutti prima o poi ce lo chiediamo, sbaglio?

Eppure, alla fine Theo giungerà alla conclusione che è una domanda sbagliata.

Ma vi lascio il piacere della scoperta… Leggetelo!

Potete acquistarlo a questo link affiliato Amazon 

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Quella vita che ci manca – Valentina D’Urbano

Adoro lo stile di scrittura di questa autrice, che a me piace assimilare a quello della Mazzantini, della Mazzucco, della Saracino. Ma non posso leggere troppo spesso romanzi del genere: ti fanno entrare in mondi pieni di buchi neri, nelle anime di certi personaggi scontenti di sé, in guerra col mondo.

In questa storia in particolare, è difficile frequentare troppo Alan senza che un po’ della sua rabbia ti resti dentro. Ma anche Valentino mette alla prova i muscoli morali: perché vorrebbe andarsene da quel quartiere che chiamarlo degradato significa usare un eufemismo.

Ma ci mette tanto prima di riuscirsi, forse troppo.  Ogni volta c’è una difficoltà da affrontare o un familiare da assecondare.

Alla fine, dopo che suo fratello Alan muore ammazzato, Valentino se ne va, lasciandosi dietro la madre, la sorella e il fratello Vadim; ma con tutto quello che ha vissuto, riuscirà davvero ad andarsene del tutto? Sì, lo so che è solo un personaggio letterario, ma l’autrice è brava a descrivere caratteri del genere, forse perché ci ha vissuto in mezzo per molti anni; ed è per questo che mi pongo il problema delle ferite che lasciano le esperienze estreme.

Pochi di quelli che leggono questo post vivono in un quartiere in cui una casa ce l’hai solo se la occupi, in cui è normale rubare, ricettare, ammazzare, prostituirsi. Ma ognuno di noi ha degli squarci nell’anima, chi più, chi meno: e la D’Urbano descrive quello che si prova a tentare di guarire. Valentino ci è riuscito (forse). Ma quanti nella vita reale non ce la fanno?

Forse dovrei leggere qualcosa di più leggero…

 

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Diario (1°) – Anais Nin

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Cosa mi piace

  • la scrittura che scherma le brutture, la volgarità, la contemporaneità
  • la rete di conoscenze artistiche che la Nin è riuscita a mettere in piedi
  • la sua capacità di riconoscere un genio prima che diventi famoso
  • i molteplici interessi della Nin (letteratura, poesia, psicanalisi, teatro, musica…)
  • il fatto che la Nin si preoccupi della sua famiglia e di aiutare gli amici, anche finanziariamente, pur non nuotando nell’oro.

Cosa non mi piace

  • Henry Miller e sua moglie June: bohèmien, ubriachi, drogati, bisognosi di bassifondi, vogliosi di stordimento.
  • la bisessualità che appare come un bisogno, non come una scelta.
  • le scenate, anche se non vengono descritte in toni crudi (ubriachi, vomito, droghe…)
  • la ricerca della Nin di una vita esagerata…

L’arte deve insegnare qualcosa. La disciplina, innanzitutto, anzi, l’autodisciplina. Bisogna mettersi dei paletti, darsi delle regole, perché lo scopo è andare sempre più in profondità, e non puoi andare in profondità se continui a fare buchi a destra e a sinistra e ad abbandonarli.

Altrimenti mettete un pennello in mano ad uno scimpanzé e poi vendetene i quadri.

Sì, lo so, è già stato fatto.

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Il rumore dei tuoi passi – Valentina D’Urbano

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Bella scrittura, questa della scrittrice di trentun anni scoperta dal concorso di IoScrittore, mi ricorda molto la Mazzantini, Ammaniti (che lei non nega di amare nelle varie interviste sparse per il web) e anche la Mazzucco. Forse per questo, per il fatto che anche a me piacciono molto questi autori, leggendo Il Rumore Dei Tuoi Passi mi è sembrato di vivere in un déjà-vu, ma alla fine non mi è dispiaciuto.

La storia è ambientata nella periferia di Roma, ma la città non è mai nominata, forse perché i fatti narrati possono essere simili a quello che succede in ogni periferia degradata.

Ma al di là del valore del libro, io devo dirlo: queste storie mi innervosiscono.

Possibile che giovani in quelle condizioni non riescano a uscire dal c.d. degrado, darsi una smossa, aiutare gli altri ad venirne fuori…? Capisco la cultura che ti circonda, ma dove è finito il libero arbitrio? Ragazzi che si parlano a forza di sberle anche quando si vogliono bene, ignoranti emotivi, che non fanno niente dalla mattina alla sera…

Evabbè, ora la faccio semplice perché io in confronto a loro sono stata una privilegiata, mi direte voi. E’ un serpente che si morde la coda, direte voi.

Non so. Davvero, non so.

 

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