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Cani selvaggi (Helen Humphreys)

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Non conoscevo questa autrice canadese: ve la consiglio!!

L’espediente narrativo che ha usato in questo libro è di mettere insieme sei persone, molto diverse l’una dall’altra, ma tutte con un problema comune: ognuna di loro ha perso il proprio cane (scappato o abbandonato), che si è unito a un gruppo di cani selvatici nel bosco.

Tutti noi abbiamo paura delle persone con cui viviamo, di quelle che hanno dato via i nostri cani. Se non avessimo paura di loro, loro non avrebbero avuto l’autorità di fare ciò che hanno fatto.

Ogni sera, allora, si trovano tutti e sei ai margini del bosco e ognuno chiama il proprio cane.

La storia è raccontata da diversi punti di vista.

Incomincia Alice, che si è innamorata della biologa del gruppo.

Poi c’è Jamie, un adolescente che cerca di crescere prima del tempo avvicinandosi ad amicizie poco raccomandabili per dimenticare la situazione che lo aspetta a casa.

C’è Lily, una ragazza con dei problemi intellettivi causati da un incidente

Parla anche Spencer, che non appartiene al gruppo, ma che sarà fortemente toccato dal destino di Lily (destino causato da lui, ma non faccio spoiler).

Un altro punto di vista è quello di Malcom: anche lui ogni sera va a chiamare il suo cane, e siccome Alice ha appena mollato il suo ragazzo ed è rimasta senza casa, le offre di dormire nel suo capanno. Ma anche Malcom ha dei problemi mentali..

Al di là della vicenda che li unisce, l’autrice affronta vari temi.

In un rapporto di coppia (o cane-padrone) bisogna fidarsi o bisogna mantenere un certo grado di paura?

Perché i cani se ne sono andati e cosa li trattiene nel bosco? Sono cambiati rispetto a quello che erano una volta o sono diventati quelli che erano già? E questo succede anche alle persone?

Non riuscivamo ad immaginare un mondo per loro del quale noi non fossimo il centro.

Credo che i cani siano una metafora della vita: sono addomesticati, vivono delle nostre abitudini, e poi all’improvviso cambiano. Sono diventati selvaggi o lo sono sempre stati, in realtà? E noi siamo addomesticati del tutto o possiamo ancora cambiare?

E’ un romanzo davvero pieno di riflessioni che ognuno può adattare a se stesso.

5 Stelle su 5.

L’acqua ha sempre qualcosa da fare. Dà sempre l’idea di avere un posto importante dove andare. Anch’io vorrei sentirmi così.

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48 giorni per ottenere il lavoro che ami – Dan Miller

Perché lavorate?

La maggior parte della gente che frequento mi risponderebbe: per prendere uno stipendio.

Biiip! Risposta sbagliata.

Dan Miller ci propone subito una distinzione tra lavoro, carriera e vocazione.

Faccio un esempio: se io avessi la vocazione (calling) di aiutare a migliorare il mondo, potrei scegliere di fare il medico, il volontario, lo scrittore, l’insegnante, lo scienziato ecc. Queste sarebbero le carriere (career). Allo stadio pratico, però, la carriera può comprendere diversi tipi di lavoro (job): posso fare lo scrittore di romanzi, saggi, mailing list, pubblicità, testi teatrali, volantini politici… se scelgo la carriera di insegnante, posso rivolgermi a una classe di 32 bambini o scegliere una scuola serale per adulti o insegnare inglese in un paese del terzo mondo… se sono un dottore, posso fare il medico di famiglia, specializzarmi in pediatria, far consulenza per un’assicurazione ecc…

Il lavoro è l’attività concreta che vi porta lo stipendio in casa. Il problema è che quasi nessuno, all’inizio della propria esperienza lavorativa, programma il futuro tenendo conto di tutti e tre i seguenti aspetti: competenze, tendenze personali e desideri/sogni.

Le competenze (skills) sono ciò che sai fare: comprendono non solo ciò che si è imparato a scuola, ma anche le singole capacità acquisite nei lavori precedenti (amministrazione, capacità matematiche, organizzative, scrittura, gestione del personale, uso del computer, pianificazione…). Sono capacità che possono essere spese in diversi posti di lavoro.

Le tendenze personali si incentrano sulle preferenze caratteriali: ti piace di più lavorare in team o impegnarti su un compito per conto tuo? Ti piacciono i cambiamenti o sei più portato per l’abitudinarietà? Sei diretto nel parlare o sei più diplomatico? Hai molta fiducia in te stesso o tendi ad essere cauto?

Infine ci sono i sogni, i valori e le passioni: quello che ti rende felice quando lo fai. Che ti fa trascorrere il tempo senza guardare l’orologio. Quello che faresti anche senza riceverne una remunerazione in cambio.

Nella ricerca di un lavoro bisognerebbe integrare le competenze con le proprie tendenze personali senza mai dimenticare i sogni.

Per quanto vedo in giro io, invece, il primo problema usciti dalla scuola/università è trovarsi un lavoro. Qualunque lavoro. Circa l’80% dei diplomati e dei laureati viene impiegato in un campo che non ha nulla a che fare con quello che ha studiato: il che non è un male in sé, ma è solo il sintomo di una mancanza di programmazione.

E diventa un male quando la scelta iniziale fa “curriculum” e vincola l’assunzione nei lavori successivi.

Quando si cambia lavoro (e lo si può cambiare perché costretti da un licenziamento o per libera scelta), non bisogna farsi legar le mani dal proprio passato, ma concentrarsi sul futuro, su ciò che si vuol fare.

Dunque… è importante sapere cosa si vuol fare. Una buona parte della fatica nel cercare il lavoro, è data dallo studio su se stessi (skills, tendencies e dreams).

L’85% dei casi in cui la gente viene promossa o ottiene delle opportunità di carriera nelle aziende dipende da capacità personali – attitudine, entusiasmo, autodisciplina e capacità interpersonali. Il 15% dei casi di promozioni lavorative è dovuto a capacità tecniche o educative, oppure a credenziali varie. (trad.mia)

Si può essere un buon medico (job), dunque aver buone capacità (skill), ma non amare il proprio lavoro, ad esempio perché non si sopporta veder soffrire i pazienti (tendency) o perché si vorrebbe lavorare la terra (dream).

Paul Gauguin lavorava in banca prima di diventare pittore. Tom Clancy era un agente assicurativo prima di diventare scrittore. Paul Newman era un operaio edile, prima di diventare attore. Nessuno di questi personaggi si è lasciato vincolare dal proprio curriculum.

Il difficile è:

  1. fidarsi dei propri sogni e
  2. mettere in modo un piano d’azione

Il libro di Dan Miller ci ispira a prendere in mano la nostra situazione lavorativa (e non solo).

Ha solo un difetto, ed è quello a causa del quale non verrà mai tradotto in Italia: inserisce, quasi ad ogni pagina, un riferimento a Dio e alla Sua volontà.

Dan Miller è figlio di un predicatore americano ed è cristiano praticante.

Io non sono cristiana osservante, e tutti questi riferimenti alla volontà di Dio, ai suoi progetti su di me ecc… mi ha dato un certo fastidio, all’inizio. Poi però il fastidio l’ho superato, non è grave, se i consigli alla fine sono ragionevoli. Il libro sta in piedi anche senza questi riferimenti divini.

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L’artigiano alchimista – Ludovico Ferro

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Le crisi non hanno gli stessi effetti su tutti. Ce lo dimostra la fondazione di grandi imperi come Fortune Magazine (fondata appena 90 giorni dopo la caduta delle borse del 1929), Fedex e Microsoft (recessione dei primi anni Settanta), Hewlett-Packard e Revlon (grande depressione), Standard Oil (1865, ultimo anno della Guerra Civile), e molte altre.

“Ma questi sono i soliti colossi industriali americani, quello è un altro mondo” ci dicono.

Sbagliato.

Il sociologo Ludovico Ferro ci dimostra che anche nel nostro Veneto ci sono molte realtà d’eccellenza. In particolare questo studio ne analizza venti nel settore agroalimentare, tramite lo strumento empirico dell’intervista; e si tratta di aziende artigiane, piccole per gli standard americani, a volte microscopiche, ma che, nell’impaurito panorama prospettatoci dai media, spiccano come esempi di controtendenza. E che soprattutto occupano una fetta non indifferente di operatori.

I luoghi comuni da sfatare sono tanti. Il primo, è che la crescita dimensionale si un elemento necessario per l’eccellenza. I dati raccolti dallo studio ci mostrano artigiani orgogliosi della qualità del proprio prodotto, ma che non smaniano di diventare più grandi, anzi, li vediamo a volte sospettosi verso la grande distribuzione e l’allargamento del bacino dei clienti, se questo può ripercuotersi negativamente sull’immagine “familiare” e sul controllo diretto che esercitano sulla loro filiera produttiva.

Un altro mito da dimenticare, è legato al passaggio generazionale: si pensa spesso che i figli subentrino ai padri perché non hanno trovato altri sbocchi nel mercato del lavoro. A volte può essere così, ma sono sempre più frequenti gli esempi di giovani che entrano nell’azienda di famiglia dopo percorsi di consapevolezza che li ha portati a fare esperienza in altri settori. Non si tratta quasi mai di scelte di ripiego, e soprattutto gli esiti sono – a giudicare da queste interviste – molto positivi.

Il che non vuol dire che i passaggi generazionali non mostrino le loro incognite, ma di sicuro la scelta di entrare nell’azienda familiare non è più scontata: per questo è più consapevole.

Scordiamoci anche l’immagine dell’artigiano che lavora solo con le mani e che rifiuta ogni innovazione tecnologica. Gli investimenti nelle “macchine” ci sono, e può variare la percentuale di automazione rispetto al lavoro manuale: quello che non può mai mancare è l’elemento umano, la fonte delle decisioni sul cosa e quanto automatizzare. L’importante è garantire sempre la miglior qualità possibile e tenere fidelizzato il cliente e “farsi cercare”.

Tutto bello e lindo, dunque?
In confronto alle aziende che chiudono e lasciano a casa i lavoratori, sì, certo. Ciò non toglie che i soggetti istituzionali debbano impegnarsi di più su certi fronti: in primo luogo quello creditizio, ancora troppo lontano dalle reali necessità artigiane. In secondo luogo, nel campo della formazione, che al momento ci mostra un vuoto pericoloso. In terzo (ma non ultimo) luogo, sul lato burocratico, che impastoia e rallenta anche i più volenterosi. Un altro punto può essere, poi, la tutela ambientale.

Aziende eccellenti, dunque.
Attenzione però: non si deve essere ossessionati dall’eccellenza. Meglio parlare di qualità diffusa, tenendo sempre conto dei rischi e senza velleitari esclusivismi.

Sapete una cosa? A forza di leggere di millefoglie e pane fresco, e di vedere foto di pastine e cioccolatini, a me è venuta fame!

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