Mamma mia che mondo invivibile, quello di Goraj tra il 1665 e il 1666, il tempo in cui, secondo gli esperti della Cabbala, il Messia si sarebbe manifestato e l’esilio sarebbe giunto alla fine!
Guerre, torture, distruzioni, incendi, inondazioni, possessioni diaboliche, segni divini e maligni… questo romanzo è un susseguirsi di immagini forti, ma raccontati da una voce che cerca di restare distaccata. O finge, di voler restare distaccata…
Singer narra la storia di un paesino che si trova in un luogo non ben definito (neanche il suo nome è certo, tant’è che non si possono registrare le sentenze di divorzio perché ci sono dubbi in merito).
Nel 1665, circola la voce che il Messia sia arrivato nelle spoglie di un certo Shabbatay Tzevi: tutti gli ebrei vanno fuori di testa e si preparano a risvegliarsi nella Terra Promessa.
Nascono fazioni pro e contro il presunto messia, e un rabbi si sostituisce all’altro, in successione, nel favore popolare.
Tutto succede all’insegna dell’Attesa: spasmodica, febbricitante attesa.
Singer ci fa entrare nell’atmosfera: pensate un popolo esiliato e martorizzato, bersaglio di pogrom e genocidi, vittima di guerre ed eventi atmosferici straordinari; e pensate alla sua impotenza di fronte a tutte queste calamità.
Non verrebbe anche voi la voglia di abbandonarvi a una speranza pazza e risolutiva?
Se vi dicessero che domani tutte le vostre infinite disgrazie finiranno di colpo, le vostre regole morali non verrebbero travolte dalla felicità e dallo stordimento?
E se d’un colpo poi vi privassero di questa speranza, non subentrerebbe una rabbia distruttiva? Non vi travolgerebbe il disastro?
E’ quello che succede con Shabbatay Tzevi.
Leggendo il romanzo, mi son spesso chiesta cosa pensava Singer mentre lo scriveva. Da che parte stava, lui, ebreo praticante in terra Americana?
Perché da un lato, tra le righe si percepisce l’empatia per le sofferenze e le speranze del suo popolo, certo; ma tale empatia non è mai scevra di compatimento nei confronti dei mille e mille riti e superstizioni che intaccano ogni minimo aspetto della vita di un ebreo.
Tanto che, alla fine, mi par di capire che il nemico vero, non sono “gli altri”, la nebulosa moltitudine di esseri esterni alla vera fede a cui si attribuiscono le colpe delle carestie e delle violenze; alla fine, il nemico vero è interno al popolo eletto, si impossessa della moglie di un Giusto, viene dalla carne ebrea e da altri ebrei viene rinnegato.
Insomma: non c’è scampo al tormento.