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Venivamo tutte per mare (Julie Otsuka) #TeaEditore

Romanzo breve, appena 140 pagine, ma densissimo: all’interno troviamo la storia di tante, tantissime donne giapponesi arrivate negli Stati Uniti nella prima metà del Novecento, per sposare uomini di cui, nella stragrande maggioranza dei casi, non sapevano nulla.

Partivano con una lettera in mano o una foto, ma le parole e le immagini spesso si rivelavano, al loro arrivo, delle mere bugie: l’uomo che diceva di essere il proprietario di un ristorante, in realtà era uno sguattero; quello che diceva di dirigere una catena di lavanderie, in realtà era addetto alla stiratura; quello alto e con gli occhi intensi, in realtà era il cugino dell’uomo che la donna avrebbe dovuto sposare.

Poi gli anni passano, e le ragazze si adeguano al lavoro, ai soprusi, ai figli e alle loro morti. Sono poche quelle che hanno una vita facile.

E poi c’è Pearl Harbour: arrivano i sospetti, le sparizioni, i trasferimenti di massa.

E’ interessante lo stile: nei primi capitoli, sono le donne giapponesi a palare col “noi”.

Le assicurazioni ci cancellarono la polizza. Le banche ci congelarono il conto. I lattai smisero di consegnarci il latte a domicilio.

Nell’ultimo, quando le comunità giapponesi iniziano a ridursi ai minimi termini, quando i negozi e le strade che prima erano abitate da giapponesi diventano elementi di una città fantasma, il “noi” cambia. Sono gli americani che si chiedono cosa sia successo, se era giusto che succedesse, e cosa succederà.

Nuovi inquilini cominciano a trasferirsi nelle loro case.

“Noi” e “loro” non solo due pronomi: sono due culture e due destini.

Eppure sono anche pronomi, che ogni gruppo può usare: perché il contenuto di quel “noi” cambia nel tempo. Se oggi noi siamo i vincitori, domani potremmo diventare “loro”. E viceversa.

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La guardarobiera, @pmcgrathnovels, @lanavediteseoed

Non dovete leggere questo romanzo aspettandovi la stessa morbosità di “Follia”, “Il morbo di Haggard” o di “Grottesco”. E’ qualcosa di diverso, molto più sottile, con meno accadimenti drammatici, meno macabri, (forse) meno passionalità. Eppure è un libro che merita di esser letto.

Joan, capo guardarobiera di teatro, è appena rimasta vedova del marito, famoso e affascinante attore. Siamo nella Londra del 1947, in un inverno freddissimo: è difficile trovare viveri e riuscire a scaldarsi, ci sono, qui e là, episodi di rinascente fascismo.

Joan è confusa: si convince che il marito non è morto, che il suo spirito c’è ancora. Lo sente dentro l’armadio, tra i suoi vestiti, e crede di rivederlo in Frank Stone, giovane attore con cui inizia una relazione.

Il romanzo è tutto un gioco di specchi tra realtà e immaginazione (malata): Joan prima sente la mancanza del marito, poi inizia ad odiarlo perché scopre che era un fascista (lei è ebrea); prima odia il genero, credendolo l’assassino del marito, poi ne abbraccia la causa; Frank Stone prima è il recipiente del defunto, poi è un contenitore vuoto (talmente vuoto che passa dalla madre alla figlia con “maschia” velocità).

Interessante la scelta di affidare la narrazione ad un presunto coro femminile, al corrente dei fatti e a volte materialmente presente, eppure non ben definito.

Ciò che sembra, non è; le rivelazioni non sono mai plateali, ma sfumate, si scivola dalla fantasia alla realtà senza fuochi d’artificio, ed è forse questo l’elemento più realistico del romanzo. Per questo non lo definirei “thriller psicologico”, come dicono tante recensioni giornalistiche. E’ un romanzo prima psicologico, e poi storico.

Notevole la capacità di McGrath di immedesimarsi nelle paturnie degli attori di teatro, nelle sfumature dei loro pensieri. Mentre leggevo mi chiedevo come faceva, e poi l’ho scoperto: è sposato con un’attrice…

Insomma, una lettura consigliata non a chi cerca fuoco e fiamme, passioni e tremori, ma sì a chi vuole immergersi in una mente ai… confini.

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