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L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica – Walter Benjamin

Trentotto pagine che ti fanno riflettere.

Siamo abituati a pensare all’arte come qualcosa dotata di AURA, di un misterioso alone luminoso, che non è in realtà niente altro che UNICITA‘. Non bisogna invece confondere la sua unicità con la sua irriproducibilità.

Perché le opere d’arte, fin dall’inizio, sono sempre state riproducibili: si pensi alle gazzelle disegnate sulle pareti delle grotte preistoriche, o ai dipinti degli allievi che ripetevano fino allo sfinimento i quadri e le tecniche dei loro maestri.

Certo, una cosa è la riproducibilità manuale, e un’altra cosa è la riproducibilità tecnica.

Quanto influisce il mezzo di riproduzione sull’aura? Una sinfonia di Beethoven ascoltata nel 2019 attraverso un MP4 perde la sua aura per il fatto che è riprodotta a secoli di distanza dalla morte del suo artista?

Benjamin non dà risposte: non potrebbe, visto che la tecnica è sempre in evoluzione e non si arriva mai ad un punto fermo. Però ci fa riflettere.

La riproducibilità tecnica, ad esempio, è stata sfruttata per portare l’arte alle masse. Una volta non era così: l’arte veniva presentata a un pubblico scelto, e la fruibilità era mediata dall’alto, gerarchicamente (si pensi all’esposizione di quadri nelle chiese e nei monasteri), allo scopo di controllare la reazione del fruitore.

Oggi l’arte si presenta alle masse: è diventata trasportabile e riproducibile. Questo riduce la possibilità di influire sulla reazione del pubblico, spesso culturalmente impreparato o semplicemente distratto, ma oggi verrebbe considerato come un aspetto positivo, democratico.

Un’altra conseguenza della riproducibilità tecnica è la scomparsa dell’elemento rituale.

L’arte è nata come un rituale magico (e poi religioso), ma il rito non è più necessario quando l’arte viene riprodotta: viene meno il luogo e vengono meno le formule che prima erano elemento transustanziale dell’oggetto artistico.

Oggi l’arte ha un valore di esponibilità che è superiore a quello cultuale.

Il breve saggio finisce con una postilla sul confronto tra fascismo e comunismo dal punto di vista del loro atteggiamento verso l’arte.

Il fascismo vede la propria salvezza nel consentire alle masse di esprimersi (non di veder riconosciuti i propri diritti).

Quando ho letto questa frase mi sono subito venuti in mente i social, in cui tutti si sfogano senza (quasi) mai combinare niente.

La guerra, e la guerra soltanto, rende possibile fornire uno scopo ai movimenti di massa di grandi proporzioni, previa conservazione dei tradizionali rapporti di proprietà.

Un testo che dovevo leggere.

Così stanno le cose riguardo all’estetizzazione della politica che il fascismo persegue. Il comunismo gli risponde con la politicizzazione dell’arte.

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Elogio della letteratura, Bauman/Mazzeo @Einaudieditore

 


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Zygmunt Bauman ci ha lasciato quest’anno: era un autore prolifico, esponente di una sociologia fuori dagli schemi, lontana dalla disciplina accademica tutta dedita ai numeri e alle statistiche.

Credo che non ci sarebbe potuto essere un ricordo più gentile, di questo libro, scritto a quattro mani col suo amico Riccardo Mazzeo.

E’ un dialogo sul rapporto tra sociologia e letteratura, che pur condividendo gli la struttura discorsiva e molti degli scopi (l’analisi dell’uomo), spesso sono viste come due discipline lontane, quando non antitetiche, visto che la prima mira a farsi definire come scienza, mentre la seconda rientra senza dubbio nel campo delle arti.

Il colloquio tra Mazzeo e Bauman verte sì sulla relazione tra le due discipline, ma finisce per toccare argomenti apparentemente molto lontani: dalla figura del padre, alla twitteratura, dalla perdita degli intercessori all’homo consumens.

Essendo un saggio breve (appena 136 pagine) non si può riassumerlo in modo valido, perché ogni frase è pregna di significati e rimandi; ma un messaggio si può cercare di trasmetterlo: è che la letteratura, per quanto dotata di un potere salvifico, da sola non può risolvere i problemi di una società, esattamente come un insegnante singolo (che sia un Affinati o un Bergoglio) non possono risolvere i problemi della povertà e dell’ignoranza.

Risulta qui essenziale la distinzione tra troubles (i problemi che ognuno di noi vive nella propria quotidianità) e gli  issues (i problemi comuni a tutti gli esseri umani che possono essere affrontati solo tramite azioni collettive).

Notevole è poi l’elenco degli autori che, nel corso del dialogo, vengono menzionati: si passa da Nietzsche a Kafka a Kraus ad Alberto Garlini a Jonathan Franzen a Luigi Zoja alla Nussbaum ecc….

Insomma, anche se a volte un po’ troppo colto, è sicuramente una lettura stimolante.

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La bestia nel cuore – Cristina Comencini

imageUn romanzo che riflette sui drammi dimenticati e sul valore della cultura e dell’arte, soprattutto in Italia.

Sabina, doppiatrice che ha rinunciato al sogno di fare l’attrice, scopre di essere incinta ma non lo dice al compagno e se ne va negli Stati Uniti a trovare il fratello che è diventato professore in una università americana. Lo fa perché un sogno le ha risvegliato dei ricordi confusi e ha bisogno di chiarire il suo passato prima di dare un futuro a qualcuno che non è ancora nato.

Lungo tutto il libro si alternano riflessioni sui rapporti tra uomini e donne di età molto diverse e sullo stato deprimente della cultura italiana, ancora rinomata all’estero ma ormai svuotata di significato dalla televisione commerciale. A dire la verità questi punti di vista mi stavano buttando giù di morale: sono dovuta arrivare alla fine per leggere questa frase e tirarmi su. A pronunciarla è un regista che ha una base culturale buona ma che per vivere si è ridotto a dirigere schifezze. Alla fine del libro, anche grazie alla nascita del bambino di Sabina, si sveglia e decidere di tornare alle origini, di fare quello che davvero gli piace, anche se non piacerà a nessuno, anche se nessuno lo capirà:

C’è solo una cosa da fare, oggi come sempre, gli artisti sono gli unici ad averla capita: Non tacere mai, a costo della vita, della reputazione, dello scandalo, del dolore.

Se posso permettermi una critica, la scena del parto e della conversione di un paio di personaggi (il padre, il regista, l’amica lesbica…) è quella che mi lascia un po’ basita: non è vero che la nascita dei figli cambia le persone così. Soprattutto fa un po’ pietà quello che pensa il padre… non ci crede nessuno, dai. E poi tutti contenti, come una fiaba. Mah.

Però merita di essere letto, assolutamente. Tra le tante riflessioni indotte, una, che nasce dalla domanda della protagonista: a cosa è servita a suo padre tutta la sua cultura se poi non è stato capace di resistere agli istinti che gli hanno fatto seviziare i figli?

Insomma, la domanda più generale che nasce è: a cosa serve la cultura?

 

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