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Evita (John Barnes)

IMG_20200307_155036[1]Evita Duarte era figlia illegittima di una poveraccia e di un proprietario di media ricchezza (già sposato) che le manteneva.

Da una vita fatta di stenti e ostracismo, Evita passò ad essere la first lady dell’Argentina, amata e osannata come una santa, tanto che molte famiglie tenevano in casa un altarino con la sua foto.

Come ha fatto?

La sua è stata un’ascesa graduale ma rapida: una donna, a quei tempi, in un paese machista come l’Argentina, non aveva vita facile. Ma Evita, pur essendo una chiavica come attrice, ha saputo scegliersi gli uomini: ognuno di loro ha aggiunto un gradino utile alla sua ascesa.

Finché ha incontrato Peròn.

Non ho visto il film con Madonna e Antonio Banderas, eppure ho il sospetto che sullo schermo i due siano stati un po’ edulcorati: non so se hanno parlato dell’antisemitismo e dei saluti fascisti, degli assalti alla folla indifesa e delle torture, del nepotismo e del controllo delle università, delle banche, dei sindacati, della corte suprema e dell’esercito, nonché delle condanne a morte senza regolare processo e dell’imbavagliamento della stampa e della radio.

Eppure, Peron ed Evita erano amati dallo strato più basso della popolazione, perché finché loro rimasero al potere, i poveri ottennero davvero un miglioramento dello stile di vita.

Evita veniva dalla povertà e non l’aveva dimenticata, anche se ora vestiva con capi firmati e gioielli dal valore incalcolabile. Quando incontrava le folle, chiedeva ai questuanti se avevano un biglietto dell’autobus per tornare a casa, o …se avevano una casa; e se la risposta era no, lei si prendeva davvero cura di loro.

Questa biografia mi è piaciuta molto: non solo per il personaggio, così multisfaccettato (vendicativo, anche), ma anche per il paese in cui ha vissuto, pieno di teste calde e senza mezze misure. Un esempio è l’odissea che il corpo mummificato di Evita ha dovuto passare prima di tornare in patria…

Una lettura ottima per l’8 marzo.

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Ruggine americana, Philipp Meyer

Gli Stati Uniti potenza mondiale?

Stando alla quotidianità dei suoi cittadini, non si direbbe. Ed è proprio la quotidianità provinciale che ci viene raccontata da Meyer in questo suo primo romanzo (pluripremiato).

Isaac è un ventenne con geniali doti matematiche e scientifiche, tanto da renderlo un po’ incomprensibile alla media delle persone che può frequentare. Isaac vive in una zona degli Stati Uniti che ha vissuto un periodo di prosperità nel passato ma che ormai, a causa della dismissione delle acciaierie che avevano reso possibile il breve miracolo economico, è costellata di ruderi di fabbriche e magazzini.

Sua madre si è suicidata. Anche lui ci prova, ma viene salvato da Billy Poe, un suo coetaneo che è più portato per il football che per le… analisi filosofiche.

La sorella di Isaac, anche lei dotata di un altissimo quoziente intellettivo, è riuscita ad andarsene da quei luoghi, è andata al college e si è sposata “bene”, ma vive nel costante rimorso di aver abbandonato fratello e padre (disabile in seguito a un incidente sul lavoro).

Tutto il romanzo nasce da un omicidio: Isaac, il timido e intellettuale e mingherlino Isaac, uccide un uomo, un barbone (ce ne sono di barboni, in questa storia!) per salvare la vita a Billy Poe. Però poi Isaac parte, a piedi, verso la California, come aveva intenzione di fare fin dall’inizio, e Billy Poe rimane inguaiato, perché tutti credono che sia stato lui ad uccidere il senzatetto.

Billy Poe ha molti difetti, ma non vuole denunciare l’amico.

E qui si intersecano le storie di tutti i personaggi: a quelli già nominati si aggiungono Harris, il poliziotto; Grace, la madre di Poe che ha avuto una storia con Harris; il padre di Isaac e Lee, sua sorella.

Il romanzo ci mostra il cittadino americano in difficoltà. E’ un’analisi psicologica, sociologica e quasi storica di come la crisi economica vada ad incidere nelle vite dei singoli e di come la disoccupazione comporti problemi a catena.

Ma è anche molto più di questo.

Ad esempio, prendiamo Billy Poe, che è uno sempre pronto a menare le mani, uno grande e grosso che sembra non aver paura di nulla: ebbene, è molto più fragile di quanto pensiamo; non può mangiare cibo industriale, tanto per dire: un panino del McDonald gli causa problemi intestinali. Perché anche il cibo, negli Stati Uniti, è in crisi.

Chi si salva?

  1. Chi se ne va. E infatti il desiderio di andarsene dalla valle è diffuso. Tutti ne parlano, ma solo pochi ci riescono (e non tutti quelli che se ne vanno riescono poi a risollevarsi davvero).
  2. L’ambiente naturale, che è quello che si riappropria dei propri spazi in un territorio abbandonato da industriali e ditte di trasporto.
  3. Chi rimane fedele a pochi e solidi rapporti interpersonali (familiari o sentimentali).

Chiusa l’ultima pagina del romanzo, ci resta l’amarezza di un’esperienza di difficoltà: gente che fa fatica ad arrivare alla fine del mese e a pagare i propri debiti. Non è una questione solo economica, né solo individuale.

Quando leggi che non sono rimasti neanche i soldi per smantellare come si deve le acciaierie, lasciate là ad arrugginire, e che i dipendenti comunali sono pagati in obbligazioni, e che le armi sono oggetti comuni in ogni famiglia americana, e che un giovane non riesce ad uscire dalla spirale della violenza neanche impegnandosi, bè, ti fai delle domande, perché noi italiani, fino ad ora, abbiamo sempre copiato gli Stati Uniti a qualche anno di distanza.

Al di là della storia, cruda e realista (vi raccomando le pagine che raccontano di Billy Poe in prigione), di Philipp Meyer bisogna lodare anche lo stile, soprattutto la sua capacità di cambiare registro; ad esempio, quando segue il punto di vista di Isaac, il genio incompreso, la scrittura si fa frammentata, diventa quasi un dialogo schizofrenico tra due personalità interne allo stesso corpo, e la frammentazione aumenta di capitolo in capitolo, finché Isaac non giunge a una decisione risolutiva.

Voto: 4,5 su 5.

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Le correzioni, Jonathan Franzen @Einaudieditore

Ora che l’ho finito, posso confessare (vergognandomene) che non ho letto questo romanzo tutto d’un fiato. Addirittura, l’avevo sospeso a metà, perché non sopportavo più le farneticazioni di Alfred e la depressione di Gary. Ma dovevo capirlo subito che quando i personaggi causano reazioni emotive così forti è perché lo scrittore è un grande scrittore.

La domanda del libro è: bisogna correggere le deviazioni? Dal buon gusto, dalla buona educazione, dal buon matrimonio, dal buon lavoro? E quanta vergogna è in grado di sopportare una persona quando quelle che lei considera deviazioni non vengono corrette?

Enid, alle prese con un marito col morbo di Parkinson, sogna di riunire i tre figli ancora una volta per Natale. Ma prima che il suo sogno si avveri, vediamo perché questi tre figli hanno difficoltà a tornare in famiglia, anche se solo per un giorno solo. Guardandoli con gli occhi di Enid, si vedono tre figli che non hanno raggiunto gli obiettivi classici del perbenismo americano: Gary è succube della moglie, nonostante sia ricco; Chip è rimasto senza lavoro perché ha sedotto una sua alunna e poi si è ingarbugliato in affari poco puliti; Denise è uno chef di successo ma è ancora confusa sulle sue preferenze sessuali.

Il casino di queste cinque vite sembra sia affievolirsi che gonfiarsi nella dimensione familiare. Ogni membro ha le sue difficoltà ad amare gli altri e a comprenderli, ognuno ha le sue difficoltà a dire quello che prova senza urlare o senza mettersi a piangere. E’ in questo che ho trovato molto verosimile la storia della famiglia Lambert: il dare per scontato certi sentimenti, il bisogno di nascondere le proprie deviazioni, per quanto insignificanti siano in un contesto più ampio.

La grandezza di Franzen si desume non solo dalla sua capacità di veicolare i temi generali attraverso una storia, ma anche da tante, tantissime frasi che mostrano come l’autore sia un acuto osservatore dell’animo umano:

(…) quell’anti-stile che le donne progressiste di una certa età ostentavano come emblema di identità femminista.

Non si intendeva di antiquariato o architettura, non sapeva disegnare come Sylvia, non leggeva come Ted, aveva pochi interessi e nessuna competenza. La capacità di amare era l’unica cosa che avesse mai davvero avuto.

Una persona è ciò che vuole.

(…) viaggiatori che per pazienza e isolamento sembravano più supplicanti da pronto soccorso che pendolari.

Chi di noi può dirsi esente dalla voglia di correggersi?

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L’artigiano alchimista – Ludovico Ferro

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Le crisi non hanno gli stessi effetti su tutti. Ce lo dimostra la fondazione di grandi imperi come Fortune Magazine (fondata appena 90 giorni dopo la caduta delle borse del 1929), Fedex e Microsoft (recessione dei primi anni Settanta), Hewlett-Packard e Revlon (grande depressione), Standard Oil (1865, ultimo anno della Guerra Civile), e molte altre.

“Ma questi sono i soliti colossi industriali americani, quello è un altro mondo” ci dicono.

Sbagliato.

Il sociologo Ludovico Ferro ci dimostra che anche nel nostro Veneto ci sono molte realtà d’eccellenza. In particolare questo studio ne analizza venti nel settore agroalimentare, tramite lo strumento empirico dell’intervista; e si tratta di aziende artigiane, piccole per gli standard americani, a volte microscopiche, ma che, nell’impaurito panorama prospettatoci dai media, spiccano come esempi di controtendenza. E che soprattutto occupano una fetta non indifferente di operatori.

I luoghi comuni da sfatare sono tanti. Il primo, è che la crescita dimensionale si un elemento necessario per l’eccellenza. I dati raccolti dallo studio ci mostrano artigiani orgogliosi della qualità del proprio prodotto, ma che non smaniano di diventare più grandi, anzi, li vediamo a volte sospettosi verso la grande distribuzione e l’allargamento del bacino dei clienti, se questo può ripercuotersi negativamente sull’immagine “familiare” e sul controllo diretto che esercitano sulla loro filiera produttiva.

Un altro mito da dimenticare, è legato al passaggio generazionale: si pensa spesso che i figli subentrino ai padri perché non hanno trovato altri sbocchi nel mercato del lavoro. A volte può essere così, ma sono sempre più frequenti gli esempi di giovani che entrano nell’azienda di famiglia dopo percorsi di consapevolezza che li ha portati a fare esperienza in altri settori. Non si tratta quasi mai di scelte di ripiego, e soprattutto gli esiti sono – a giudicare da queste interviste – molto positivi.

Il che non vuol dire che i passaggi generazionali non mostrino le loro incognite, ma di sicuro la scelta di entrare nell’azienda familiare non è più scontata: per questo è più consapevole.

Scordiamoci anche l’immagine dell’artigiano che lavora solo con le mani e che rifiuta ogni innovazione tecnologica. Gli investimenti nelle “macchine” ci sono, e può variare la percentuale di automazione rispetto al lavoro manuale: quello che non può mai mancare è l’elemento umano, la fonte delle decisioni sul cosa e quanto automatizzare. L’importante è garantire sempre la miglior qualità possibile e tenere fidelizzato il cliente e “farsi cercare”.

Tutto bello e lindo, dunque?
In confronto alle aziende che chiudono e lasciano a casa i lavoratori, sì, certo. Ciò non toglie che i soggetti istituzionali debbano impegnarsi di più su certi fronti: in primo luogo quello creditizio, ancora troppo lontano dalle reali necessità artigiane. In secondo luogo, nel campo della formazione, che al momento ci mostra un vuoto pericoloso. In terzo (ma non ultimo) luogo, sul lato burocratico, che impastoia e rallenta anche i più volenterosi. Un altro punto può essere, poi, la tutela ambientale.

Aziende eccellenti, dunque.
Attenzione però: non si deve essere ossessionati dall’eccellenza. Meglio parlare di qualità diffusa, tenendo sempre conto dei rischi e senza velleitari esclusivismi.

Sapete una cosa? A forza di leggere di millefoglie e pane fresco, e di vedere foto di pastine e cioccolatini, a me è venuta fame!

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