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Creatività – Come ci rende più coraggiosi, più felici e più forti (Melanie Raabe)

Melanie Raabe è una scrittrice tedesca di thriller. A differenza di molti altri artisti, che creano un mito di se stessi dicendo di aver iniziato a scrivere/cantare/dipingere ancora in culla, lei è molto sincera e confessa di aver provato con molte strade prima di trovarsi con la scrittura: ha provato la musica, il balletto, la recitazione…

Sa quello che dice dunque quando ci spinge a cercare la nostra strada, la nostra forma di arte. Che poi sia un hobby o un lavoro, poco importa; l’importante è avere qualcosa che ci permetta di creare, perché il nostro cervello ne ha bisogno.

Analizza le varie fasi dell’esperienza creativa; dall’inizio, che è quello che ci fa più paura, alla commercializzazione delle proprie creazioni.

In ogni fase, ci sono dei punti fermi. Il primo è: fare.

La procrastinazione è un effetto della paura, ma la creatività è, per definizione, incerta, perché si mette al mondo qualcosa che non c’era. E poi è un falso mito quello secondo il quale la quantità va a discapito della qualità: in realtà non ci può essere qualità se prima non c’è stata una bella dose di quantità.

Un altro punto fermo per la Raabe è la routine: l’ispirazione è importante, la motivazione è importante, ma da sole non ti portano alla conclusione di un progetto. Le energie si consumano, le scelte che dobbiamo compiere ogni giorno consumano la nostra riserva di energia. Una routine ci libera dal peso delle scelte.

E infine: autenticità.

Che significa: autoaccettazione. Capacità di aprirci al mondo, magari rischiando la vulnerabilità.

Ma la vulnerabilità è un tratto universale: ognuno di noi è vulnerabile in qualche punto, e venire in contatto con un’opera d’arte (un romanzo, un quadro, una performance) che mette in scena una vulnerabilità simile alla nostra, crea un legame con l’autore e ci fa sentire meno soli. Solo mettendo in gioco la nostra vulnerabilità possiamo creare qualcosa di veramente autentico.

Certo: accettarsi e rendersi vulnerabili non è da tutti. E’ per questo che la creatività può renderci più forti, perché è anche un lavoro su noi stessi.

Insomma, la Raabe affronta un po’ tutti gli aspetti della creatività: dalla capacità di accettare le critiche ai modi per far affluire l’ispirazione, dalla disciplina all’imitazione di altri creativi.

Sono contenta di terminare l’anno con un libro sulla creatività. Non che mi abbia svelato novità sconvolgenti, ma mi è bastato leggerlo per ricordarmi che la creatività esiste.

Non so voi, ma nel mio ambiente i creativi non abbondano; sì, lavoro per un’azienda di design, ma vi assicuro che questi creativi milionari non vengono a pranzo con me, banale impiegata: mi è capitato solo una volta di cenare accanto a Giovannoni, anni fa, ma non ha mai voltato la testa dalla mia parte; l’ha sempre tenuta girata dalla parte opposta, quasi da farmi pensare che avesse un torcicollo.

Se altri creativi ci sono, nel mio ambiente – tra parenti e amici – fanno di tutto per non darlo a vedere, quasi in una forma di pudore (e forse ha a che fare con la paura di rendersi vulnerabili).

Il fatto è che mi sembra di essere l’unica qui attorno ad avere un sacco di sogni, e quando sento parlare di creativi e creatività, mi illumino: chi crea lo fa perché sente che nel mondo (o a lei/lui) manca qualcosa.

Dai, è l’ultimo giorno dell’anno, lasciatemi che scriva qui i miei sogni, uno più irrealizzabile dell’altro (anche se, chissà, con una buona dose di creatività si potrebbe fare qualcosa):

  • cambiare lavoro e settore (magari passando nell’editoria, tra libri di narrativa e saggistica)
  • prendermi un gatto persiano
  • vivere sei mesi in un paese, sei mesi nell’altro (Costa Rica, Perth, Ottawa, Okinawa, Nuova Zelanda, Nuova Caledonia…)
  • avere una casa al mare (non a Caorle… pensavo a qualcosa in Florida)
  • avere molti amici tra scrittori e scrittrici
  • visitare un museo diverso alla settimana
  • diventare invisibile al bisogno
  • leggere nel pensiero
  • finire certi discorsi con certe persone
  • imparare a parlare in pubblico
  • essere più spigliata e meno introversa
  • imparare bene il cinese
  • studiare il giapponese (che mi servirà per quando abiterò a Okinawa)
  • camminare in una piantagione di té in Sri Lanka
  • buttarmi col paracadute
  • dimagrire come Adele (e magari imparare a cantare come lei)
  • Salvare le tigri e altre specie dall’estinzione (anche con mezzi estremi)
  • Diventare dittatrice d’Italia (e metterla a posto)
  • Abbondarmi dall’estetista
  • Dare uno schiaffo a chi se lo sarebbe meritato in passato
  • Creare qualcosa di decente con la tecnica del mixed media
  • Vivere da sola
  • Scrivere libri
  • Ragionare con i capi di stato che trattano male i propri cittadini
  • Scoprire se esiste l’aldilà
  • Parlare con degli extraterrestri e visitare i loro mondi
  • Scoprire come è nato l’universo
  • Capire cosa voglio davvero dalla vita.

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Pubblicità per il creativo che non vuole farsi pubblicità

Il libro per il creativo che non ama farsi pubblicità.

O almeno, pubblicità nel senso tradizionale del termine.

Kleon parte dall’assunto che il genio (ma anche la più normale creatività) non nasce nel vuoto assoluto, ma in un contesto fatto di persone, e sono queste persone la chiave per farsi pubblicità senza… farsela.

Quando sei appassionato di qualcosa, anche se non hai scopi professionali, ti metti a studiare quel qualcosa per conto tuo. Puoi fare errori, prendere strade sbagliate, ma proprio la passione ti rimetterà in senso.

Il consiglio di Kleon è di mostrarti come veramente sei: un appassionato, non un professionista. Mostra pure il tuo processo e i tuoi errori: c’è sempre qualcuno là fuori che è in cerca di esperienze altrui e che non vede l’ora di immedesimarsi nei tuoi successi e nelle tue difficoltà.

La gente vuole essere partecipe del processo, non si accontenta di vedere l’opera finita.

Il proprio lavoro si può mostrare in molti modi, tenendo conto che oggigiorno se non sei online, per il pubblico non esisti. Dunque ben vengano i diario online, gli scrapbook online, i forum online, i documentari online.

Oggi giorno il creativo deve condividere qualcosa, anche una piccola cosa, magari solo un dettaglio di ciò che ha fatto durante il giorno (attenzione: il lavoro deve sempre avere la precedenza, non si deve mai dare la precedenza alla pubblicazione del lavoro).

Bisogna lavorare ogni giorno: poi non tutti sarà condivisibile, ma tutto è utile per il processo.

Si possono condividere, ad esempio, le fonti di ispirazione (libri, film, altri creativi simili): l’importante è creare un legame con chi ha interessi simili.

Insomma, bisogna far quel che piace e poi parlarne, restare un amateur curioso e cercare chi è come te.

Mai lavorare per i soldi: i soldi, se il lavoro è ben fatto e se il processo piace, arriveranno.

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Le brave ragazze non vanno avanti ma quelle toste sì (Kate White) @LibriMondadori

Sono a pagina 83 (su 299) ma sospendo la lettura.

La White parte da una premessa verificata da numerose ricerche sociologiche: le donne, fin da piccole, sono educate ad essere delle “brave ragazze”, ad intervenire solo quando viene loro richiesto, a seguire le regole, a fare tutto bene, a preoccuparsi di quello che potrebbe pensare la gente, ecc…

Ma se questo può essere di aiuto finché si è a scuola per prendere bei voti, poi, nel mondo del lavoro, i parametri per farsi strada sono molto diversi: serve iniziativa, sicurezza, capacità di delega, predisposizione al rischio, autonomia nella scelta degli obiettivi…

Senza queste abilità, la “brava ragazza” si vedrà soffiare le possibilità di carriera dai ben più allenati uomini che, fin da piccoli, sono educati ad osare, agire, essere sfacciati ed esporre la propria opinione.

Si complimenteranno per la tua regolarità, per la pazienza, perché prendi su di te una grossa fetta del lavoro globale e perché non corri stupidi rischi.

Noi donne

Abbiamo cominciato a preoccuparci di ciò che avremmo detto prima ancora di dirlo, mentre lo dicevamo e dopo averlo detto.

Per chi sogna di diventare una donna in carriera, possono essere utili le domande di questo libro. Eccone alcune ad esempio:

Nell’ultimo mese hai fatto qualcosa mai tentato prima nel tuo lavoro? Usato un approccio completamente nuovo per realizzare un compito o un progetto? Risolto un problema tormentoso che nessuno prima si era dato pena di affrontare? Preso una grossa responsabilità che esulava dai tuoi doveri? Presentato al capo un’idea che è riuscita a stupirlo? Realizzato qualcosa che ha reso verde d’invidio almeno la metà dei tuoi colleghi?

Non so voi, ma io ad ognuna di queste domande ho risposto un bel NO.

E sapete perché non continuo a leggere questo libro? Perché, anche se ho risposto negativamente, non me ne frega niente.

Sì, sono una brava ragazza che esegue gli ordini e che cerca di far bene i compiti che le danno da svolgere, e prendo uno stipendio commisurato alle mie (poche) responsabilità. Il mio obiettivo non è far carriera (non nel settore del mobile, per lo meno).

Ecco, adesso mi tirerete i pomodori, perché non sono come le dirigenti in tailleur e tacchi che si vedono nei film americani.

Ma è proprio questo, secondo me, il problema del libro: è radicato nella realtà statunitense.

Qui in Italia, nelle piccole e medie aziende, perfino gli uomini hanno difficoltà ad essere creativi e proattivi, figuriamoci le donne!

In secondo luogo, tutti gli esempi vincenti riportati dalla White hanno a che fare con attività creative: giornalismo, scrittura, riviste, architettura, marketing…

Ma in Italia le lavoratrici occupati in campi simili sono una esigua minoranza.

E qui mi rivolgo ai tipi della Mondadori (tra parentesi: se vi serve qualcuno che vi faccia reading/scouting, chiamatemi): volete pubblicare un bestseller sul mondo lavorativo femminile? Volete un bacino di clienti molto ampio per garantirvi alti numeri di vendita di un libro? Allora dovete avere commesse, impiegate, insegnanti e infermiere come target.

Perché, qui in Italia, per un libro come quello della White, non c’è pubblico (e infatti credo che abbia venduto ben poco).

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E poi siamo arrivati alla fine (Joshua Ferris)

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No, non ho scelto il libro perché il titolo, in questi giorni di COVID-19, è beneaugurante, tant’é che questo romanzo non ha nulla a che fare con i virus: si parla di ufficio e di impiegati.

Siamo a Chicago in una grossa agenzia pubblicitaria. La storia è raccontata dal punto di vista di un “noi” non meglio precisato.

In realtà non c’è una vera e propria storia, ce ne sono tante: tutto è pettegolezzo, tutto è riportato, tutto è chiacchiera, tutto è dialogo. Raccontare quello che si sa (o si pensa di sapere) degli altri è lo sport ufficiale.

Lynn, la socia fredda e orientata al business, ha un tumore al seno, ma se ne avrà la certezza solo dopo metà libro. Tom Mota è (forse) pazzo e si aspettano che, dopo il licenziamento, torni ad uccidere tutti. Amber è incinta di Larry, che però non vuole mettere a repentaglio il suo matrimonio e che vorrebbe che lei abortisca.

Carl, sposato con un’oncologa, è in depressione e ruba le medicine di una collega, anche lei in depressione perché le hanno rapito e ucciso la figlia di otto anni.

Ho avuto le mie difficoltà a inquadrare tutti i personaggi, perché sono tanti,  e l’unica caratteristica che li unisce è lo spauracchio del licenziamento.

Faccio notare una cosa: della vita che ognuno di loro conduce fuori del lavoro non si sa quasi nulla. Sintomatico il fatto che la vicenda attraversa l’11 settembre e questo non viene neanche nominato.

Alla fine la lettura ti prende, però questo libro non finirà nella lista dei miei libri preferiti.

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