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Perché i reality acchiappano tanto…

In una società consumistica, dove le merci per essere prese in considerazione devono essere pubblicizzate, si propaga un costume che contagia anche il comportamento dei giovani, i quali hanno la sensazione di esistere solo se si mettono in mostra.

Ma…

… la pubblicizzazione del privato è l’arma più efficace impiegata nelle società conformiste per togliere agli individui il loro tratto discreto, singolare, intimo.

 

(U. Galimberti, “L’ospite inquietante”)

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Il mestiere dello scrittore – Murakami Haruki

Non è un manuale: Murakami non dà suggerimenti per gli aspiranti scrittori, anche se sottolinea che la lettura, tantissima e diversificata, è il pilastro fondamentale della vita di un autore.

L’essenziale è leggere in continuazione.

Murakami si limita a raccontare come è diventato scrittore e ad esprimere alcune sue convinzioni su certi aspetti (la scuola, la forma fisica, i premi letterari, la lunghezza dei romanzi, l’originalità, il pubblico…) ma lo fa sempre sottolineando che si tratta del suo personalissimo parere e spesso si scusa (si scusa tantissimo, quasi non c’è una pagina in cui non ci sia un qualche tipo di scusa) perché la sua opinione non coincide con quella della maggioranza.

Eppure lo ammette: ha un carattere molto individualista e non sopporta di seguire la corrente. A scuola non era il primo della classe, ma faceva il suo dovere, perché nel Dopoguerra in Giappone non ci si pensava nemmeno a fare qualcosa di diverso.

E’ una persona dalle passioni esclusive e totalizzanti che ha cementificato in una routine al limite della mania: ma lui è così, dice, non riuscirebbe a comportarsi in modo diverso. Per esempio, non fa mai presentazioni di libri in Giappone (quelle con l’autografo ai libri, per intenderci) e non va in TV, perché deve scrivere, non ha tempo per altro.

Spesso ripete che lui non è una persona speciale, ha solo un talento medio per la scrittura, e che è stato fortunato a vivere di quest’arte per più di trent’anni.

Insomma, un testo che non contiene tecniche e suggerimenti pratici. E’ solo una specie di monologo. Ma l’ho trovato prezioso. In primo luogo perché ci sono pochissime interviste di Murakami in giro. In secondo luogo, perché adoro leggere frasi come questa:

Se non ci fossero stati i libri, se non ne avessi letti tanti, probabilmente avrei condotto un’esistenza più arida e indifferente alle cose.

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Chi ti credi di essere? – Alice Munro

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Pubblicato dall’Einaudi nel 2012 con questo titolo, in Canada lo si trova anche sotto “The beggar maid”, come la copia che ho io.

La Munro è un’ispettrice della psicologia femminile: rende benissimo gli alti e bassi dell’umore delle donne, le miserie, i dubbi. Rende, secondo me, meno bene i momenti di allegria. Ma, dopotutto, in un libro di momenti di allegria ce ne devono essere pochi, altrimenti manca il contrasto, il motore principale dei romanzi.

In teoria questa è una raccolta di racconti, ognuno compiuto, però hanno come protagonisti sempre le stesse persone: Flo e Rose, madre (adottiva) e figlia, e relativi parenti/amici. Un personaggio ben riuscito secondo me è Patrick, il marito (e poi ex marito) di Rose: uno che teme le apparenze, che si adegua alle aspettative altrui, materne in primis. E’ lui, secondo me, il personaggio da tenere sott’occhio: per evitare di assomigliargli.

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Francesco Maino a LeggerMente, S. Stino di Livenza (VE)

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Si è svolto ieri LeggerMente, il primo (piccolo) festival della letteratura di S. Stino di Livenza. Come ultimo incontro, dopo tre sessioni di letture alternate da brevi spezzoni musicali, c’è stata una chiacchierata con Francesco Maino, Premio Calvino 2013 per Cartongesso.

Ops, scusate, non dovevo nominare questo titolo… l’autore ha ammesso pubblicamente che ora vorrebbe scollarselo un po’ di dosso! L’ha scritto per buttar fuori quello che sentiva e che vedeva mentre viveva e lavorava come avvocato in questo nostro Nordest, ed ora si sta dedicando ad altro. Però alla fine, parlando di questo titolo Maino ha toccato un sacco di altri argomenti, dall’outlet di Noventa di Piave (VE) e ai panini con la coppa, al ruolo dello scrittore, dalla disposizione dei libri a casa dei suoi (come li capisco i loro problemi!), all’asteroide invisibile che sembra averci colpito stravolgendo il senso dell’umano nel mondo contemporaneo. Insomma, più che di Cartongesso, abbiamo parlato dell’Italia contemporanea (non solo del Nordest).

Tra le domande che gli sono state poste, devo parafrasarne una, perché alla fine Maino ha risposto solo indirettamente: gli è stato chiesto se dopo tutto quello che ha deplorato nel libro, è possibile una espiazione. L’autore ha citato Pasolini e il rischio dell’omologazione, ma alla fine la risposta nuda e cruda non è arrivata.

Giustamente. Come aveva detto poco prima, la letteratura non deve necessariamente dare delle risposte; ma non deve neanche limitarsi a dire: la letteratura deve porre domande!

Impressione generale di Maino: atteggiamento modesto e a tratti umorista (attenzione, ho detto umorista, non ironico, e per chi non capisce la differenza in questo contesto, suggerisco la Conferenza di Lugano di Guareschi); un po’ nervoso, insicuro, tratto tipico di chi ancora non si riconosce a pieno titolo nel ruolo che gli hanno attribuito. Eppure, da tanti riferimenti che ha nominato durante la sua chiacchierata (Zanzotto, Prevert, Neruda, Pasolini…) posso azzardare che l’uomo Maino era uno scrittore ben prima di essere acclamato come tale dal Calvino.

Perché legge. Perché legge certe cose. Perché le legge in un certo modo.

Perché osserva. Perché si indigna. Perché si meraviglia. Perché, a tratti, si dispera.

Perché vive in una dimensione autistica dove 2+2 non fa 4.

Perché la sua scrittura è arrivata solo dopo tutti questi perché, come una conseguenza naturale, come un’inondazione dopo anni continui di piogge e pioggerelline e acquazzoni.

Dai, adesso chiedetemi: tu che scrivi di Maino perché sei andata a vederlo a un incontro di un’ora e mezza in piazza, cosa ne pensi di Cartongesso?

Bè, lo confesso: non l’ho letto.

E (credo) non lo leggerò.

Dire che non l’ho letto è impreciso: diciamo che non l’ho letto dall’inizio alla fine come si fa normalmente con i libri. In realtà l’ho preso in mano innumerevoli volte da quando è stato pubblicato, ogni volta che entro in una libreria e lo vedo sullo scaffale, se non è incellophanato (che brutto vizio, il cellophane!), lo afferro e ne leggo una pagina.

Poi lo rimetto giù.

E poi torno a casa e cerco i commenti e le recensioni in internet, tutti entusiasti. E ne riconosco la veridicità.

Apprezzo (e, sì, invidio!) la professionalità di uno scrittore che sparge riferimenti letterati nella sua opera, la capacità di creare una scrittura nuova, di estrapolare fatti ed eventi dalla realtà sublimandoli sulla carta, il coraggio di denunciare atteggiamenti in cui a volte anche lui indulge, l’amore per la poesia che infila qua e là tra le sue pagine.

Ma allora perché non leggo Cartongesso?

Perché ci vivo dentro, al mondo di Cartongesso. E non me ne frega niente di eventuali accuse di vanità se dico che Cartongesso già vive dentro di me.

Prendo in mano il libro e leggo i miei pensieri, solo messi giù in una forma e in una lingua che non è la mia. Ma i contenuti sono quelli. Ed è difficile che una tale forma di immedesimazione si possa produrre solo dopo la lettura di poche righe, eppure mi succede; ed è per questo che rimetto giù il libro.

Sono i miei stessi pensieri sul mondo in cui vivo che mi danno fastidio! Vorrei toglierli dal cervello e vivere tranquilla, iniziare a bere lo Spritz e assaggiare un Mojito, guardare Grandi Fratelli, Meteo e ricette in TV senza incazzarmi per lo stato dell’informazione e della politica in Italia.

Ma non ce la faccio, è più forte di me.

PS: sto mentendo. Non lo so se un giorno cambierò idea e leggerò Cartongesso. Al momento mi avvalgo del mio diritto di Non Leggere (uno dei diritti del decalogo appeso al Municipio di S. Stino ieri).

Così come mi avvalgo del mio diritto di non bere il Mojito.

In futuro, non lo so.

 

 

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