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The game, Alessandro Baricco @einaudieditore

Non avrei mai creduto di appassionarmi così a:

a) un libro di Alessandro Baricco

b) un libro sul mondo digitale.

Eppure…

Baricco si è messo a ricercare le radici (la spina dorsale, i reperti archeologici) del mondo digitale di oggi risalendo agli anni Settanta e ha fatto una serie di scoperte interessanti.

Intanto: perché il mondo digitale è nato? Perché chi lo ha creato (ingegneri/scienziati maschi bianchi della controcultura americana) venivano dal Novecento, uno dei secoli più sanguinosi della storia umana. Per evitare il ripetersi di una tale tragedia, nelle loro menti, forse a livello inconscio, bisognava:

a) distribuire a tutti le informazioni e impedire, tramite la velocità, che le ideologie si fossilizzassero in pericolose direttive d’azione.

b) togliere il potere alle vecchie élites (professoroni, sacerdoti & C.)

(…) l’immobilismo culturale dei popoli e il ristagno piombato delle informazioni avevano portato i loro padri a vivere in un mondo in cui si poteva fare Auschwitz senza che nessuno lo sapesse, e sganciare una bomba atomica senza che la riflessione sull’opportunità di farlo riguardasse più di una manciata di persone.

Nel far ciò, è nata una certa ossessione per il movimento, per l’abbattimento delle barriere: in fondo, se si facevano le guerre era per mantenere o allargare i propri confini, in senso materiale e non.

Per allargare la base degli utilizzatori delle informazioni, l’unico modo era cambiare i tools, gli strumenti che usavano (perché, ricordiamoci che le persone non le cambi con interventi diretti, devono cambiare da sole): da qui ecco l’importanza data alla facilità d’uso.

Nel Novecento, infatti, le élites ci rappresentavano il mondo come un iceberg alla rovescia, dove la base, enorme, sopra l’acqua rappresentava il caos, il reale, e sotto, la puntina che solo alcuni potevano scoprire, stava la Verità.

I creatori del mondo digitale, invece, hanno fatto il contrario: l’iceberg tiene l’enorme base sotto l’acqua (la complessità dei devices) e lascia emergere solo la semplicità offerta all’utilizzatore (l’I-phone che si lascia gestire con un dito).

Questo può creare delle storture, certo. Ad esempio, viene rivisto il concetto stesso di verità: non è più vero ciò che è vero, ma è vero ciò che viene meglio raccontato (ecco l’importanza dello storytelling). D’altronde, se il movimento delle informazioni deve essere veloce, è normale che nella corsa alcuni dettagli si perdano per strada.

Altra stortura è la creazione di nuove élites: chi sa usare i nuovi strumenti. Chi non lo sa fare (o chi, semplicemente, non può permetterselo), resta indietro. Ricchezza e povertà, nel mondo digitale, sono ancora molto novecenteschi. E come le élites novecentesche, quelle digitali sono difficili da controllare (solo per fare un esempio, i bestioni digitali non pagano tasse o non le pagano come dovrebbero fare).

Altra stortura: la privacy è costantemente violata, checché ne dicano i sistemisti aziendali. Pensate alle cloud: non sono nuvolette nel cielo azzurro. Sono altri computer. Di chi? Dove? Mah. E i nostri dati, siamo noi: non è così difficile orientare le nostre scelte.

Baricco però mi ha fatto notare una cosa:

Il fatto che la Rete bene o male ti faccia arrivare solo le notizie che vuoi leggere, e che ti rafforzano nelle tue convinzioni, è una cosa che può davvero temere gente che ha conosciuto le parrocchie, le sezioni di partito, il Rotary, il telegiornale di quando non c’era la Rete e i giornali degli anni ’60?

Insomma, mi fa pensare il fatto che l’unico paese in cui oggi non arriva il segnale digitale è la Corea del Nord… è la prova che la rete fa paura a certi poteri.

Certo, c’è anche il problema dei millennials, che viaggiano veloci ma senza profondità, e che non hanno conosciuto i drammi del Novecento, e dunque non sanno perché è nato il mondo digitale.

Certo, gli umani aumentati, con gli smartphone in tasca, si sentono potenti, rifiutano il parere degli esperti perché pensano di poter fare da soli anche quando non è vero, e hanno sviluppato nuove forme di egoismo di massa.

Ma allora, se consideriamo tutte queste storture, che ci stiamo a fare ancora qui? Perché non ci solleviamo in blocco e smettiamo di usarle il cellulare e i computer e di ordinare tramite Amazon e di prenotarci le vacanze da soli? In fondo i fautori della rivoluzione digitale non sono solo i vari Jobs e Zuckenberg, è da idioti presentarla come una metamorfosi imposta dall’alto e dalle forze del male!

Qualcuno ce l’ha PROPOSTO semmai, e noi ogni giorno torniamo ad accettare quell’invito.

E infatti, chi si solleva davanti al mondo digitale, non lo fa per tornare indietro all’analogico.

Ebbene, la rivoluzione digitale è, appunto, una rivoluzione: un cambio repentino e violento del gioco. Ma le regole si costruiscono man mano che si gioca. E giochiamo tutti.

Se devo trovare un difetto al libro, è che Baricco a volte si lascia prendere dalla prosa e dalle immagini, e si dimentica di presentare qualche esempio che potrebbe rendere più concreta la tesi specifica.

Per il resto, questo è un libro facile da leggere ma illuminante che, attraverso la storia (anche se al limite della contemporaneità) ci fa capire l’oggi.

Ottimista ma non semplicistico, tocca, attraverso la realtà digitale, tutti i campi del nostro vivere quotidiano, dagli acquisti online alla politica interna ed internazionale, dalla famiglia ai passatempi.

Lo devono leggere assolutamente gli ingegneri, soprattutto italiani, che non sono come gli ingegneri della controcultura americana degli albori del digitale; ma anche chi usa tutti i giorni la piccola bomba atomica che ci teniamo in tasca/borsetta.

Un invito all’Einaudi: per favore, questo libro fatelo andare oltreoceano, non aspettate troppo a farlo tradurre………………………………

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Fuoriclasse – storia naturale del successo (Malcom Gladwell)

E’ interessante vedere come vengono tradotti i titoli nelle varie lingue. In tedesco, il titolo è Ueberflieger, che vuol dire sì fuoriclasse, ma indica più precisamente qualcuno che vola più in alto. E in tedesco è più significativo anche il sottotitolo: Perché alcune persone hanno successo e altre no (mentre in italiano leggiamo “Storia naturale del successo”: dove quel “naturale” è un’aggiunta arbitraria rispetto alla versione originale in inglese).

Ad ogni modo, questo libro non è un saggio di self-help. Anzi, ammetto che ti smonta un po’. Siamo lontani dalle visioni di Tony Robbins, che ti dice che puoi fare tutto ciò che vuoi se ti applichi.

No, Gladwell è molto più realistico: i fuoriclasse sono arrivati dove sono non solo grazie al loro talento e alla loro determinazione (leggi: capacità innate e buona volontà), ma anche, se non soprattutto, grazie a una concomitanza di… possibilità e vantaggi.

Non usa la parola “fortuna“, né tantomeno “culo“, ma il concetto è questo…

Facciamo un confronto con il tormentone dei manuali di autoaiuto che si leggono in giro, e prendiamo l’esempio delle 10.000 ore: ti dicono che puoi diventare un virtuoso di violino, un eccelso giocatore di pallacanestro, un famosissimo scrittore se ti applichi con costanza all’attività che hai scelto. Diecimila ore è la quantità di tempo indicativo che ti serve per arrivare ovunque nella vita.

Dicono.

Ma Gladwell ci fa notare: ok 10.000 ore. Ma per avercele, queste 10.000 ore, devi trovarti nella situazione adatta. Come ci arrivi ad avere tutto questo tempo a disposizione se non sei di buona famiglia, se non hai chi ti aiuta, se devi lavorare dodici ore al giorno per guadagnarti la pagnotta?

Oppure, prendiamo l’esempio dei geni matematici. Gladwell ci fa fare conoscenza con un ragazzo americano, Langan, le cui competenze di calcolo sono eccezionali: un quoziente intellettivo che fa vergognare Einstein, superiore anche a quello di Oppenheimer; Langan si è fatto conoscere al pubblico americano grazie a un quiz televisivo. Eppure questo ragazzo svolge un lavoro umile, uno di quelli con cui hai difficoltà a pagarti il dottore quando serve. Non ha saputo mettere a frutto le sue abilità.

Perché? Perché venendo da un ambiente svantaggiato, non possedeva le competenze sociali necessarie per farsi strada nel mondo universitario. E non è colpa sua se è nato in una certa famiglia e in un certo ceto.

Altri esempio di “condizioni favorevoli” sono l’anno di nascita (a volte anche il mese, per la scelta dei ragazzi nelle squadre di hockey), il ceto di appartenenza, il periodo in cui si frequenta l’università o si apre una certa attività, ecc…

Gladwell porta esempi molto dettagliati, mini-biografie, alla maniera americana.

Non so però se è un libro che può aver… successo. Credo di no, perché questo saggio è uscito in un momento in cui vanno alla grande i libri di self-help che ti dicono che puoi fare tutto quello che vuoi se lo vuoi (addirittura alcuni ti dicono che puoi fare quello che vuoi solo pensandoci), libri scritti da guru che danno speranza, che ti galvanizzano, che ti fanno uscire di casa per andare a correre e perdere quei trenta chili di sovrappeso che ti hanno chiuso le possibilità di trovare la bonazza di turno.

Gladwell è più equilibrato. Più realista.

La massa non vuole realismo, vuole reazioni di pancia, estremismo.

Ecco, in questo io facevo parte della massa.

A me piace la speranza.

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