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Greenlights – L’arte di correre in discesa (Matthew McConaughey)

Matthew McConaughey mi è piaciuto molto su Interstellar, ma ho apprezzato anche il suo primo film, Il tempo di Uccidere (in cui fa un bellissimo monologo verso la fine), e Mud e The Gentlemen.

Questa autobiografia l’ha scritta a cinquant’anni, quando ha ripreso in mano i diari che scrive da trentacinque anni a questa parte.

Ne viene fuori il ritratto di un ragazzone texano che proviene da una famiglia di operai turbolenti: la madre e il padre hanno divorziato due volte e si sono risposati tre volte (loro due!), e per loro era normale rincorrersi attorno alla tavola e insultarsi, litigare di brutto e poi cominciare a far sesso in cucina: si volevano bene così, anche se la madre ha il dito medio storto, dopo che il marito gliel’ha rotto in più occasioni perché lei glielo mostrava sempre.

Matthew McConaughey era bravo a scuola, ma era anche portato per l’autoriflessione, prova ne sono questi diari pieni di pensieri e frasi ad effetto. Sebbene gli piacesse scrivere poesie, non disdegnava una scazzottata – magari col padre, come rito di passaggio. Gli piacevano le ragazze e lui piaceva a loro (ha vinto il titolo di ragazzo più bello dell’anno, una volta: solo in America possono fare concorsi del genere tra gli studenti).

Religioso ma amante delle armi e dei pick-up, da giovane sognava di fare l’avvocato, poi si è accorto che non faceva per lui e ha iniziato a studiare cinema, anche se il successo non gli è arrivato grazie agli studi: è stato abbastanza intelligente da capire che la recitazione a intuito era quella che meglio gli si addiceva.

E’ sempre stato un tipo sicuro di sé e molto ottimista, qualità che lo hanno aiutato a Hollywood, insieme al bell’aspetto, che gli ha fornito una serie di ruoli in commedie che gli hanno offerto subito la notorietà e i soldi.

Ma a differenza di molti attori americani che sono andati fuori di testa per la rapidità con cui sono saliti sull’Olimpo delle scene, McConaughey è stato capace di concedersi i suoi momenti di riflessione.

Ha preso un camper e si è girato 48 stati degli USA (su 50), è andato sul Rio delle Amazzoni, in Africa, in un convento sperduto nel deserto… Da solo.

Ripeto: da solo. Non si è affidato a un’agenzia, non si è portato dietro amici o ragazze. No: da solo. Per riflettere. Questo mi piace.

Non dico che le riflessioni riportate nel libro siano molto creative, né che ti aprano gli occhi su delle verità a cui non eri ancora arrivato: a volte spiattella con parole leggermente diverse delle constatazioni che facciamo tutti. La scrittura è molto basica, si vede che non ha un background letterario (anche se a lui piace raccontare storie e non gli dispiacerebbe diventare scrittore). Un aiutino da un autore affermato avrebbe dato qualche punto in più a questo libro così personale.

Mi ha lasciato un po’ a bocca asciutta in un paio di passaggi, quando fa intendere che ha vissuto dei momenti difficili: parla di “questione familiare” e “questione delicata” ma non scende nel dettaglio, scegliendo di mantenere la sua privacy, di non mettersi tutto in piazza. Può essere comprensibile in un’ottica umana, ma il libro ne risente dal punto di vista letterario.

Vengo dalla lettura di “Will” di Will Smith, e “Open” di Agassi, e “Becoming” di Michelle Obama: autobiografie molto più approfondite di questa di McConaughey che si limita a raccontare episodi e a trarne conclusioni abbastanza scontate.

Si apprezza la veste grafica, perché è pieno di fotografie e font diversi e scrittura manuale, ma l’aspetto visivo non compensa le mancanze letterarie.

Eh sì, una biografia deve essere anche un’opera letteraria, deve darmi qualcosa dal punto di vista umano.

Matthew, mi dispiace, sei uno sgnoccolone ma lascia stare la letteratura (e poi, mi illudi facendoti passare per alternativo e fuori dagli schemi, e alla fine ti sposi con la classica fotomodella brasiliana…).

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Will (Will Smith)

Soddisfacente, il primo libro dell’anno (Mark Manson ha dato una mano😅).

Will Smith è uno degli attori hollywoodiani più pagati al mondo, ha al suo attivo una sfilza di successi musicali e cinematografici, una bella famiglia e soldi 💰 a palate. Eppure…

Un memoir sarebbe alquanto noioso se ci parlasse solo di tenute principesche e tournée sfavillanti. Servono dei lati oscuri, servono delle difficoltà da superare, perché alla fine anche una biografia è una narrazione e ci deve tenere legati alle sue pagine.

Ma che problemi può avere un milionario famosissimo?

Risaliamo alla sua infanzia.

Figlio di un venditore di frigoriferi molto ingegnoso, Will Smith è sempre stato educato a darsi da fare. “Il 99% equivale a 0” gli diceva suo padre, e lui ha interiorizzato il motto, fino a farne una filosofia di vita. Ma nonostante il suo impegno, la sua famiglia di origine ha avuto i suoi alti e bassi a causa del padre che quando era ubriaco diventava molto violento, soprattutto nei confronti della moglie.

Will, ancora piccolo, sviluppa una strategia difensiva che si basa sul far ridere: diventa il pagliaccio di famiglia e fa di tutto per adeguarsi alle aspettative dei genitori. Ma una strategia del genere è poco soddisfacente nel lungo periodo… e Will se ne accorge quando scopre il rap e l’hip hop: negli anni Ottanta questi generi musicali sono agli albori e gira un’energia tutta speciale che lo fa sentire ammirato per la prima volta in vita sua.

Sapendo di dare un grande dispiacere alla madre, rinuncia (con enormi sensi di colpa) al college per dedicarsi anima e corpo alla musica, e i suoi sforzi vengono ben presto ripagati in termini di soldi e successo, tanto che a vent’anni si ritrova milionario.

Ma tutto il suo mondo crolla quando la sua ragazza di allora lo tradisce. Dentro di sé il ragionamento è: ma come, ho fatto di tutto per piacere alle persone, ho vinto un grammy, giro per tutti gli Stati Uniti, riempio gli stadi, e ancora non sono amato?

E qui inizia la depressione, che si esprime con uno shopping sfrenato (ma davvero sfrenato…) e sesso senza amore. A ciò si aggiunge che in queste condizioni non riesce ad essere al massimo della forma creativa e il terzo album è un fiasco. Poi arriva il fisco, che si riprende tutto quello che lui non ha pagato negli anni in cui i soldi arrivavano a fiumi.

Ma gli Stati Uniti sono un paese in cui tutto può succedere.

Will conosce un tizio, che conosce un altro tizio, che lo invita a una festa di compleanno e gli fa fare su due piedi un provino per il Principe di Bel Air, e là inizia di nuovo una carriera televisiva e cinematografica che andrà alla grande fino ad oggi.

Però le lezioni non mancano mai. Will Smith si ritroverà a dover lottare per l’affidamento del figlio, prima di capire che non è il caso di distruggersi la vita per distruggerla alla ex moglie.

Poi sposerà Jada Pinketts, la donna dei suoi sogni, con la quale però dovrà andare in terapia di coppia (e sì, già prima del pugno dato in diretta televisiva agli Oscar, il libro è stato scritto prima di questo evento).

Nonostante le buone intenzioni, la sua volontà di proteggere e far prosperare la propria famiglia ha spesso dato risultati controproducenti.

Solo un paio di esempi: al quarantesimo compleanno della moglie Jada, le ha organizzato una festa incredibile che ha richiesto tre anni di lavoro e ricerche (non parliamo neanche di soldi). E’ stata così enorme, che la moglie si è sentita sopraffatta e non l’ha vissuta come un omaggio a lei, bensì come un tentativo del marito di attirare l’ammirazione su se stesso…

E che dire della figlioletta Willow? Anche lei, verso i dieci anni, ha avuto una breve esperienza musicale. E’ stata un’esperienza breve ma intensa, che avrebbe potuto lanciarla nel firmamento delle star. Will era super fiero della figlia ed era già pronto a indirizzarla verso le vette della notorietà, quando la bambina ha detto: “Adesso basta”.

E lui l’ha sentita, ma non ha capito cosa intendeva. La ragazzina è dovuta arrivare al punto di rasarsi i capelli per far capire al padre che lei voleva essere ascoltata, ma ascoltata sul serio.

Will Smith è finito in terapia per cercare di combattere l’insoddisfazione cronica e la necessità spasmodica di piacere agli altri.

Al di là dei lustrini e dei miliardi, i bisogni umani sono sempre gli stessi: accettazione, amore, senso. Anche il memoir di una stella del cinema ci aiuta a ricordarcelo.

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L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica – Walter Benjamin

Trentotto pagine che ti fanno riflettere.

Siamo abituati a pensare all’arte come qualcosa dotata di AURA, di un misterioso alone luminoso, che non è in realtà niente altro che UNICITA‘. Non bisogna invece confondere la sua unicità con la sua irriproducibilità.

Perché le opere d’arte, fin dall’inizio, sono sempre state riproducibili: si pensi alle gazzelle disegnate sulle pareti delle grotte preistoriche, o ai dipinti degli allievi che ripetevano fino allo sfinimento i quadri e le tecniche dei loro maestri.

Certo, una cosa è la riproducibilità manuale, e un’altra cosa è la riproducibilità tecnica.

Quanto influisce il mezzo di riproduzione sull’aura? Una sinfonia di Beethoven ascoltata nel 2019 attraverso un MP4 perde la sua aura per il fatto che è riprodotta a secoli di distanza dalla morte del suo artista?

Benjamin non dà risposte: non potrebbe, visto che la tecnica è sempre in evoluzione e non si arriva mai ad un punto fermo. Però ci fa riflettere.

La riproducibilità tecnica, ad esempio, è stata sfruttata per portare l’arte alle masse. Una volta non era così: l’arte veniva presentata a un pubblico scelto, e la fruibilità era mediata dall’alto, gerarchicamente (si pensi all’esposizione di quadri nelle chiese e nei monasteri), allo scopo di controllare la reazione del fruitore.

Oggi l’arte si presenta alle masse: è diventata trasportabile e riproducibile. Questo riduce la possibilità di influire sulla reazione del pubblico, spesso culturalmente impreparato o semplicemente distratto, ma oggi verrebbe considerato come un aspetto positivo, democratico.

Un’altra conseguenza della riproducibilità tecnica è la scomparsa dell’elemento rituale.

L’arte è nata come un rituale magico (e poi religioso), ma il rito non è più necessario quando l’arte viene riprodotta: viene meno il luogo e vengono meno le formule che prima erano elemento transustanziale dell’oggetto artistico.

Oggi l’arte ha un valore di esponibilità che è superiore a quello cultuale.

Il breve saggio finisce con una postilla sul confronto tra fascismo e comunismo dal punto di vista del loro atteggiamento verso l’arte.

Il fascismo vede la propria salvezza nel consentire alle masse di esprimersi (non di veder riconosciuti i propri diritti).

Quando ho letto questa frase mi sono subito venuti in mente i social, in cui tutti si sfogano senza (quasi) mai combinare niente.

La guerra, e la guerra soltanto, rende possibile fornire uno scopo ai movimenti di massa di grandi proporzioni, previa conservazione dei tradizionali rapporti di proprietà.

Un testo che dovevo leggere.

Così stanno le cose riguardo all’estetizzazione della politica che il fascismo persegue. Il comunismo gli risponde con la politicizzazione dell’arte.

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Niebla, Miguel de Unamuno

Sì, lo so che non bisognerebbe giudicare i libri dalle loro riduzioni, ma il mio spagnolo è ancora troppo rozzo per abbordare uno stile (e una storia) come questa:-(

Perché, diciamolo, è alquanto strana. Una meta-storia: un ragionamento sulla storia stessa e sul senso dei romanzi… e della vita.

Augusto, un giovane ricco ma poco pratico, un giorno esce in strada e si innamora di Eugenia, una ragazza che non ha mai visto. Peggio: da quel giorno, si accorge… delle donne. E non riesce a fare a meno di innamorarsi di tutte quelle che incontra. Inclusa Rosario, la ragazza che gli stira i vestiti.

Però, Eugenia è fidanzata. Con un nullafacente, certo, ma è fidanzata, e rifiuta l’amore (ma si può parlare di amore??) di Augusto. E Augusto decide di sacrificarsi, aiutare la ragazza finanziariamente senza chiedere nulla in cambio.

Lei accetta, non senza fatica. Ma solo dopo che il suo fidanzato le ha fatto capire che non vuole sposarsi, né lavorare.

Salto un po’ di passaggi e arrivo alla fine: Augusto decide di suicidarsi, ma prima di farlo, va a parlare con Unamuno in persona. Sì, il suo autore.

Ecco perché parlo di meta-storia. Richiama alla memoria sia i “Sette personaggi in cerca di autore” di Pirandello, scritto più o meno nello stesso periodo (ma sembra indipendentemente l’uno dall’altro), “The Truman show, e anche, a mio modesto parere, “Blade Runner“.

Solo che il romanzo di Unamuno è punteggiato di riflessioni filosofiche sulla vita, sull’amore, sull’anima, sulle donne, sui generi letterari… tutti argomenti che, in una riduzione, perdono profondità, e mi son sembrati ragionamenti di un bambino di sei anni. Devo leggere l’originale!

Mi piace l’uomo Unamuno. Mi piace sempre una persona capace di prendere decisioni, magari “sbagliate” (lui all’inizio era favorevole all’insurrezione dell’esercito di Franco), e mi piace quando, studiando la realtà, le cambia (ammettere di aver sbagliato è difficile… mi ricorda Thomas Mann, che, per ragioni diverse, ha tenuto un atteggiamento simile di fronte alla prima guerra mondiale).

Gente così decide dopo aver ragionato. Noi, al giorno d’oggi, decidiamo dopo aver guardato la TV.

I ragionamenti non arrivano sempre alla Verità, ma implicano comunque una fatica. Sì, decidere, scegliere, implicano fatica. Rischi, a volte. Come quelli che ha assunto Unamuno nel 1936, quando si è alzato in piedi durante la cerimonia di apertura dell’anno accademico (insegnava all’università di Salamanca) e ha detto quello che pensava della guerra incivile.

Ecco, sono innamorata (anche) di Unamuno.

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