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L’arte nel cesso – Francesco Bonami

Francesco Bonami è un critico d’arte contemporanea ma dovrebbe fare il comico. Questo breve saggio è una collezione unica di trovate spiritose, simpatiche similitudini e immagini spiazzanti.

Prendendo di volta in volta spunto da una caratteristica diversa, Bonami dice peste e corna di un bel po’ di mostri sacri, sia artisti che critici. Prendete questa:

Nel caso di Ai Weiwei coloro che amano la sua arte – se così dobbiamo chiamarla – individuano in lui uno strumento con il quale possono sia considerarsi appassionati d’arte che politicamente e socialmente responsabili.

Ai Weiwei, a detta di Bonami (ma non solo) sarebbe un venditore di fumo che sfrutta la mediaticità di certe tragedie globali, niente di più e niente di meno di quello che fa Trump.

E l’icona Marina Abramovic? “Sfacciata e pesante”. Dice, Bonami, che nella sua messa in scena “The artist is present“, in cui lei stava seduta sette ore al giorno, immobile, faccia a faccia coi suoi fans, non è passato nessun messaggio, solo una vaga meraviglia per quell’autocontrollo fine a se stesso. Però, si lamenta Bonami, l’Abramovic non si può toccare:

Criticarla è come tirare i pomodori a Bocelli mentre canta alla cerimonia di apertura delle Olimpiadi.

Le opinioni dell’autore sugli artisti sono divertenti ma opinabili: da un’opera d’arte, per come la vedo io, anche se molti artisti vivono di rendita o approfittano della propria intoccabilità, ognuno ci tira fuori quello che vuole. Ovviamente, però, certi consigli di Bonami andrebbero presi sul serio: non basare tutto il proprio lavoro sulla sola tecnica, non sfruttare problemi globali, non verbalizzare troppo, non approfittarsi della buona fede del pubblico, non dimenticare mai di raccontare una storia (possibilmente, che non si riduca a una serie di foto scattate nel corso di vent’anni e che ritraggono l’artista si taglia le unghie… sì, non sto scherzando, l’hanno fatto), ecc…

Quello su cui non si può discutere, è la critica ai critici.

I critici, soprattutto italiani (per gli anglosassoni è diverso), semplicemente, non si fanno capire. Allontanano l’appassionato (e quello che potrebbe diventare un appassionato di arte contemporanea) utilizzando linguaggi incomprensibili (quando va bene) e pressoché privi di ogni significato (quando va male).

L’arte ha bisogno di storie.

Ma non storie come questa:

L’arte si muove su un ventaglio di linguaggi tutti tesi verso l’affermazione di un progetto dolce capace di costruire la sua misura formale nelle sue diverse apparizioni.

…zzo vuol dire? Uno così deve riempire una colonna e basta, tanto valeva diteggiare sulla tastiera a casaccio!

Tornando a Bonami: secondo lui l’arte contemporanea è giunta alla fine. E’ iniziata con un orinatoio (la Fontana di Duchamp del 1917) ed è finita nel 2017 con un water d’oro, in cui gli utenti potevano davvero fare i propri bisogni. Cosa ci sarà dopo? Non lo sa.

Al bivio troviamo due cartelli, da una parte una freccia verso “emozione”, dall’altra una freccia verso “fede”. Dove andiamo? Forse le due strade si ricongiungeranno, forse no.

Posso lanciare una previsione ottimista? Facciamo che le due strade alla fine diventino una, con la freccia che semplicemente ci dice “umanità“. L’emozione da sola rischia di scivolare nell’animalità, la fede da sola rischia di scivolare nel fanatismo: scegliamo l’umanità, con le sue contraddizioni, le sue forze e le sue debolezze.

Un sincretismo necessario.

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“You can do it with everything” Contemporary art Language – Angela Vettese

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The aim of the author is to show that contemporary art works on a collage base. But the collage can be made with everything: paper, metals, plastic, words, movies, ready-made, other art works, and so on.

The collage has its own meanings: it is often light (compared to heaviness of Sixties’ art) and one of its main feature is the transitoriness. It gives you the idea of a fragmented reality and it often requires interactivity, as if the public is a little piece of the whole collage.

Contemporary art is often a developing process, not an object, and here you see the frequent use of -ing form (happening, dripping…).

I found particularly interesting the part that explains how some artists put their works in very hard-to-reach places (for instance in the desert, far away from autoroutes or airports); with a two-faces purpose: to show a critic to institutional art places and to educate the public, that must be ready to make some efforts to go there to “admire” the art work.
The result? Very little public. Anyway… I appreciate the attempt.

At the end, Angela Vettese try to sum up the direction of contemporary art. It seems that this art doesn’t want to show the author anymore. The point is not the subject anymore, it must be something else; the society, maybe, with its trends and fears. Maybe this is only modesty. Or, more probable, loneliness.

The problem of this essay is that Vettese wants to put too many examples to explain what she is telling. They are so many, that I doubt that the average reader knows all artists and art works that she mentions. And the book cannot show a picture for each art work, otherwise it would have been 20 times longer.
As a result, I think that this book is an essay for contemporary art lovers, not for someone who wants to get an idea of this odd world.

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L’arte contemporanea, Angela Vettese

Quando si parla di opere d’arte contemporanea

come in tutte le cose, per comprenderle occorre un poco di allenamento e passione.

La curiosità c’è; l’allenamento ancora mi manca.
Ho ancora bisogno che qualcuno mi spieghi il senso di certe installazioni, performances, video… probabilmente dovrei vivere alcune mostre. Immagino che una cosa sia vedere la foto di “Square depression” di Bruce Nauman (2007, Muenster), e un’altra sia camminarci sopra, sentirsi attirare dal centro, convergere insieme a degli sconosciuti.

Ma allo stato attuale, se mi trovassi davanti a un “Concetto spaziale” (Fondana, 1950), ne coglierei qualcosa che vada al di là della tela giallognola e bucherellata? Non lo so.

Sono affascinata da alcune personalità artistiche: Beuys col suo coiote e le sue 7.000 querce, ma anche con l’invenzione della sua genesi artistica; Warhol che ha fatto da bersaglio a una pazza e che ha rischiato di morire; Ai Weiwei, artista e dissidente cinese che ha scelto di restare nel suo paese affrontando anche il carcere…
Però le opere le trovo ancora difficili da decifrare da sola.

La Vettese aiuta a sciogliere qualche pregiudizio; ad esempio, la necessità di riscontri emotivi, di “bellezza”, poesia, elementi che sono svicolati dall’arte odierna.
Mi fa ripensare in termini nuovi al fastidio che provo davanti alle provocazioni (il nudo, il raccapricciante, l’estraniamento…) o davanti alle quotazioni assurde che raggiungono alcuni pezzi (magari delle semplici foto numerate); ma rimetto in dubbio anche la c.d. libertà degli artisti: dallo stato, dalle ideologie, dal mercato, dai soldi: la libertà dell’artista esiste davvero?
Un ultimo appunto: la Vettese nomina tantissime personalità, scrittori, filosofi, curatori, collezionisti, artisti. Solo per caso mi sono accorta che ne manca una: Vittorio Sgarbi.
Non c’è neanche di striscio.

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