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Diario di Hiroshima (Michihiko Hachiya)

Continuo la lettura di libri drammatici, basati su fatti realmente accaduti, e ambientati in Oriente durante la seconda guerra mondiale (per far dispetto a mio marito😹😂…).

Stavolta ho letto il diario del dottor Hachiya, direttore di un piccolo ospedale di Hiroshima. Inizia a scriverlo subito dopo l’attacco con la bomba atomica.

Quando la bomba cade, lui si trovava a casa sua in un momento di relax: ha visto una luce intensissima e poi tutto buio, e poi è cominciato il fuoco, ma lui e sua moglie sono riusciti a cavarsela nonostante le ferite. Appena ha potuto si è recato al suo ospedale, dove le condizioni erano disperate: molti dottori e infermiere erano morti o moriranno poco dopo l’attacco, e le medicine si sono subito rivelate insufficienti di fronte alla domanda.

Il dottore, dopo essersi rimesso, cerca di capire cosa è successo. Non si sa ancora nulla della bomba atomica e delle radiazioni, le informazioni sono vaghe e si cerca di curare i malati dai sintomi: bruciature, vomito, diarrea, inappetenza, emorragie interne ed esterne, perdita dei capelli…

Nella disgrazia generale, quando l’imperatore comunica via radio la resa senza condizioni, tutti, dopo la sorpresa iniziale (“Abbiamo perso? Non è possibile!“) si lasciano andare alla disperazione. E quando vengono a sapere che dei militari stanno per andare a visitare l’ospedale, il loro primo pensiero è di prendere la foto dell’imperatore e di portarla al castello per metterla al sicuro, perché se dovessero sfregiarla sarebbe la fine di tutto.

A ingarbugliare la situazione già difficile ci si mettono i burocrati: in alcuni ospedali di Hiroshima non si sa più dove mettere i cadaveri. Non si possono cremare perché manca il documento ufficiale e non ci sono gli ufficiali che possono emetterlo. Alcuni medici rischiano pene severe per aver effettuato autopsie (ma senza autopsia come facevano a capire cosa succedeva?).

Altri rischiano ripercussioni solo perché fotografano Hiroshima distrutta.

E poi ci sono le credenze dell’epoca.

Il tabacco, ad esempio: i medici fanno festa quando uno di loro riesce a procurare una scorta praticamente illimitata di sigarette. Fumano come ossessi, ad ogni ora.

E il cibo: sono dell’idea che chi mangia molto non muore, e allora cercano di imbottire di cibo chi inizia a perdere i capelli o a mostrare petecchie su tutto il corpo, nonostante la loro inappetenza.

Le storie di morte e sofferenza riportate nel diario si ripetono un po’ tutte, ma il dottore ci avvisa che ne ha raccontate solo alcune, di tante ascoltate.

Il resoconto finisce con una nota di speranza. 🐈

Gli ultimi occidentali che sono andati all’ospedale si sono dimostrati gentili e utili: i giapponesi questo non se lo aspettavano; “Ma guarda un po’, sono brava gente…” e questo ci fa capire a che lavaggio del cervello fossero stati sottoposti per far loro credere che il nemico fosse un mostro a sette teste.

Quando penso alla bontà di quei soldati, sono indotto a ritenere che i propositi di rivincita si possono dimenticare.

Ma quando un militare dice al dottore che i giapponesi devono prendersela col proprio Paese per aver causato tutto il disastro che li circonda, il dottore davvero non capisce: come si può odiare il proprio Paese? (Chiedilo a un italiano…)

Un’ultima cosa che mi ha colpito è la quantità di amici del dottor Hachiya: continua a ricevere visite di amici e lettere, tuti preoccupati della sua salute e di quella di sua moglie. Il tessuto sociale era davvero molto importante.

Lo stile di scrittura, nonostante il resoconto drammatico, è molto lineare, senza sbalzi passionali, come si conviene a un orientale.

Oltre al valore documentaristico, anche la prosa ci aiuta a ridimensionare i fatti. Il dottor Hachiya era buddista, dunque gli era stato insegnato fin da piccolo ad accettare la sofferenza come parte della vita quotidiana.

E anche questo libro, come il precedente, ci ricorda di guardare tutto in prospettiva: quello che è qui oggi, non sarà qui domani, e quello che c’era qui ieri, non è più qui oggi.

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La disobbedienza ed altri saggi, Erich Fromm

Eh no, ragazzi miei: facendo i bambini obbedienti non si arriva da nessuna parte. A dircelo è Fromm, e ce lo ha messo per iscritto un bel po’ di tempo fa. La civiltà è nata con un atto di disubbidienza: avete presente Adamo ed Eva, quelli che andavano in giro con la foglia di fico che poi non era fico? O Prometeo, che va a rubacchiare cose che non gli spettano? O tutti quegli scienziati che hanno messo in dubbio il pubblico sentire?

Limitandosi all’ubbidienza non si cresce, non si diventa liberi: ci si limita ad eseguire gli ordini.

Ora tutti diranno: anche io voglio essere libero! anche io! e io no?

No.

In realtà la gente dice solo a parole che vuol essere libera; perché quando si tratta di prendere decisioni e di assumersi le responsabilità che ne conseguono, tutti (anche io) alzano le mani e si giustificano: ma io ho fatto quello che mi ha detto lui/lei!

L’uomo inserito in un’organizzazione ha perduto la capacità di disobbedire, non è neppure consapevole del fatto che obbedisce. Nell’attuale fase storica, la capacità di dubitare, di criticare e di disobbedire può essere tutto ciò che si interpone tra un futuro per l’umanità e la fine della civiltà.

Certo, Fromm scriveva negli anni Sessanta sotto l’incubo del disastro atomico, ma la situazione attuale non è molto diversa, anzi, forse è peggiore, perché ci disinteressiamo di tutto quello che non ricade hic et nunc – qui ed ora – nel nostro orticello.

Questo è uno degli argomenti che Fromm affronta in questo breve saggio. Parla anche di socialismo umanitario (mettendoci in guardia dalla deformazione della teoria Marxista fatta dai politici), di reddito minimo garantito (e questo vi consiglio di leggerlo!), di disarmo unilaterale, di pratica della pace.

Parla all’uomo dell’uomo.

Ho adorato le pagine in cui distingue i profeti dai sacerdoti:

Possiamo definire profeti coloro i quali proclamano idee – non necessariamente nuova – e in pari tempo le vivono. (…) Chiameremo sacerdoti coloro i quali fanno uso delle idee che i profeti hanno enunciato.  I profeti vivono le proprie idee; i sacerdoti le somministrano a quanti hanno care le idee stesse. Le quali perdono così vitalità (…) accade sempre che la formulazione acquisti importanza una volta che l’esperienza sia morta.

Ecco perché la gente non crede più in niente: perché le idee che vengono fatte circolare oggi fanno appello solo alla nostra mente, non al nostro cuore. Ci mancano gli esempi.

Si può affermare senza tema di esagerazione che mai la conoscenza delle grandi idee prodotte dalla specie umana è stata diffusa in tutto il mondo come oggi, e che mai queste idee hanno avuto meno incidenza di oggi.

E poi, sentite come Fromm ci spiega il senso di colpa contemporaneo: coloro che lo provano

non sono tormentati da un problema morale, ma dal fatto di non aver obbedito a un ordine.

Che l’ordine venga da un’organizzazione o sia il precetto di un’autorità interiorizzato, la sostanza non cambia.

Dobbiamo lavorare su noi stessi. Tutti.

 

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