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L’illusione di Dio (Richard Dawkins)

Richard Dawkins è un biologo evolutivo. L’evoluzione della specie per lui, dunque, è pane quotidiano, ma la sua scelta di campo (ateismo contro religione) non è solo una questione accademica.

Come ci fa notare in una serie di interessanti esempi, alla religione vengono riconosciuti diritti che ad altri settori della comunità non vengono riconosciuti. L’obiezione di coscienza, ad esempio: in alcuni paesi si può evitare il servizio militare per motivi religiosi, ma non esiste l’obiezione di coscienza se si è semplicemente contrari alla guerra, non importa quanto logico sia il nostro motivo.

Un altro esempio, molto più vicino al caso italiano, sono le varie cause di esenzione fiscale di cui godono le Chiese, nonché il flusso di denaro che, dalle nostre tasse, tramite meccanismi volontari, giungono a enti religiosi (che non sono di solito tenuti a render conto a nessuno, cosa che se succedesse in una società per azioni privata porterebbe a diversi arresti).

Un esempio che mi riguarda: quando ho iscritto il bambino alla mensa scolastica, potevo richiedere l’alimentazione vegetariana per motivi religiosi, ma non per motivi salutistici (nonostante sia ampiamente dimostrato che meno carne si mangia e meglio è).

Gli esempi di Dawkins sono tratti principalmente dal contesto statunitense e anglosassone. Certe mostruosità, dunque, ancora non ci riguardano (per il momento).

Dawkins ci racconta ad esempio il caso dei genitori mormoni che hanno ritirato il figlio dalle scuole dell’obbligo per motivi religiosi e il sistema legale ha riconosciuto il loro diritto di farlo (cosa che non sarebbe successa se avessero opposto altre ragioni).

Sempre negli Stati Uniti: è possibile ricorrere ad allucinogeni per “incontrare” dio e per avere esperienze “mistiche”, ma in certi paesi non ammettono neanche l’uso della marjuana per motivi sanitari. In alcuni stati americani non è ammesso l’aborto, neanche se la ragazza è stata messa incinta in seguito ad uno stupro.

Secondo Dawkins, Dio è una vera e propria illusione.

I creazionisti affermano che il mondo così com’è può essere stato creato solo per intervento divino o per caso. Il caso viene escluso perché gli esseri viventi sono così complessi che le probabilità che si arrivasse, ad esempio, a un corpo umano o a una foglia di platano erano davvero infinitesimali.

In realtà, saltano a piè pari il complicato processo dell’evoluzione: non si tratta, per il caso, di creare un corpo umano dal nulla. Se fosse così, allora l’evento corpo-umano sarebbe praticamente impossibile. Ma l’evoluzione è un insieme di eventi poco probabili che si sono verificati in serie, nell’arco di migliaia di anni. Ognuno di questi step era poco probabile, ma non impossibile.

L’accumulo di questi eventi poco probabili ha portato al risultato che è davanti ai nostri occhi oggi.

E’ molto interessante anche la parte in cui Dawkins spiega perché la religione è nata e perché il cervello umano propende per credere in un qualche creatore.

Uno dei motivi, ma non il solo, è che un cervello che ragiona in senso teleologico ha un vantaggio biologico.

Mi spiego: se vediamo una tigre, non è biologicamente conveniente analizzarla in termini chimici o storici; è molto più conveniente considerarla dal punto di vista teleologico, e presumere che la tigre abbia un fine, che è quello di mangiarci. Da qui a pensare che tutto l’esistente abbia un fine, il passo è non breve ma abbastanza consequenziale.

Un’altra parte interessante del libro è quella in cui l’autore spiega che il senso morale può sussistere benissimo senza le religioni (anzi, il senso del bene spesso persiste nonostante le religioni). Sono state fatte molte ricerche scientifiche in questo senso, e tutte concordano che, più o meno, il 97% dei soggetti, indipendentemente dal credo religioso, danno le stesse risposte moralmente connotate.

La morale e lo Zeitgeist nel tempo evolvono nonostante la religione, e non grazie ad essa.

Non solo: un’altra ricerca del 2005 “mette a confronto 17 nazioni sviluppate e giunge alla devastante conclusione che ai più alti livelli di religiosità corrispondono i più alti livelli di omicidi, mortalità infantile e giovanile, malattie veneree, gravidanze e aborti di adolescenti”.

Quindi non solo la religione è superflua: è dannosa.

Senza contare la sfilza di assurdità che sono scritte in alcuni dei testi delle religioni principali. Pensiamoci…

Prendiamo il Dio degli ebrei: è un dio genocida. Ammazza tutti, inclusi donne e bambini e pure gli animali, se il suo popolo decide di “adorare” un altro dio. E i casi in cui le donne sono considerate meno delle bestie non si contano.

Oppure, in campo cristiano: perché un Dio deve far ammazzare il proprio figlio per salvare il mondo? Che legame c’è tra sacrificio e salvazione? Io questo non l’ho mai capito.

Così come non ho mai capito il discorso della trinità: uno e trino. Nessun sacerdote è mai stato in grado di spiegarmelo in modo da rendermelo accettabile.

Ogni mia domanda veniva tacitata con la frase finale: è una questione di fede (= credi ad occhi chiusi perché te lo diciamo noi o te lo dice il Libro). E non c’è niente di peggio che insegnare ai bambini che la Fede è una virtù: gli si insegna ad accettare quello che gli viene detto solo perché lo dicono certe figure designate.

Mi si dice: devi leggere la Bibbia (o il corano o il vangelo ecc…) considerando il contesto storico in cui è stata scritta. Ma questo discorso va bene solo per alcuni passaggi, e non per altri. Dov’è il criterio oggettivo per capire quali passaggi sono da intendere in senso letterale e quali no? Non c’è.

Questo saggio è molto godibile. Meriterebbe di essere letto solo per ridere (amaramente) dei casi di estremismo religioso che si verificano negli Stati Uniti al giorno d’oggi.

In realtà, se avevo qualche dubbio sull’esistenza di un’intelligenza superiore, ora se ne è andato. E non sono triste o depressa. Non medito il suicidio e non ucciderò la mia vicina di casa per impossessarmi dei suoi pansé.

Ho frequentato la parrocchia fino ai 18-20 anni, ho fatto parte di tutti i consigli ed organi cattolici che c’erano al mio paese. Ero fuori casa tre o quattro sere alla settimana per partecipare a qualche iniziativa organizzata dal sacerdote. La comunità si reggeva attorno alla chiesa parrocchiale. Era un ambiente tranquillo, attivo, con persone piene di buone intenzioni, ma – me ne rendo conto adesso – era sempre latente la convinzione che chi non frequentava la chiesa e la parrocchia non fosse, in fondo, una brava persona.

E, soprattutto, certe idee assurde non si potevano mettere in discussione (peccato originale, verginità della Madonna, vita eterna, eutanasia, coppia eterosessuale, cellule staminali!!!).

“Non possiamo spiegarti perché è così, ma devi crederci”.

Basta. Mi avete preso in giro fin troppo a lungo.

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Il grande Boh! (Jovanotti)

Non sono mai stata una grande fan di Jovanotti, riesco a malapena a lasciare in sottofondo le sue ultime canzoni, quelle più melodiche, mentre guido (più per la pigrizia di cambiare radio che per voglia di ascoltare le sue canzoni) ma mi sono incuriosita a leggere questo libro perché avevo letto la presentazione di Fernanda Pivano (eh sì, proprio lei) che era molto elogiativa.

E’ pubblicato nella collana della Feltrinelli dedicata ai libri di viaggi, e in effetti Jovanotti parla molto di viaggi qui, soprattutto Patagonia ed Africa.

Mi piace l’immagine di un giovane cantante che, mentre i suoi album sono in testa alla classifica in Italia, è sotto il deserto africano, da solo, a guardare le stelle, o che si fa milleduecento chilometri in bicicletta in Patagonia, sempre da solo.

Il contenuto insomma potrebbe essere interessante, come sarebbe interessante se fosse stato scritto da qualunque altro giovane sconosciuto che avesse compiuto le stesse gesta, ma di sicuro, la Feltrinelli non si sarebbe mai pensata di pubblicare lo stesso identico libro se fosse stato scritto da uno sconosciuto, semplicemente perché… è scritto con lo stile di un adolescente.

Non è un memoir ordinato in ordine cronologico, anzi, non è neanche un memoir: è piuttosto una serie di riflessioni, alcune tratte dai diari; ci sono molti testi di possibili canzoni o di poesie, riflessioni (sull’arte, sulla pena di morte ecc…), ingenuità, dubbi, commenti, interiezioni (“Madonnamia”, “occhessoio”), elenchi…

Un po’ di tutto, insomma, presentato con uno stile basico, quasi sempre parlato, e non si lesinano neanche gli errori: non distingue il medio dall’anulare, parla di uomini di “taight”, di pronipoti di Achille… mi viene il dubbio che lo faccia apposta, ma poi mi chiedo, perché dovrebbe farlo? Cosa darebbe in più al libro una serie di errori così madornali? Voglio dire: se dai alle stampe un libro, anche se si tratta solo di una raccolta di riflessioni, almeno sistemale prima di pubblicarlo, dove erano gli editor? Jovanotti può decidere (se ha deciso consapevolmente) di scrivere come vuole, ma è giusto sottoporre a un pubblico, si presume giovane, un testo pieno di errori e di semplicismi: abbassa il livello culturale.

Non voglio togliere nulla all’esperienza di un giovane in cerca di se stesso attraverso il Viaggio, ma me la prendo con le case editrici che pur di vendere, si svendono, e che danno la possibilità di pubblicare testi di bassa qualità se si tratta di personaggi famosi, senza prendere neanche in considerazione bozze di gente sconosciuta ma capace di scrivere!

Non fanno tutte così (l’Einaudi mi sembra più seria anche nella scelta dei memoir) ma la Feltrinelli mi ha molto delusa!

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Il dolore innocente (Vito Mancuso)

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Se Dio è onnipotente, perché permette il dolore innocente e, in particolare, l’handicap? Forse non lo impedisce perché non è onnipotente?

Sono domande che teologi e credenti si pongono dall’alba delle religioni.

Secondo l’OMS, nel mondo nascono circa 8.000 bambini al giorno con qualche forma di handicap, dalle più lievi alle più gravi. E Dio che fa?

Mancuso, teologo laico, ha affrontato il problema dopo la morte di quello che, se fosse nato, sarebbe diventato suo figlio: cercando una risposta tra gli scritti cristiani, si è accorto che mancava un testo che approfondisse direttamente la questione.

Mancuso si dedica prima a una carrellata storica, esaminando le varie risposte che sono state date nei secoli e tra le religioni principali.

Esaminiamo le varie possibilità.

O Dio vuole la sofferenza innocente, o non la vuole.

Se la vuole, ci possono essere varie ragioni, così riassumibili:

  • punizione: per secoli la nascita di un figlio disabile viene fatta risalire a qualche malefatta dei genitori, soprattutto di natura sessuale
  • previsione: per secoli, in varie religioni, la nascita è considerata il segnale di qualcosa che doveva succedere
  • salvezza: la sofferenza diventa un ostacolo da superare per mondare dai peccati, propri o altrui.

Se Dio non vuole la sofferenza innocente, allora la stessa si verifica a dispetto (o con il permesso) divino (ma non approfondisco qui le varie ipotesi).

L’analisi storica delle varie risposte alla domanda iniziale occupa gran parte del saggio, fino a pag. 141 (su 209 pagine totali).

Quando poi Mancuso arriva alla sua conclusione, a mio modesto parere, non convince del tutto.

Prima ricorre al concetto di Contraddizione, che é un elemento essenziale della natura e della religione cristiana: pensate a una cellula che deve morire per permettere la sopravvivenza dell’organismo (apoptosi), o a una stella che deve esplodere per espandere nell’universo gli elementi chimici che renderanno possibile la vita, o a Gesù che era Dio e uomo, e che muore per far vivere… (e già qua, mi si chiede di tornare ai dogmi, dunque si abbandona il ragionamento logico seguito fino a poche pagine prima).

la legge che governa lo svolgersi della vita sulla terra è basata sulla morte

Poi considera l’handicap come la notte dello spirito, un passaggio necessario per far tabula rasa di nozioni e false credenze prima di arrivare alla vera conoscenza/illuminazione.

E infine si aggrappa alla Libertà, sommo concetto che, sembra, il nostro Dio ha tenuto in massima considerazione: il Dio cristiano sarebbe un dio impersonale che al momento della creazione ha dato delle informazioni top-down ma che poi si è ritirato per lasciar lavorare l’uomo e la natura in completa libertà.

L’unica condizione è che Dio, per far nascere la libertà della natura, rinunci a manifestarsi come persona, ma si manifesti solo come deitas, come principio divino impersonale, che agisce solo immettendo informazione top-down.

Sbaglio o questa frase si sconfessa da sé? Se Dio è impersonale, se non ha individualità, allora come fa a “rinunciare” a manifestarsi come persona? La rinuncia è una decisione che presume una persona che prende atto di varie opzioni tra cui scegliere. Dunque la persona c’era prima, e poi è scomparsa perché ha deciso di fare così?

Forse non ho una formazione sufficiente per capire certi passaggi.

Riassumendo: la natura tende alla Vita in un processo di prove ed errori.

Ma allora, perché continuiamo a parlare di Dio e a tenere in piedi istituzioni enormi come le gerarchie ecclesiastiche?

Continua a sfuggirmi qualcosa.

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Ciò che credo – Hans Kueng

Hans Kueng, uno dei teologi più controversi (per la chiesa cattolica, che prende in malo modo molte delle sue critiche), con questo libro ci racconta in cosa crede davvero, al di là della dottrina ufficiale e dei litigi che si è trovato ad affrontare in decenni e decenni di lavoro.

Perché Hans Kueng, nonostante tutto, rimane cristiano-cattolico.

Credo – e anche lui lo afferma – che gran parte della sua fede sia fatta di un nocciolo duro composto dalla sua Fiducia di fondo: nella vita, nelle persone, nel mondo. E’ una fiducia che viene messa alla prova, ma che è sempre là. Tuttavia, non la può spiegare, e queste 344 pagine di libro non mi hanno convinta.

Come si può nutrire ancora fede in un mondo che non fornisce nessuna prova a favore dell’esistenza di un Dio? Ebbene: Kuengle prove se le cerca. Nelle scienze naturali, nella musica, nella matematica…

Ci convince?

No, perché, più che di prove, si tratta di indizi e deduzioni personali, e perché, come non si possono fornire prove dell’inesistenza di Dio, non si possono fornire neanche prove per la sua inesistenza. Niente di nuovo, dunque, qui.

Non ci convince neanche quando passa alla Teodicea, quella branca della teologica che si occupa della… giustificazione di Dio. Cioè: se c’è così tanto male nel mondo, come può essere Dio onnipotente? Se è onnipotente, allora non è buono, perché non ci protegge da uragani e olocausti. E se è davvero buono, allora non è onnipotente, perché comunque non ci aiuta.

Devo dire però che ho ammirato la sincerità di Kueng, quando ammette, semplicemente, che la teodicea non si può spiegare.

Il suo modello, è il Gesù storico: è un modello da seguire soprattutto per quanto riguarda la sua capacità di accettazione del male inevitabile e la sua capacità di amare anche i nemici. Secondo Kueng, la figura storica di Gesù (attenzione: storica, non “tradizionale, ortodossa”) è ciò che lo fa restare cristiano.

Non capisco.

Non è necessario essere un cristiano cattolico per prendere Gesù come modello: è un personaggio la cui grandezza è riconosciuta anche la di fuori della nostra religione. E il messaggio di amore che viene portato avanti dalla chiesa cattolica, non è esclusivo (senza parlare di tutti gli scandali in merito a pedofilia e denaro).

Non capisco neanche bene la sua scelta tra un Dio persona e impersonale. Una volta accettato che Dio esiste, la distinzione non è oziosa: se dio è personale, allora ha senso rivolgersi a lui con la preghiera. Se non lo è, acquista più significato un atteggiamento simile alle meditazioni/contemplazioni orientali.

Voglio dire: per Kueng Dio non è persona (non nel senso comune del termine, perché non ci si può sempre riferire all’esperienza quotidiana), tuttavia, lui prega (anche se si adatta le preghiere a modo suo).

Se poi voglio finire la lista dei punti su cui sono in disaccordo, eccone altri due:

  • Kueng dice che non esistono gli extraterrestri. Lo dice in una frase molto perentoria, dopo aver specificato che lui si è anche dedicato all’astronomia. Ma ho l’impressione che ne escluda l’esistenza per elevare il significato dell’esistenza dell’uomo, più che per reali deduzioni scientifiche (come puoi escludere che la vita esista in galassie e pianeti lontanissimi? E’ una questione statistica, di probabilità…).
  • Dice che non si potrà mai eliminare la sofferenza animale, perché, alla fine, l’uomo deve mangiare. Falso. Si può vivere benissimo senza mangiare gli animali.

Direte: ma se non sei d’accordo su quasi niente di quello che dice, per cosa lo leggi?

Beh, è una persona colta, che ha studiato per una vita intera. Magari è fuorviato dalle sue credenze (questa benedetta fiducia di fondo…), ma si è dato da fare.

E poi, è stato coraggioso: quando qualcosa non va nella chiesa cattolica, lui lo dice.

Ad esempio: ho visto un’intervista di recente, in cui ammetteva di essere malato di Alzheimer. Ha dichiarato che quando sarà il momento, lui vorrà decidere come morire.

Si è dichiarato contro l’infallibilità papale e ha spiegato l’inconsistenza dell’immacolata concezione e del peccato originale. Non condivide che la chiesa cattolica sia ancora contraria all’entrata delle donne nel clero e ribadisce che la resurrezione di Cristo non va intesa come rianimazione di cadavere, ma in senso più profondo.

(…) mi rifiuto categoricamente di sostenere, sulla base di una comprensione maschile di Dio tipicamente romana, l’impossibilità e l’inadeguatezza dell’ordinazione delle donne, che ritengo conforme alle scritture e ai tempi.

Tra due giorni è Pasqua: quanti di quelli che andranno a messa sono ancora convinti che il cadavere di Gesù sia uscito coi propri piedi dal sepolcro? La maggioranza, temo.

Parliamo di aborto?

Oggi (…) si sostiene – appunto più in base ad argomenti teologico-dogmatici che non medico-biologici – che anche la cellula-uovo fecondata è già persona, concezione che ha avuto come conseguenza un inasprimento circa la questione dell’aborto.

E poi ci sono alcuni passaggi in cui se la prende con lo sfruttamento mediatico della personalità papale e delle (presunte) reliquie (Notre-Dame: tutti preoccupati per la corona di spine di Cristo, mi raccomando): tutti sintomi di una fede ancora infantile, non adulta né responsabile.

Insomma, non andrò a messa neanche questa Pasqua, ma le persone che “cercano” mi piacciono.

Anche se alla fine giungono alla conclusione che qualcosa esiste solo perché

Io sono convinto che la mia vita è stata più felice con Dio piuttosto che senza.

Forse la mia è solo invidia.

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Certi libri… son poco recensiti

WHY SOME BOOKS GET FEW REVIEWS (English version: below)

Se non se ne parla, non esiste. Chi lo diceva?

Non mi ricordo. Certo è che la frase è tanto più vera nella nostra quotidianità infarcita di social e smartphone. Sento però un obbligo morale di aggiungermi alle poche recensioni che ci sono in giro (oggi, non al momento della pubblicazione) per la quadrilogia “Giuseppe e i suoi fratelli” di Thomas Mann.

La storia la conoscete perché è scritta nella Bibbia. Ma è proprio quando una storia è conosciuta, e raccontata e riraccontata, che, a forza di sentirla, perde forza, perde l’energia che l’aveva ispirata quando è stata elaborata la prima volta.

Per un libro, il fatto di basarsi su una storia biblica ne riduce l’attrazione. Oggi impera il laicismo, l’indipendenza intellettuale: l’immagine della religione è legata a oscurantismo, pecore e pecoroni.

In un certo senso sì. Però il rifiuto in blocco di una corrente di pensiero è sintomo di scarsa indipendenza intellettuale.

E l’opera di Thomas Mann (così come quella di Carrère e di altri narratori che si sono cimentati con i miti) diventa doppiamente valente: perché riscopre i moventi psicologici che hanno dato il via alle storie.

E, credetemi, i moventi umani sono sempre gli stessi.

Sempre.

Certo, il libro risente degli anni in cui è stato scritto: la gente di oggi non parla come Ruben, Beniamino, Giacobbe e Giuseppe. Però si comporta allo stesso modo: soprattutto, ho ritrovato in queste pagine le stesse sottigliezze linguistiche che ognuno di noi adopera per giustificare i propri atti, anche se la coscienza ci dice che non erano proprio… morali!

A nessuno piace ammettere di essere vanitoso o geloso o invidioso. E allora ci giustifichiamo.

E così fanno Giuseppe e i suoi fratelli.

Tranquilli: la prossima volta che ci comporteremo da vanitosi, gelosi, invidiosi, non ci ricorderemo del libro di Thomas Mann, né cambieremo atteggiamento per il solo fatto di averlo letto.

Saremo troppo impegnati a giustificarci.


I you do not talk about it, it does not exhist.

This is even truer in our world full of smartphone and fanpages, therefore I want to add my humble review to the few ones I found in internet about Thomas Mann’s “Joseph and his brothers” (please note that you find few reviews today, but when the book was published: Mann’s books Always were bestsellers).

You know the story, because it is a biblical one. But the fact that you hear the same story more and more, it means that the story looses strenght, it looses the energy that it showed when it was released the first time).

Nowadays a big slice of population prefers to stay away from religion: the word calls for oscurantism, sheeps and intellectual restriction.

Actually, on the contrary, if someone refuses a thinking method, this is sign of a restricted… brain!

And this is why we must be grateful to Thomas Mann (but also to Carrère and other Writers who has worked on biblical themes): because he showed us the psychological reasons of those ancient acts.

And, believe me: men act Always in the same ways. With the same purposes.

Always.

Of course: today people do not talk like Joseph and his brothers. But inner motives are the ones that move us today.

Justification, for instance. Joseph justifies himself because he make the spy with his father, and his brothers justify themself because they hate him.

Be careful: next time that you will justify yourself for something immoral, for being envious, jealous, or mean, you will not remember this novel. Because you will be too busy in justifying yourself.

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Le storie di Giacobbe – Thomas Mann

Se l’interesse per le storie bibliche precipita in caduta libera, non è perché esse siano noiose: sono, al contrario, piene di pathos, avventure, colpi di scena; ma il modo in cui vengono raccontate oggi negli ambienti religiosi è tutto fuorché avvincente.

Per fortuna ci sono gli scrittori…

“Le storie di Giacobbe” è il primo capitolo di una tetralogia. Inizia con un colloquio tra Giacobbe e il figlio Giuseppe vicino a un pozzo, di notte. Nessun dettaglio è superfluo: il pozzo rappresenta il passato, il regno dei morti, il mistero. La notte, con la luna, ammanta l’esistente di una luce particolare che ci permette di vedere le vicende passate in modo nuovo (e qui sorvolo sui richiami alle varie divinità lunari).

Qui è tutto un risalire alle origini (perfino delle piante e degli animali), al proprio passato: il mito si ripete, ci dice Thomas Mann, e i protagonisti stessi a volte, parlano al presente di eventi già trascorsi o usano i pronomi in prima persona quando in realtà stanno parlando di avi defunti molto tempo prima. Il mito è, non fu.

I personaggi biblici, che dalle letture in chiesa ci risultano così piatti e monotoni, qui sono descritti con tutti i loro pregi e difetti.

Giuseppe è un chiacchierone e spione: suo padre gli dice di non riferire certe cose ai fratelli, e lui fa il contrario. I fratelli combinano guai (più o meno gravi), e lui va a riferirlo al padre. Proprio di una simpatia unica.

Giacobbe ne ha fatte anche di peggio. Intanto, ha fregato la primogenitura al fratello Esaù imbrogliando il padre cieco (e pure, diciamolo, un po’ stupidotto).

Poi, a Schekem, non accetta di dare in sposa la figlia Dina al figlio del signorotto locale e questi la rapisce (faccio presente che a questo ragazzo era stato detto che avrebbe potuto avere la ragazza se si fosse fatto circoncidere, cosa che lui fece, ma inutilmente). I figli di Giacobbe, per vendicare l’onore della sorella, massacrano tutta la popolazione locale: Giacobbe non poteva non sapeva, ma li ha lasciati fare.

Quando i figli sono tornati da lui dopo aver compiuto scempi inenarrabili, Giacobbe ha brontolato, ha fatto la sua scenata, ma è comunque scappato portandosi dietro tutte le mandrie e il bottino (e questo signore qui si faceva chiamare Benedetto, perché diceva che le sue fortune gli venivano dal Signore… ah benon!)

Ah, per la cronaca: Dina è stata riportata in seno alla famiglia, ma era incinta. Giacobbe l’ha costretta ad abbandonare il figlio nel deserto appena nato…

Giacobbe non è neanche un mostro di intelligenza: si fa prendere per il naso per anni dal suocero Labano, che lo costringe a lavorare gratis per lui con la promessa di dargli in sposa la figlia Rachele, e quando arriva la notte delle nozze, non si accorge neanche che nel letto non c’è Rachele, ma sua sorella… (stesso imbroglio sull’identità che lui aveva fatto alle spalle di Esaù: chi fa la l’aspetti – ancora: il mito si ripete).

Insomma, questa gente non è proprio un modello di virtù.

Un altro messaggio che Thomas Mann vuole sottolineare (e lo fa spesso nel corso di questo romanzo) è che sono le passioni a muovere la storia: ecco perché la storia si ripete. Perché si ripetono le passioni. Ed ecco perché è necessario conoscere il passato, entrare nel pozzo, per capire meglio come comportarsi oggi.

Però una domanda mi sorge spontanea. Questo libro è uscito nel 1933, in piena ascesa dell’antiebraismo hitleriano. Considerando che brutta figura ci fanno qui gli ebrei, il romanzo va a rimpinguare la scorta di odio che già era notevole nel paese.

Perché Thomas Mann ha scelto proprio questo argomento in un periodo così poco consono?

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Il vangelo ebraico (Daniel Boyarin)

Sembra una contraddizione, parlare di Vangelo ebraico, considerando che gli ebrei non riconoscono Gesù come il figlio di Dio. Eppure…

Boyarin è professore di cultura talmudica ed è uno dei maggiori esperti di ebraismo al mondo. In questo libro, uno dei più leggibili nella lista delle sue opere, cerca di dimostraci che Gesù non ha operato una rottura col mondo ebraico, ma ha portato a compimento le profezie del proprio popolo.

Gli ebrei aspettavano il messia da tempo. La questione era: questo figlio di falegname, è il Messia?

Anche in questo saggio, si ribadisce che Gesù era ebreo. Se si è messo a litigare coi farisei, era per difendere la Torah scritta dalle loro pignolerie ed esagerazioni, per difendere la Vera Tradizione ebraica dalle interpretazioni rabbiniche, non per operare una cesura con essa.

I farisei applicavano la Torah alla lettera dicendo che stavano applicando la “tradizione degli antichi”: ma Gesù, e molti altri come lui, non era d’accordo. Gesù, da questo punto di vista, era un conservatore e cercava di far rispettare lo spirito della Torah, il suo aspetto umano.

Altro punto interessante, è che in realtà gli ebrei all’inizio dei tempi non erano perfettamente monoteisti. Le radici della loro religione vedono la coesistenza di due essenze divine, un Vegliardo, un Capo dei giorni, e un Figlio dell’Uomo. Ai tempi dei tempi, si parlava di El e Ba’al.

Questo dualismo è stato poi ripreso nelle prime due persone della Trinità. Dunque, anche qui: niente di nuovo.

E non è nuova neanche l’idea di un Messia che soffre e muore per l’uomo.

Boyarin, riprendendo la lettera di alcuni testi ebraici, ci spiega come la figura di Gesù sia stata travisata attraverso secoli di interpretazioni pilotare. Ma non è una critica, la sua. E’ una constatazione, un esame dei testi, un riconoscimento del tempo che passa e delle persone che manipolano le storie.

Perché di storie si tratta.

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Questa vita – Vito Mancuso

Vito Mancuso, teologo cattolico, è diventato vegetariano.

Grazie alle risorse di cui ora maggiormente disponiamo, io credo sia giunto il tempo di superare l’antropocentrismo alimentare della tradizione occidentale. (…) la possibilità di mitigare il tasso di violenza insito nella vita esiste e l’alimentazione più adeguata al riguardo è quella vegetariana.(…) per la Bibbia la dieta originaria degli esseri umani non prevedeva l’uccisione di animali, come appare dalle parole del Dio biblico ai primi uomini: “Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra, e ogni albero fruttifero che produce seme: saranno il vostro cibo” (Genesi, 1,29). (…) rimane indiscutibile che il regime alimentare vegetariano contribuisce a diminuire il tasso di violenza nel mondo perché non sparge sangue e perché elimina le sofferenze degli animali sottoposti a macellazione (…).

Questo non vuol dire che se al mondo diventassimo tutti vegetariani/vegani, sarebbe eliminata la violenza. La violenza è ineliminabile: anche i jainisti che si mettono un velo davanti alla bocca per evitare di inghiottire per sbaglio degli insetti, poi si ritrovano un corpo che volente o nolente uccide i batteri nocivi che entrano nell’organismo.

L’alimentazione però non è il tema centrale del libro. Sulla scia delle sue altre opere, Mancuso ribadisce che esiste un Disegno, che Qualcosa o Qualcuno (Dio? Natura?), a partire dal Big Bang ha fatto sì che il creato si organizzasse in maniera sempre più evoluta: si parla di un orientamento verso la crescita dell’informazione, fino alla mente.
Già le probabilità per la nascita della vita erano infinitesimali (e lui riporta le parole e i dati statistici di scienziati/Nobel, credenti o meno). Ma, se ragioniamo in termini di semplice vita che tende a riprodurre se stessa, allora si va anche oltre: perché si è passati dagli organismi unicellulari a quelli pluricellulari se questo comporta addirittura una perdita di vitalità? Cioè: i batteri tra tutti i viventi risultano i più adatti alla sopravvivenza.

Ci sono sì il caso e la selezione naturale a regolare l’evoluzione, ma, secondo Mancuso, c’è anche una logica aggregatrice,

una tendenza intrinseca della natura verso la crescita dell’informazione in un universo bioamichevole.

Poi c’è un’altra parte del libro che mi piace un casino: quando dice che ogni corpo fisico esistente è dato da energia + informazione (tener conto che energia e materia sono solo due diversi stadi della stessa cosa).
L’energia è la capacità di compiere un lavoro. E il primo lavoro che compie un ente è quello di… essere! Che collegamento stratosferico con la cultura orientale, che con tutte le tecniche meditative mira all’Essere e basta.

L’informazione costituisce l’identità di un oggetto in quanto tale. Ognuno di noi, ben prima della sua componente materiale, è la sua informazione. La nostra materia infatti è pressoché identica a quella di tutti gli esseri viventi.

Come tutti i libri di Mancuso, ridurlo a poche righe in un post è limitativo: leggetelo!

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Noah, ovvero: il Noè dei giorni nostri…

Non mi ha entusiasmato. Forse è colpa della pubblicità martellante, che ha creato troppe aspettative. Di sicuro sono perplessa per colpa delle numerose variazioni sul tema introdotte rispetto al racconto della Bibbia.
Per mia personale curiosità sono andata a riesumare la Bibbia: ho scoperto di averne tre versioni, ma tutte si discostano dal racconto del film in alcuni punti.
Intanto, il Noè della Bibbia aveva una cosa come seicento anni: e se Russell Crowe nel film aveva seicento anni, io sono gerontofila.
Poi: Matusalemme (era suo nonno? Non lo sapevo) è morto prima del diluvio, un bel pezzo prima, mi pare, non travolto dall’ondata.
E i custodi? Nella Bibbia si parla solo di Giganti, anzi, se ne accenna di striscio e poi basta: non si dice che erano fatti di fango, che odiavano gli uomini perché per colpa loro erano stati maledetti da Dio, che aiutano Noè a costruire l’arca, che vengono uccisi ritrasformandosi in esseri alati…

L’altro aspetto fastidioso: la questione delle mogli dei figli di Noè. Nella Bibbia, Dio dice a Noè di caricare sull’arca moglie, figli e mogli dei suoi figli. Nel film invece Noè non vuole portare mogli per i figli perché dice che Dio gli ha dato il compito di salvare gli animali, non si far riprodurre la specie umana una volta che le acque si saranno ritirate. Nel film Noè arriva addirittura a voler uccidere due nipotine appena nate perché sono femmine (se erano maschi, potevano vivere). Poi non lo fa, ma perché? Perché è Russell Crowe, dai!

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