L’artista opera con la fantasia, mentre il designer usa la creatività.
(…) La fantasia è una facoltà dello spirito capace di inventare immagini mentali diverse dalla realtà (…). La creatività è una capacità produttiva dove fantasia e ragione sono collegate per cui il risultato che si ottiene è sempre realizzabile concretamente.
Credo che queste poche frasi siano la sintesi di tutto il libro: il resto è un corollario. E’ anche la distinzione che trovo più affine al mio modo di vedere le cose, sebbene non sia d’accordo con tutto quello che scrive Munari.
Secondo Munari, l’artista (parliamo di arti visuali) lavora da solo creando pezzi unici, e lo fa per se stesso e per un’élite; questa élite può essere molto diversa in base alla società presa in considerazione; dunque, se la società è corrotta, saranno gli artisti corrotti a prevalere, perché l’élite definirà artista chi le è congeniale.
Il designer invece lavora in gruppo per creare molti pezzi (non pezzi unici), e non lo fa per un’élite, ma per il pubblico: maggiore è il suo bacino d’utenza, meglio è.
Da quel poco che conosco in materia di arte contemporanea, questa è una generalizzazione: non è vero che gli artisti creino solo pezzi unici né che lo facciano da soli. Si pensi, tanto per fare un esempio (ma ce ne sarebbero diversi) alla land art, che ci propone installazioni enormi, ambientate in laghi, campi incolti o deserti: sono opere gigantesche, che necessitano di collaborazioni con persone di diverse capacità.
Non sono neanche convinta che il designer si rivolga sempre ad un pubblico il più vasto possibile, basta vedere i prezzi di certe articoli di arredamento di alcune marche.
Interessante anche quello che Munari ci dice in merito al background culturale: secondo lui, l’artista ha sempre una preparazione classicista da cui però poi spesso si allontana per innovare. Ne deriva uno scollamento tra la sua opera e la capacità recettiva dell’élite a cui si rivolge, perché anche questa ha una preparazione classicista, ma si è fermata là: ecco perché molti artisti, i veri capi-scuola, sono spesso incompresi. Avviano avanguardie e sono considerati, quando va bene, pazzi, per poi venir riconosciuti come maestri dopo la loro morte.
I designer, invece, agiscono su un substrato culturale meno classicista ma più attivo, più vissuto, perché il loro pubblico deve riconoscersi in quello che compra.
Un’altra differenza tra artista e designer è che il primo ha uno stile personale, deve averlo, anche ai fini del riconoscimento nel mercato dell’arte (anche a rischio di decadimento commercialo). Il designer, al contrario, non deve avere uno stile personale, perché deve essere più flessibile per adattarsi all’uso dell’oggetto.
L’esempio portato da Munari è molto chiaro: ci fa vedere le foto della poltrona Wassilly di Breuer nella sua versione definitiva e in quella originale, che si rifaceva ai quadri di Mondrian. La prima versione cerca di catturare lo stile personale di Mondrian: ed è una schifezza, come poltrona. La Wassilly, invece, è semplicemente perfetta per l’uso e ha una sua razionalità estetica.
E poi, lasciatemi lodare Munari per la sua critica alla critica d’arte: sono perfettamente d’accordo con lui. I critici dovrebbero aiutare il pubblico ad entrare in contatto con le innovazioni dei veri artisti, e invece ricorrono a testi troppo letterari o autoreferenti, con il risultato di allontanare la gente dall’arte (per me lo fanno apposta: se l’élite è troppo numerosa, non è più élite, con tutta una serie di conseguenze, ma qui il discorso si allargherebbe troppo).
E’ pure simpatico, Munari: gioca con l’impaginazione, con i registri linguistici (pensiamo alla tavola rotonda per la definizione di arte), e ricorre molto all’ironia e al sarcasmo (vedi la critica all’arte commerciale e ai designer che vogliono fare gli artisti e viceversa).
In conclusione: una lettura davvero piacevole, per quanto risalente al 1971, quando il problema delle copie nel design non era ancora così diffuso, e certe forme di arte visuale non erano ancora state inventate.
Voto: 4,5 su 5.
Quando l’artista opera nel suo mondo di arte pura, non si preoccupa del pubblico che osserverà la sua opera. Tutto preso dalla forza realizzativa in cui cerca di non perdere niente dell’idea pura che lo ha spinto a operare, non può preoccuparsi del fatto di essere capito o meno dal pubblico; la sua unica preoccupazione è di dar forma (pittorica o scultorea) alla sua idea artistica. Il pubblico capirà più tardi, quando avrà abbandonato i suoi preconcetti scolastici.