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The Tender Bar, a memoir – J.R. Moehringer

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Questa autobiografia è uscita in Italia col titolo “Il bar delle grandi speranze”.

Mi è piaciuto? Sì, ma in modo altalenante.

Trovo sempre un po’ fastidiosa una narrazione che riguarda la dipendenza. Da alcool, da fumo (che fastidioso “La coscienza di Zeno”!), dagli altri.

Il fulcro di questo libro è il bar, in cui il protagonista trova quelle figure maschili che non ha trovato in famiglia perché suo padre se ne è andato di casa appena lui è nato. Ma il bar diventa, appunto, una dipendenza: non si entra là se non bevi e se non fumi. E soprattutto, J.R. si ritrova a pensare a questo luogo come punto di riferimento: non gli può succedere niente senza che lui non si veda nella sua testa mentre va al bar a raccontare ai suoi amici cosa è successo e cosa succederà. Va bene l’amicizia, ma svegliati, ragazzo mio.

Un’altra dipendenza è suo padre. Non capisco la fissazione di J.R nel cercare continuamente suo padre: pazienza da piccolo, quando ancora non capisci cosa ha fatto (ha minacciato di morte sua madre un paio di volte e non ha voluto saperne di spillare un soldo, lasciando ex moglie e figlio in condizioni piuttosto critiche), ma da grande? Come puoi ancora cercare una persona che ti delude fino alla nausea e che non affronta minimamente le sue responsabilità? Sì, magari la cerchi… ma per metterla sotto con la macchina! Stessa cosa con il suo primo amore: è una che tiene i piedi in due scarpe, e non lo nega neppure, ma si giustifica dicendo che non è ancora matura, che il suo passato l’ha portata a quel punto ecc…. fatti curare! E pensare che gente così esiste davvero. Anche in Italia.

Incomprensibili, poi, per me che l’ho letto in inglese, le parlate di molti amici del bar: gergo? Balbettio? Onomatopee? Biascicamenti da ubriachi? Me lo sto ancora chiedendo.

Molto dolce e protettivo invece il rapporto che J.R ha con sua madre e molto istruttivi i suoi alti e bassi con l’università e col lavoro: aspetti di vita in cui ci si può anche identificare.

Ma la parte che mi è piaciuta di più, è l’incontro con Bill e Bud, due tipi strani che “gestiscono” una libreria stando sempre rinchiusi in uno sgabuzzino perché devono leggere. Quando capiscono da che parte va zoppo il protagonista e che nessuno lo ha mai guidato nella scelta dei libri, fanno a gara per regalarglieli (prendendoli dalla libreria in cui lavorano, e che non è la loro, ma togliendo le copertine, perché quelle vanno restituite alle case editrici per il rimborso degli invenduti). Ma perché io non incontro mai gente così? Qui in Italia già è difficile trovare gente che legge molto; se poi la trovi, di solito sono sboroni che ti guardano dall’alto in basso perché sono “specialisti” della letteratura (e se ci sono le eccezioni, è perché confermano la regola).

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