E’ il primo romanzo che leggo di questo autore, diventato famoso in Giappone con libri per bambini e che poi ha spaziato dall’horror al mainstream.

Mio è diventata proprietaria di un negozio di bambole dopo averlo ereditato dal nonno, che ha mollato tutto e se ne è andato in Nuova Zelanda. Ad aiutarla ci sono due collaboratori, Tominaga, che va e viene agli orari che vuole ma che espertissimo di bambole, e Shimura, di cui Mio non è riuscita a scoprire nulla, se non che è un esperto di burattini tradizionali giapponesi (bunraku).
I due collaboratori, chiamati con rispetto “artigiani”, sono un aiuto indispensabile. Sono loro che capiscono come e quando riparare le bambole che arrivano in negozio.
Spesso, per ripararle nel modo giusto, è necessario capire chi sono le persone che le hanno portate là: la riparazione diventa quasi un’operazione psicologica, come la bambola che ha l’aspetto della proprietaria, e che deve essere rifatta tenendo conto del passare del tempo sul viso della donna.
Ma è necessario capire anche quando l’intervento deve fermarsi: come su un orsetto che il bambino smembra ogni notte, lasciandone intatti solo il dorso e la testa.
Le bambole non sono più solo degli oggetti da dare ai bambini: diventano simboli di una personalità, di un desiderio, entità a cui ci si può affezionare come a delle persone reali, ma anche possibili portatrici di morte.
Il libro è breve ma ci presenta una variegata carrellata di bambole giapponesi e straniere: dalle love doll, ai burattini della Cecoslovacchia, dalle bambole che sembrano esseri umani, a quelle che camminano finché hanno una tazza di tè in mano e che si fermano quando gliela togli.
E’ tutto un mondo!