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Nudi e crudi, Alan Bennett @adelphiedizioni

Novantacinque pagine, solo 95 pagine, ma piene di ironia e ben scritte.

I coniugi Ransone rientrano da una serata all’opera e ritrovano la casa vuota; ma proprio vuota-vuota. Non è rimasta neanche la moquette, neanche lo sformato in forno. Chi sarà stato?

Il giallo si scopre solo alla fine, ma nel frattempo entriamo nell’intimità della coppia, scopriamo la povertà emotiva che ha caratterizzato i loro trent’anni di matrimonio, le loro abitudini incancrenite, i loro riti ormai inutili, i loro sotterfugi e le loro piccole meschinità.

Il signor Ransome è un avvocato, pignolo, che riprende la moglie ad ogni minima défaillance, anche verbale. Lei è una sciocchina, che non riesce a finire un libro capendone i contenuti, abituata a contare sul marito anche per fare la spesa. Eppure, tra i due, sarà lei a uscirne. Viva.

Viva due volte, non solo perché il marito morirà, ma perché la signora Ransome riuscirà, pian piano, proprio grazie al furto di trent’anni di oggetti, a cambiare. Si accorgerà di un bar che aveva sotto casa e in cui non era mai entrata; si comprerà dei mobili pacchiani da un indiano; inizierà a imparare un lessico emotivo tramite delle trasmissioni trash che non aveva mai visto.

E’ un romanzo sulla mancanza di comunicazione tra due persone che si conoscono da decenni, ma anche sulla mancanza di comprensione di se stessi (finché non subentra uno shock).

Molto carino.

Io non ho humor inglese, non mi sono messa a ridere mentre lo leggevo, ma so di gente che lo ha fatto. Per gli altri: leggetelo perché racconta con molta eleganza sia gli aspetti allegri che gli aspetti tristi di una convivenza.

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La casa della gioia, Edith Wharton @CasaLettori

Lasciatemi un attimo, che mi riprenda dalla drammatica fine di questo romanzo…

Ecco, adesso ce la faccio.

Lily Bart è una bellissima donna della New York dei primi anni del Novecento. Viene da una famiglia caduta in rovina, è orfana, senza mezzi, ma è abituata al lusso e dotata di modi squisiti, e indispensabili, per l’alta società del tempo. Per queste ragioni, le signore se la contendono come fosse un trofeo da mostrare alle numerose feste della Saison.

Ma la vita che conduce, costringe Lily a spendere più di quello che la sua magra rendita e l’aiuto di una vecchia zia le permettono. L’unica soluzione davvero definitiva sarebbe sposare un ricco. E le occasioni non le mancano, data la sua bellezza e la sua grazia.

Eppure… eppure finisce sempre col mettersi nei guai. Parlerei quasi di autosabotaggio.

Perché Lily, in fondo, pur anelando ad appartenere a quel mondo pieno di luci, ne sente anche la vacuità.

Non è un personaggio facile, Lily. La sua smania di lusso me la fa sentire estranea, all’inizio: la nostra mentalità moderna ce la rende incomprensibile, soprattutto quando capiamo che si innamora del giovane e intelligente avvocato Selden, ma che non accetta di sposarlo perché lui non può garantirle il lusso che lei vorrebbe.

Pian piano Lily scende nella scala sociale, di gradino in gradino, fino a una delle infamie più dissacratorie: la necessità di lavorare per vivere (sob!!).

Lily Bart è un essere combattuto, che si comporta esternamente in un modo ma che, internamente, critica ciò che fa e le ragioni per cui è costretta a farlo. Le astuzie a cui si riduce per accalappiarsi i ricconi sono rese possibili dalla sua intelligenza e dalla sua capacità di indagare i fini ultimi delle persone; eppure tutto ciò non basta, e Lily finirà male. Molto male. Quando sembra che ci sia un filo di luce, un’ombra di redenzione… niente, finisce male.

Il finale tragico è inevitabile per due ragioni:

  1. l’orgoglio.
  2. L’educazione.

Sono questi i due diavoli che impediscono a Lily e Selden di capirsi; e sebbene le regole di quella società siano molto diverse dalla nostra, i moventi del comportamento individuale sono sempre gli stessi. Si cercano i soldi, per ottenere altro. Ma alla fine i soldi diventano lo scopo, e lo scambio tra obiettivo e mezzi diventa fatale.

Edith Wharton doveva fare la psicologa: certe sfumature emotive solo una psicologa (donna) poteva illuminarle così.

Solamente un neo nel libro: questa edizione è piena di refusi.

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Il senso di una fine, Julian Barnes @CasaLettori

Perché nessuno mi ha mai parlato di Julian Barnes?

Questo scrittore è bravissimo!

“Il senso di una fine” unisce il racconto di una bella storia a tutta una serie di piccole e grandi riflessioni su una marea di argomenti: il rapporto tra gioventù e vecchiaia, la memoria, la storia singolare e la Grande Storia, il tempo che può tornare indietro quando si aggancia ai ricordi, l’inconoscibilità del passato e delle persone…

La prima parte del libro racconta la gioventù di Tony Webster e della sua amicizia con Adrian, ragazzo intelligentissimo e, sotto certi aspetti, misterioso, con un senso della vita tutto suo, improntato alla filosofia e alla storia.

Eppure… eppure Adrian, che nel frattempo si era fidanzato insieme a Veronica, l’ex fidanzata di Tony, si suicida.

Fioccano le teorie sulle ragioni del gesto. Secondo alcuni, era troppo intelligente per vivere; secondo altri, ha portato all’estremo limite la sua teoria filosofica sulla vita.

La seconda parte del libro inizia con una lettera che comunica a Tony di esser stato nominato erede di 500 Sterline e di un documento. E da chi arriva questa eredità?

Il finale è spiazzante (anche se devo dire che qualche sospetto sulla madre di Veronica mi era venuto).

Al di là dell’antipatia che mi ha ispirato Veronica, la giovane fidanzata del protagonista (va bene fare la misteriosa, ma ad un certo punto bisogna anche spiegarsi!), i personaggi sono intriganti e hanno così tante sfaccettature che non puoi non immedesimarsi in una di queste.

E ora… alla ricerca di altri libri di Julian Barnes!

Più impari, meno temi. “Imparare” non in termini di studio accademico, ma di comprensione effettiva della vita.

Dobbiamo conoscere la storia di chi scrive la storia, se vogliamo comprendere la versione degli eventi che ci viene proposta.

 

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Francesco Maino a LeggerMente, S. Stino di Livenza (VE)

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Si è svolto ieri LeggerMente, il primo (piccolo) festival della letteratura di S. Stino di Livenza. Come ultimo incontro, dopo tre sessioni di letture alternate da brevi spezzoni musicali, c’è stata una chiacchierata con Francesco Maino, Premio Calvino 2013 per Cartongesso.

Ops, scusate, non dovevo nominare questo titolo… l’autore ha ammesso pubblicamente che ora vorrebbe scollarselo un po’ di dosso! L’ha scritto per buttar fuori quello che sentiva e che vedeva mentre viveva e lavorava come avvocato in questo nostro Nordest, ed ora si sta dedicando ad altro. Però alla fine, parlando di questo titolo Maino ha toccato un sacco di altri argomenti, dall’outlet di Noventa di Piave (VE) e ai panini con la coppa, al ruolo dello scrittore, dalla disposizione dei libri a casa dei suoi (come li capisco i loro problemi!), all’asteroide invisibile che sembra averci colpito stravolgendo il senso dell’umano nel mondo contemporaneo. Insomma, più che di Cartongesso, abbiamo parlato dell’Italia contemporanea (non solo del Nordest).

Tra le domande che gli sono state poste, devo parafrasarne una, perché alla fine Maino ha risposto solo indirettamente: gli è stato chiesto se dopo tutto quello che ha deplorato nel libro, è possibile una espiazione. L’autore ha citato Pasolini e il rischio dell’omologazione, ma alla fine la risposta nuda e cruda non è arrivata.

Giustamente. Come aveva detto poco prima, la letteratura non deve necessariamente dare delle risposte; ma non deve neanche limitarsi a dire: la letteratura deve porre domande!

Impressione generale di Maino: atteggiamento modesto e a tratti umorista (attenzione, ho detto umorista, non ironico, e per chi non capisce la differenza in questo contesto, suggerisco la Conferenza di Lugano di Guareschi); un po’ nervoso, insicuro, tratto tipico di chi ancora non si riconosce a pieno titolo nel ruolo che gli hanno attribuito. Eppure, da tanti riferimenti che ha nominato durante la sua chiacchierata (Zanzotto, Prevert, Neruda, Pasolini…) posso azzardare che l’uomo Maino era uno scrittore ben prima di essere acclamato come tale dal Calvino.

Perché legge. Perché legge certe cose. Perché le legge in un certo modo.

Perché osserva. Perché si indigna. Perché si meraviglia. Perché, a tratti, si dispera.

Perché vive in una dimensione autistica dove 2+2 non fa 4.

Perché la sua scrittura è arrivata solo dopo tutti questi perché, come una conseguenza naturale, come un’inondazione dopo anni continui di piogge e pioggerelline e acquazzoni.

Dai, adesso chiedetemi: tu che scrivi di Maino perché sei andata a vederlo a un incontro di un’ora e mezza in piazza, cosa ne pensi di Cartongesso?

Bè, lo confesso: non l’ho letto.

E (credo) non lo leggerò.

Dire che non l’ho letto è impreciso: diciamo che non l’ho letto dall’inizio alla fine come si fa normalmente con i libri. In realtà l’ho preso in mano innumerevoli volte da quando è stato pubblicato, ogni volta che entro in una libreria e lo vedo sullo scaffale, se non è incellophanato (che brutto vizio, il cellophane!), lo afferro e ne leggo una pagina.

Poi lo rimetto giù.

E poi torno a casa e cerco i commenti e le recensioni in internet, tutti entusiasti. E ne riconosco la veridicità.

Apprezzo (e, sì, invidio!) la professionalità di uno scrittore che sparge riferimenti letterati nella sua opera, la capacità di creare una scrittura nuova, di estrapolare fatti ed eventi dalla realtà sublimandoli sulla carta, il coraggio di denunciare atteggiamenti in cui a volte anche lui indulge, l’amore per la poesia che infila qua e là tra le sue pagine.

Ma allora perché non leggo Cartongesso?

Perché ci vivo dentro, al mondo di Cartongesso. E non me ne frega niente di eventuali accuse di vanità se dico che Cartongesso già vive dentro di me.

Prendo in mano il libro e leggo i miei pensieri, solo messi giù in una forma e in una lingua che non è la mia. Ma i contenuti sono quelli. Ed è difficile che una tale forma di immedesimazione si possa produrre solo dopo la lettura di poche righe, eppure mi succede; ed è per questo che rimetto giù il libro.

Sono i miei stessi pensieri sul mondo in cui vivo che mi danno fastidio! Vorrei toglierli dal cervello e vivere tranquilla, iniziare a bere lo Spritz e assaggiare un Mojito, guardare Grandi Fratelli, Meteo e ricette in TV senza incazzarmi per lo stato dell’informazione e della politica in Italia.

Ma non ce la faccio, è più forte di me.

PS: sto mentendo. Non lo so se un giorno cambierò idea e leggerò Cartongesso. Al momento mi avvalgo del mio diritto di Non Leggere (uno dei diritti del decalogo appeso al Municipio di S. Stino ieri).

Così come mi avvalgo del mio diritto di non bere il Mojito.

In futuro, non lo so.

 

 

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Italia, oggi e duemila anni fa

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Cicerone, voce di Roma – Taylor Caldwell

Ma da quante migliaia di anni noi italiani ci lamentiamo dei nostri governanti?

Cicerone, una sessantina d’anni prima della nascita di Cristo, era uno di quelli che deplorava la situazione in cui era caduta Roma e che nominava di continuo gli antichi romani, i rappresentanti della Legge, uomini valorosi e saggi. E ce l’aveva sia con i politici, che al suo tempo badavano solo ai privilegi e agli agi, che con il popolino, che si accontentava di mangiare e divertirsi a spese dello stato, limitandosi ad acclamare ogni tanto il potente di turno.

Ma la parte del libro che si potrebbe pari pari riportare in un articolo di giornale ai giorni nostri, magari cambiando solo i nomi delle classi sociali, è quella in cui Silla, il militare dittatore, ricorda a Cicerone che è inutile declamare le glorie passate, perché ormai Roma è caduta, è morta.

Cicerone, avvocato, è stato invitato a cena da Silla, che vuole convincerlo ad abbandonare la difesa di Catone Servio, un ex centurione che ha scritto un libro che attacca la corruzione di Roma. E Cicerone ricomincia la sua tiritera sull’antica Roma e sugli antichi romani, bla bla bla.

E allora Silla gli fa un discorso: considera i senatori, i Censori, i tribuni del popolo, la classe media, gli avocati, i medici, i banchieri, i mercanti, gli investitori, gli avvocati… considerali tutti, uno per uno. Ce n’è uno, uno solo che si alzerebbe davanti a Silla per fermarlo o che rinuncerebbe a uno dei suoi privilegi per aiutare Roma a riacquistare gli antichi splendori??

Il discorso occupa quattro pagine, ho riassunto all’osso, ma il senso è questo. Perché ricordiamoci quello che Silla dice alla fine:

Tu mi hai giudicato malvagio, l’immagine della dittatura. Ma io sono quello che il popolo merita. Domani morirò come tutti muoiono. Ma ti dico che dopo verranno uomini peggiori di me! C’è una legge più inesorabile di ogni legge creata dall’uomo ed è la legge della morte per le nazioni corrotte, e i beniamini di questa legge già si agitano nel grembo della storia. Ce ne sono molti che sono vivi oggi, giovani e viziosi e senza fede. Essi riusciranno. Così passa Roma.

Così passerà l’Italia.

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