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In chador e infradito (Barbara Otto-Treutmann)

Devo sospendere la lettura perché mi innervosisco troppo.

E’ il racconto autobiografico dell’autrice, che ha abitato a Teheran all’inizio del Duemila per molti mesi, dove è andata per seguire il marito ingegnere, che è stato mandato là al seguito di una grande azienda tedesca.

La Treutmann ha scritto il libro con l’intenzione di dare una visione obiettiva della vita nella capitale mediorientale, ma a mio parere questa voglia di essere super-partes e di mostrare la propria apertura mentale è faziosa.

Innanzitutto, lei parla dal punto di vista di una donna occidentale privilegiata che a Teheran non poteva non frequentare che circoli privilegiati. E già questa è un’angolazione molto soggettiva.

Inoltre, lo sguardo incantato che sembra emanare da ogni pagina non riesce a mettere a tacere il mio giudizio critico.

Vi faccio un esempio.

Ad un certo punto, l’autrice va a trovare un’amica. Ci sono altre donne, sono incontri che fanno spesso, a base di dolcetti, tè e musica. Ma le donne, come è normale a Teheran, sono arrivate là tutte intabarrate e coperte, nonostante l’alta temperatura esterna. Appena entrano in casa, iniziano a togliersi i vestiti neri: sotto ci sono stoffe colorate e di buona fattura.

L’autrice ci mette davanti alla metafora delle farfalle che escono dal bozzolo.

Oh, che bella immagine…

Ma come si fa a sorvolare su quanto hanno dovuto soffrire quelle donne per arrivare fin là imbottite di stoffa? Perché taci del sudore che colava fino a pochi minuti prima? Perché non dici che quelle donne non potevano vestirsi più leggere perché le avrebbero incolpate di stuzzicare gli uomini? E’ una scelta di libertà quella di soffrire come una capra sulla griglia?

Nell’appartamento le donne possono chiacchierare, ridere, ballare. Ma come si fa a tacere sul fatto che fuori non lo potrebbero fare?

È ridicolo voler apparire come una persona di mente aperta davanti a certe mancanze di libertà. Inutile giustificare tutto sotto l’egida della “cultura che non comprendiamo”, quando questa cultura non permette l’espressione di idee differenti.

Certo, alcune donne dell’episodio dicono di sentirsi a proprio agio con il chador o il velo.

Ma… le altre?

Se una vuol tenere il velo o il chador, deve essere libera di farlo. Ma altrettanto libera deve essere colei che non lo vuole fare.

Sto dicendo ovvietà. Era solo per giustificarmi perché non continuo la lettura del libro. Mi innervosisco troppo.

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Greenlights – L’arte di correre in discesa (Matthew McConaughey)

Matthew McConaughey mi è piaciuto molto su Interstellar, ma ho apprezzato anche il suo primo film, Il tempo di Uccidere (in cui fa un bellissimo monologo verso la fine), e Mud e The Gentlemen.

Questa autobiografia l’ha scritta a cinquant’anni, quando ha ripreso in mano i diari che scrive da trentacinque anni a questa parte.

Ne viene fuori il ritratto di un ragazzone texano che proviene da una famiglia di operai turbolenti: la madre e il padre hanno divorziato due volte e si sono risposati tre volte (loro due!), e per loro era normale rincorrersi attorno alla tavola e insultarsi, litigare di brutto e poi cominciare a far sesso in cucina: si volevano bene così, anche se la madre ha il dito medio storto, dopo che il marito gliel’ha rotto in più occasioni perché lei glielo mostrava sempre.

Matthew McConaughey era bravo a scuola, ma era anche portato per l’autoriflessione, prova ne sono questi diari pieni di pensieri e frasi ad effetto. Sebbene gli piacesse scrivere poesie, non disdegnava una scazzottata – magari col padre, come rito di passaggio. Gli piacevano le ragazze e lui piaceva a loro (ha vinto il titolo di ragazzo più bello dell’anno, una volta: solo in America possono fare concorsi del genere tra gli studenti).

Religioso ma amante delle armi e dei pick-up, da giovane sognava di fare l’avvocato, poi si è accorto che non faceva per lui e ha iniziato a studiare cinema, anche se il successo non gli è arrivato grazie agli studi: è stato abbastanza intelligente da capire che la recitazione a intuito era quella che meglio gli si addiceva.

E’ sempre stato un tipo sicuro di sé e molto ottimista, qualità che lo hanno aiutato a Hollywood, insieme al bell’aspetto, che gli ha fornito una serie di ruoli in commedie che gli hanno offerto subito la notorietà e i soldi.

Ma a differenza di molti attori americani che sono andati fuori di testa per la rapidità con cui sono saliti sull’Olimpo delle scene, McConaughey è stato capace di concedersi i suoi momenti di riflessione.

Ha preso un camper e si è girato 48 stati degli USA (su 50), è andato sul Rio delle Amazzoni, in Africa, in un convento sperduto nel deserto… Da solo.

Ripeto: da solo. Non si è affidato a un’agenzia, non si è portato dietro amici o ragazze. No: da solo. Per riflettere. Questo mi piace.

Non dico che le riflessioni riportate nel libro siano molto creative, né che ti aprano gli occhi su delle verità a cui non eri ancora arrivato: a volte spiattella con parole leggermente diverse delle constatazioni che facciamo tutti. La scrittura è molto basica, si vede che non ha un background letterario (anche se a lui piace raccontare storie e non gli dispiacerebbe diventare scrittore). Un aiutino da un autore affermato avrebbe dato qualche punto in più a questo libro così personale.

Mi ha lasciato un po’ a bocca asciutta in un paio di passaggi, quando fa intendere che ha vissuto dei momenti difficili: parla di “questione familiare” e “questione delicata” ma non scende nel dettaglio, scegliendo di mantenere la sua privacy, di non mettersi tutto in piazza. Può essere comprensibile in un’ottica umana, ma il libro ne risente dal punto di vista letterario.

Vengo dalla lettura di “Will” di Will Smith, e “Open” di Agassi, e “Becoming” di Michelle Obama: autobiografie molto più approfondite di questa di McConaughey che si limita a raccontare episodi e a trarne conclusioni abbastanza scontate.

Si apprezza la veste grafica, perché è pieno di fotografie e font diversi e scrittura manuale, ma l’aspetto visivo non compensa le mancanze letterarie.

Eh sì, una biografia deve essere anche un’opera letteraria, deve darmi qualcosa dal punto di vista umano.

Matthew, mi dispiace, sei uno sgnoccolone ma lascia stare la letteratura (e poi, mi illudi facendoti passare per alternativo e fuori dagli schemi, e alla fine ti sposi con la classica fotomodella brasiliana…).

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E’ l’11/09: ma l’esercito statunitense sa farsi odiare

Senza nulla togliere alle colpe di chi ha attaccato le Torri gemelle… ma per pura coincidenza ho finito oggi di leggere “Il racconto del disertore” di Joshua Key, e il ruolo da vittima dell’11/09, sul quale gli americani puntano tanto, va molto ridimensionato (anche se poi a rimetterci sono sempre i civili).

L’invasione dell’Iraq ha sfruttato l’ondata emotiva dell’11/09 per motivi strategici e di potere che hanno poco a che fare con le Torri Gemelle e le loro vittime, questo lo sanno tutti, ma leggere il racconto di Key ce lo ricorda con molta vividezza.

Innanzitutto, guardiamo come lo hanno reclutato.

Joshua Key viveva in Oklahoma in una roulotte insieme alla famiglia. La madre passava da un compagno all’altro, da una scarica di botte a una settimana di depressione che non la faceva alzare dal letto. Lui, fin da piccolo, impara a maneggiare armi e fucili anche di grosso calibro: passa il tempo libero a scorrazzare per le strade e a distruggere con la mazza da baseball le cassette della posta dei vicini.

In paese regna sovrano il razzismo: neri, asiatici, arabi sono diversi, inferiori, pericolosi.

Libri e giornali in casa non se ne vedono, l’alcool è un compagno quotidiano e quando non c’è da mangiare, i bambini devono andare dal nonno per rimediare un boccone.

In questa situazione, i reclutatori dell’esercito si presentano alla porta e offrono uno stipendio fisso, l’assistenza sanitaria (oh, l’assistenza sanitaria!!) e 20.000$ di copertura spese universitarie.

Attenzione: i reclutatori non si presentano alle porte dei medici, degli ingegneri, dei politici. Vanno dai morti di fame, tanto che il loro lavoro negli States viene denominato “Caccia al povero“.

Ma doppia attenzione: quando Joshua Key si trova sul lastrico con una moglie, due figli piccoli e un terzo in arrivo, e decide di arruolarsi per tirar su qualche soldo, perché non ha neanche i mezzi per farsi togliere i calcoli renali, va dai marines.

E col cavolo che i marines lo prendono: famiglia troppo numerosa e, soprattutto, troppi debiti col fisco e con la carta di credito. Non vogliono mica le cacchette, i marines.

Al ragazzo non resta che provare con l’esercito. E là l’accoglienza è completamente diversa. Il reclutatore lo tratta gentilmente, gli offre sempre dolci e caffé (che per Joshua all’epoca erano quasi dei lussi), lo invita ad andare a fare jogging insieme. Un amico, quasi.

Quasi.

Perché Joshua non sta cercando di andare in guerra. Il suo scopo è far sopravvivere la sua famiglia: chiede più e più volte se sarà obbligato ad uscire dal suo paese, se sarà obbligato a partecipare ad azioni militari, e ogni volta lo rassicurano dicendogli che dovrà solo far saltare e costruire ponti nel suo paese.

Per legge, con una famiglia numerosa come la sua, lui non potrebbe arruolarsi, ma il reclutatore gli dice di non far menzione del terzo figlio in arrivo e di non far girare la moglie nei pressi della base militare.

Quando poi gli fanno firmare l’ultima documento, non gli fanno neanche leggere tutto il contratto, gli fanno saltare le clausole scritte in piccolo, e lui si fida. Non è abituato a leggere, e poi là sono tutti gentili, perché dovrebbero cercare di fregare uno del loro paese?

Durante l’addestramento gli insegnano ad odiare i musulmani. Non si parla mai di civili: gli iracheni sono sempre pericolosi, terroristi, assassini. I civili non vengono neanche nominati, come se non ce ne fossero.

Arrivato in Iraq, fin da subito è chiaro che tutte le promesse fattegli dal reclutatore erano aria fritta.

Joshua deve partecipare ai raid nelle case dei civili: lo scopo è trovare armi (magari di distruzione di massa) e arrestare tutti i maschi sopra il metro e cinquanta di altezza, indipendentemente dall’età.

In più di 200 raid, in sei mesi e mezzo di attività in Iraq, Joshua non troverà mai nessuna arma. Se ce ne sono, sporadiche, sono quelle che quasi ogni americano medio tiene in casa per difesa personale. Nelle case ci sono di solito donne e bambini, e gli uomini/ragazzi che vengono portati via (non si sa dove) non mostrano nessun tipo di aggressività. Terroristi: zero.

Non è che la sua squadra non venga mai attaccata: si trovano spesso sotto una pioggia di granate, ma non sono mai riusciti a vedere un iracheno armato.

La frustrazione è alta, dormono in media due ore per notte, il rancio fa schifo, cadono bombe, la temperatura si attesta sui 40-45°C, non ci sono né acqua corrente né servizi igienici (la merda deve venir bruciata in un calderone ogni due giorni): stiamo parlando di ragazzi che non sono abituati a controllare i propri impulsi, che negli USA vivono in case o roulotte fatiscenti.

Non ci vuole tanto prima che inizino a sfogarsi sui civili.

Distruggono le case in cui entrano: fanno uscire donne e bambini e iniziano a spaccare mobili, pavimenti, pareti, frigoriferi, tutto. Armi non ne trovano, ma appena un civile apre bocca, lo prendono a calci e pugni. I soldati arraffano tutto quello che vogliono: soldi, gioielli, tappeti.

Anche Joshua si comporta così nei primi tempi: gli iracheni non gli appaiono come esseri umani, non hanno diritto di proprietà. E poi l’esercito americano gode di impunità, possono fare quello che vogliono, nessuno li ferma.

Poi qualcosa scatta.

Vede dei soldati giocare a palla con le teste di alcuni civili. Vede scoppiare la faccia di una bambina di sette anni che era andata a chiedergli da mangiare. Vede i commilitoni picchiare gente innocente senza motivo. E nessuno dice niente. Lui stesso non può dire niente: chi ci prova si vede lo stipendio dimezzato, come minimo.

Joshua, prima di partire per l’Iraq, credeva nel suo paese e nel suo presidente, come ogni americano medio. Guai a parlargli male degli Stati Uniti, che per lui erano incaricati di mantenere la pace nel mondo e di portare la democrazia ai paesi che non la conoscevano. Sembrano parole ridicole per noi, ma per loro siamo quasi a livelli di fede.

Il suo sogno era vivere per sempre nel suo paesino e fare il saldatore per mantenere la famiglia: al momento presente si trova in esilio in Canada, dove spera che gli concedano l’asilo politico.

I Joshua sono tanti. L’esercito americano è grande, ed è sparso per il mondo. Anche in Italia. Sono soldati addestrati per uccidere che sono convinti della superiorità morale del loro paese, bevono questa convinzione col latte della colazione fin da piccoli.

Key si è accorto che il sistema era tutto sbagliato, ma quanti come lui riusciranno ad abbandonare una vita di credenze così radicate?

Mi chiedo quale potrebbe essere un buon antidoto a questo offuscamento di massa. Il fatto che non avessero libri in casa e che la lettura non rientrasse nel loro schema mentale mi sembra un sintomo del problema. Ma i libri si lasciano scrivere sia a favore che contro determinate campagne.

No, l’antidoto non sono i libri in sé, ma l’autoconsapevolezza. Il ragionamento. L’educazione.

Ci vuole tempo. Qualche generazione, forse.

Di certo, qualcosa bisogna fare, altrimenti, come specie umana, non ci evolveremo mai.

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Becoming (@MichelleObama)

Donna, nera, povera. Almeno all’inizio della sua vita. Adesso povera non lo è più, ma questo è successo per due motivi: si è data da fare con lo studio e il lavoro, ed è stata appoggiata da familiari, amici ed istituzioni.

Secondo me, comunque, se non si fosse distinta per la sua buona volontà a scuola, non avrebbe potuto usufruire di aiuti speciali alle categorie disagiate, dunque l’istruzione, in questa storia di successo, fa da padrona (come in molte altre).

E’ partita da una scuola pubblica, in un sobborgo povero di Chicago, ma è sempre stata spronata a fare di più, e questa ricerca del “meglio” le è rimasta attaccata addosso, tanto che è stato difficile liberarsi della voglia di primeggiare ed essere accettata da chiunque (impossibile).

E’ prima arrivata alla Law School di Harvard ed è poi approdata in un ufficio di avvocati di alto livello con uno stipendio da favola e una vista mozzafiato, ma ci ha messo un po’ a capire che quel lavoro non faceva per lei.

Si occupava di brevetti e antitrust, mentre voleva lasciare il segno, aiutare la gente, parlare con le persone; così ha trovato il coraggio di mollare lavoro (e stipendio!) e di dedicarsi a delle aziende no profit.

Quando ha incontrato Obama, la sua prima impressione non è stata eccezionale; lui fumava e aveva un carattere molto diverso dal suo: lei sempre in prima linea ai party e agli aperitivi, lui più schivo, un ragazzo che non disdegnava di passare un sabato sera a leggere biografie e filosofia; lei sempre preoccupata di quello che pensavano gli altri, lui più ottimista.

Quando lui ha deciso di buttarsi in politica, lei era contraria: non le piaceva l’ambiente, e sapeva che questa attività avrebbe sottratto al marito molto tempo da dedicare alla famiglia. Eppure, una volta nel vortice, anche lei si è lasciata risucchiare, non poteva restare ai margini della vita politica se il marito era un senatore, prima, e un presidente, poi.

Il libro è molto interessante nella parte in cui parla della loro vita alla Casa Bianca e di come certe regole di sicurezza e di galateo abbiano sconvolto la vita della famiglia.

Le figlie non potevano andare al compleanno di un compagno di scuola prima che gli agenti dei servizi segreti avessero controllato la casa del festeggiato e la storia personale dei partecipanti alla festa (imbarazzante).

Michelle non poteva sedersi sul balcone a bere il caffè guardando il giardino se prima non avvisava le guardie, che dovevano sgomberare le strade su cui si affacciava la terrazza (frustrante).

Ogni loro uscita comportava il blocco del traffico di una parte della città, e per otto anni, né lei né suo marito hanno avuto bisogno di ricordarsi dove avevano messo le chiavi dell’auto e se avevano chiuso la porta di casa.

Il libro racconta sia l’aspetto pubblico che quello più privato e femminile: dalla paura di essere giudicata per ogni paio di scarpe sbagliato, alla necessità di combinare i bisogni pubblici con quelli privati.

Ad esempio, Michelle si è trovata ad affrontare la preoccupazione del peso della figlia più piccola, mentre il marito era senatore: sembra che la curva dell’indice di massa corporea avesse iniziato a salire, colpa probabilmente della scarsità di tempo da dedicare alla cucina e alla sovrabbondanza di fast-food e bibite gasate che afferrava mentre correva da un posto all’altro.

E da qui, la sua campagna contro l’obesità infantile e l’industria alimentare, che è stata una costante negli otto anni da first lady.

Per quanto possa essere celebrativa un’autobiografia del genere (molto è stato detto, ma cosa è stato taciuto?), a me è piaciuta.

Le lezioni che se ne traggono sono due: per “farcela”, sono due i fattori: lo studio e le relazioni con le persone.

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Un battito d’ali (Sveva Casati Modignani)

Partiamo dalla copertina dell’edizione Mondadori: la farfalla è quella che sbatte le ali e che richiama il titolo. Ed è quella che ha dato il là alla scrittrice per raccontarci la sua storia.

Era in giardino, stava pulendo le erbacce e all’improvviso ha sentito il profumo di suo padre, morto da trent’anni. Poi una farfalla si è appoggiata sul suo braccio.

Ecco come è nato il desiderio di raccontare al padre che non c’è più la propria vita lavorativa prima di diventare scrittrice; non si parla della sua vita privata qui: viene nominato un fidanzato, ma non si dice chi è, come lo ha conosciuto, se è quello che ha sposato…

Bice Cairati non ha finito l’università; non c’erano soldi, e suo fratello aveva la precedenza, perché una donna non sa cosa farsene di una laurea, visto che dopo il matrimonio l’attacca al muro. Così, soprattutto per insistenza di sua madre, ha iniziato a lavorare in un ufficio.

Ingenua al limite della stupidità, ci racconta un paio di aneddoti simpatici.

Come quando dice a un cliente al telefono che il suo capo è nel pensatoio (è una stanza dove il capo va a dormire), o quando scrive la sua prima lettera commerciale (“non ci conosciamo, mi chiamo Bice Cairati, sono la nuova segretaria del tal dei tali…”).

O quando, peggio, parla, a una cena col proprietario di un’azienda cliente, dell”argent de poche” (= bustarella) che consegnano regolarmente al suo direttore degli acquisti.

Ma questo lavoro non le piace. L’insoddisfazione cronica la porta a dare le dimissioni e ad andare a lavorare come segretaria in una famosa galleria d’arte di Milano, finché anche questo ambiente le rivela la pochezza di certi personaggi ricchi e famosi e la fa scappare.

Inizia a lavorare per un giornale ma è un ambiente iper-maschilista e la mandano sempre e solo a seguire i personaggi più glamour (attrici, cantanti, soubrettes), così si stanca e va in un altro giornale.

Quando alla fine inizia a scrivere la storia di alcuni componenti della famiglia, ha alle spalle una buona gavetta giornalistica e questo la aiuterà molto.

E’ sempre interessante leggere l’esperienza di persone che si son date da fare. Certo, non aspettatevi da questo libro l’approfondimento psicologico di un Bellow o di un Roth, ma è un’autobiografia che si legge in un pomeriggio, uno sforzetto si può fare.

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Diario 1934-1939 (Anais Nin)

Questo volume del diario è un estratto degli innumerevoli quaderni che la Nin scriveva (e che poi conservava in una cassetta di sicurezza in banca). Sono stati “censurati” dalla famiglia in varie parti, ma anche così sono un documento ben nutrito.

In questi anni, Anais Nin, che è sempre stata succube dei suoi amici, comincia a diventare insofferente. I suoi amici sono scrittori, scultori e artisti in generale, più una serie di persone dal ruolo sociale non meglio definito ma che non possiamo che definire… interessanti.

All’inizio di questo diario, Anais Nin fa la psicoterapeuta a New York, da brava allieva di Otto Rank. E resto interdetta dalla facilità con cui si poteva iniziare una professione del genere all’epoca (lei non aveva titoli ufficiali), in confronto ad oggi.

Questo lavoro tuttavia la sfianca: è troppo sensibile e si fa carico emotivamente di tutti i suoi pazienti. Così torna in Francia a fare la scrittrice.

Continua la sua amicizia con Henry Miller, l’autore de “Il tropico del cancro”, ma Nin lo vede in modo meno favoleggiante. Pur riconoscendone il valore artistico, ne descrive spesso le piccolezze e le meschinerie.

Spesso la Nin è sul lastrico: deve impegnare vestiti e gioielli pur di aiutare i suoi amici e la causa spagnola (siamo negli anni della guerra).

Io non avrei avuto la sua pazienza. Ci sono personaggi che la sfruttano, che danno di matto, che non sono affidabili… lei se ne accorge ma non se la sente di lasciarli soli.

La scrittura del diario è una scrittura senza punti esclamativi, molto riflessiva, piena di descrizioni degli amici e dei conoscenti, pronta a cogliere le minime sfumature dei caratteri.

Dimostra un vero interesse personale nell’essere umano: credo che se non avesse investito le sue energie nella scrittura, avrebbe potuto fare la missionaria.

Più che un documento storico, il diario è il documento personale di una donna sensibilissima.

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Dove troverete un altro padre come il mio – Rossana Campo

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Un libro autobiografico in cui la Campo racconta del travagliato rapporto col padre Renato, alcolizzato, irresponsabile, incapace di tenersi un lavoro, a volte violento.

Nonostante tutti i suoi difetti, la scrittrice si accorge di quanti lati del suo carattere derivino da quest’uomo insofferente alle regole e all’uniformità, orgoglioso, vivace e festaiolo; e si accorge di quanto sia difficile riconoscere che il padre avesse due facce ben distinte: da un lato l’alcolista che non riesce a smettere e che picchia la madre, dall’altro il padre che gioca con lei, che prende le sue parti contro chi può farle del male (non importa se sul piano fisico o morale), che è innamorato di sua moglie:

La persona che aveva preso a perseguitarci era la stessa che mi aveva fatto ridere, che mi diceva di non preoccuparmi, di fottermene degli stronzi.

Molte righe di questo libro si sono meritate una sottolineatura da parte mia:

(…) mi stanno sul culo gli obblighi sociali, le formalità, i sorrisi di circostanza, tutto quello che è fasullo, artificiale, leccato, mi stanno sul culo i normali, i precisini, i cacacazzi. Li patisco. E quello che ho dentro, lo tiro fuori solo quando scrivo.

La Campo si pone un dubbio: si chiede se avrebbe scritto, se non avesse avuto un padre così. Forse sì, ma avresti scritto in modo diverso. Non avresti scelto i disgraziati come protagonisti, i matti, i vecchi, gli emarginati. Forse ognuno di questi personaggi è una faccia di te. Ognuno di noi ha una parte di questi disgraziati, dentro di sé, ma se non vivi certe esperienze, le facce restano coperte dall’educazione, dalla voglia di essere come gli altri.

Alla Campo dico Brava. Non per il libro, ma per l’affetto che, dopo tutto quello che le ha fatto, lei porta ancora a suo padre.

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