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Leggo libri, non giornali

A volte mi sento in colpa perché non leggo quotidiani, soprattutto in materia politica, ma se analizzo le mie ragioni, il senso di colpa… passa.

Gli articoli dei giornali si incentrano sulle ultime notizie, sulle ultime esternazioni, battute, tweet. Ne consegue, che per avere una visione di insieme, per individuare un trend, bisognerebbe leggere i quotidiani tutti i giorni, possibilmente più quotidiani di diverse tendenze politiche.

E per me, che ho una memoria di lavoro molto breve, sarebbe anche necessario prendere appunti, altrimenti perderei di vista i punti divergenti e quelli in comune delle varie testate.

E per leggere, intendo “leggere” gli articoli, non limitarsi ai titoli e agli occhielli.

Avete un’idea di quanto tempo prenderebbe questo atteggiamento virtuoso?

Senza parlare del linguaggio giornalistico, che trovo “di casta”, indirizzato ai professionisti della politica e dell’economia, come se i quotidiani non fossero nati per informare la gente, ma solo una ristretta minoranza.

Per questo, ogni tanto sento il bisogno di aggiornarmi sullo scenario politico e compro dei libretti riassuntivi, come è quello in lettura in questi giorni:

“L’avvocato e il banchiere”, Maurizio Stefanini e Sergio Luciano

Insomma, non sono una che si tiene costantemente aggiornata sugli accadimenti politici italiani, ma ogni tanto mi dedico a un approfondimento. Il guaio è che quando lo faccio, mi piacerebbe discuterne con qualcuno, e invece trovo sempre gente che legge (poco o niente) i quotidiani e che perde di vista la “tendenza” o che dimentica quello che quel tale politico ha detto o fatto solo pochi mesi prima (la famosa “memoria corta degli elettori” di cu discutevamo tanto a Scienze Politiche a Padova).

Tacciamo delle posizioni politiche delle donne che frequento, le quali si limitano a frasi del tipo “ho già altro a cui pensare”, “speriamo facciano bene”, “tanto sono tutti uguali”. Voglio dire: gli uomini, per quanto siano poco informati, per quanto rischino di sparare castronerie, almeno discutono, si scaldano, danno importanza al discorso politico. Le donne, invece, quando i maschi si alzano la voce parlando dell’ultimo avvenimento, si ritirano tra di loro a parlare di vestiti, cucina, figli.

Sarà che vivo in provincia, dove ci sono poche donne impegnate, ma questa situazione, in un paese in cui si discute della necessità delle quote rosa, è abbastanza preoccupante, visto il ruolo delle mamme nell’educazione delle future generazioni.

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Numero Primo di Marco Paolini: Aiuto!

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Quando ieri sera sono entrata al Teatro Pascutto di S. Stino di Livenza (VE), i biglietti erano già stati tutti venduti. Il bigliettaio: “Stiamo aspettando se la compagnia libera 3 posti”.

C’erano già altre quattro persone prima di me. Stavo per andarmene quando mi sento dire: “Aspetti, aspetti…”

Così mi sono ritrovata mezz’ora dopo sul palco, a due metri da Paolini, con in mano un quaderno dove scrivere quello che lo spettacolo mi suscitava. “E’ uno studio per me”, ci ha detto Paolini.

Studio? Adoro lo studio!

Purtroppo da quello che ho appuntato sul quaderno, Paolini non ricaverà un gran ché: sono uscita dal teatro ancora meditabonda, chiedendomi se l’autore del testo non fosse stato in trip psichedelico quando l’aveva scritto. Ma mi ero fatta la stessa domanda quando ero andata a vedere “Aspettando Godot”.

Fino all’illuminazione.

Nel caso di Paolini, l’illuminazione mi è venuta da un nome: Echné, la “madre” di Numero Primo.

Echnè: suona come Téchne

Dunque, ecco come interpreto io il significato di questo spettacolo: la tecnologia fa nascere i numeri primi (vedi la solitudine e l’intelligenza dei numeri primi di Giordano), e ce li affida perché li proteggiamo. Da cosa?

Bè, sono fragili, in questo mondo dove i Steve Jobs prendono il posto che una volta spettava ai nostri poeti. Per colpire un Numero Primo basta un gabbiano che conosce il tuo numero di targa, basta una fobia creata ad hoc dai media.

Significativo che Paolini inizi parlando degli occhi del figlio, e che alla fine il bambino di occhi ne abbia solo uno. L’altro gli è stato asportato chirurgicamente. Dunque, ci sono due occhi all’inizio e poi, dopo esser passati attraverso il mondo del Centro Commerciale, ce n’è uno solo, per di più chiuso dal coma.

Ettore non ha protetto il figlio dai pericoli della neve artificiale, dal ghiaccio della tecnologia. Figlio, faccio notare, di una siriana ma con un nome francese

Ci sarebbero tante altre cose da dire, perché niente del monologo era casuale, ogni visione era una metafora strettamente intrecciate alle altre. Ma io vado a teatro una volta ogni due anni: lascio questo lavoro a chi ne sa più di me.

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