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La guardarobiera, @pmcgrathnovels, @lanavediteseoed

Non dovete leggere questo romanzo aspettandovi la stessa morbosità di “Follia”, “Il morbo di Haggard” o di “Grottesco”. E’ qualcosa di diverso, molto più sottile, con meno accadimenti drammatici, meno macabri, (forse) meno passionalità. Eppure è un libro che merita di esser letto.

Joan, capo guardarobiera di teatro, è appena rimasta vedova del marito, famoso e affascinante attore. Siamo nella Londra del 1947, in un inverno freddissimo: è difficile trovare viveri e riuscire a scaldarsi, ci sono, qui e là, episodi di rinascente fascismo.

Joan è confusa: si convince che il marito non è morto, che il suo spirito c’è ancora. Lo sente dentro l’armadio, tra i suoi vestiti, e crede di rivederlo in Frank Stone, giovane attore con cui inizia una relazione.

Il romanzo è tutto un gioco di specchi tra realtà e immaginazione (malata): Joan prima sente la mancanza del marito, poi inizia ad odiarlo perché scopre che era un fascista (lei è ebrea); prima odia il genero, credendolo l’assassino del marito, poi ne abbraccia la causa; Frank Stone prima è il recipiente del defunto, poi è un contenitore vuoto (talmente vuoto che passa dalla madre alla figlia con “maschia” velocità).

Interessante la scelta di affidare la narrazione ad un presunto coro femminile, al corrente dei fatti e a volte materialmente presente, eppure non ben definito.

Ciò che sembra, non è; le rivelazioni non sono mai plateali, ma sfumate, si scivola dalla fantasia alla realtà senza fuochi d’artificio, ed è forse questo l’elemento più realistico del romanzo. Per questo non lo definirei “thriller psicologico”, come dicono tante recensioni giornalistiche. E’ un romanzo prima psicologico, e poi storico.

Notevole la capacità di McGrath di immedesimarsi nelle paturnie degli attori di teatro, nelle sfumature dei loro pensieri. Mentre leggevo mi chiedevo come faceva, e poi l’ho scoperto: è sposato con un’attrice…

Insomma, una lettura consigliata non a chi cerca fuoco e fiamme, passioni e tremori, ma sì a chi vuole immergersi in una mente ai… confini.

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La bestia nel cuore – Cristina Comencini

imageUn romanzo che riflette sui drammi dimenticati e sul valore della cultura e dell’arte, soprattutto in Italia.

Sabina, doppiatrice che ha rinunciato al sogno di fare l’attrice, scopre di essere incinta ma non lo dice al compagno e se ne va negli Stati Uniti a trovare il fratello che è diventato professore in una università americana. Lo fa perché un sogno le ha risvegliato dei ricordi confusi e ha bisogno di chiarire il suo passato prima di dare un futuro a qualcuno che non è ancora nato.

Lungo tutto il libro si alternano riflessioni sui rapporti tra uomini e donne di età molto diverse e sullo stato deprimente della cultura italiana, ancora rinomata all’estero ma ormai svuotata di significato dalla televisione commerciale. A dire la verità questi punti di vista mi stavano buttando giù di morale: sono dovuta arrivare alla fine per leggere questa frase e tirarmi su. A pronunciarla è un regista che ha una base culturale buona ma che per vivere si è ridotto a dirigere schifezze. Alla fine del libro, anche grazie alla nascita del bambino di Sabina, si sveglia e decidere di tornare alle origini, di fare quello che davvero gli piace, anche se non piacerà a nessuno, anche se nessuno lo capirà:

C’è solo una cosa da fare, oggi come sempre, gli artisti sono gli unici ad averla capita: Non tacere mai, a costo della vita, della reputazione, dello scandalo, del dolore.

Se posso permettermi una critica, la scena del parto e della conversione di un paio di personaggi (il padre, il regista, l’amica lesbica…) è quella che mi lascia un po’ basita: non è vero che la nascita dei figli cambia le persone così. Soprattutto fa un po’ pietà quello che pensa il padre… non ci crede nessuno, dai. E poi tutti contenti, come una fiaba. Mah.

Però merita di essere letto, assolutamente. Tra le tante riflessioni indotte, una, che nasce dalla domanda della protagonista: a cosa è servita a suo padre tutta la sua cultura se poi non è stato capace di resistere agli istinti che gli hanno fatto seviziare i figli?

Insomma, la domanda più generale che nasce è: a cosa serve la cultura?

 

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