Mark Salzman, statunitense, adesso è un violoncellista, ma negli anni Ottanta ha trascorso del tempo in Cina, a Changsha, come insegnante di inglese. Questo memoir nasce da quell’esperienza (ne è nato anche un film).

Lui, ventenne, alto, biondo, occhi azzurri, a quei tempi per i cinesi era un’apparizione, perché non erano molto abituati alla presenza degli stranieri. Gli capitava spesso di venir circondato da decine e decine di persone che, quando scoprivano che parlava cinese, cominciavano a chiedergli quanto si guadagnava negli Stati Uniti e come mai non era ancora sposato.
Ci sono molti episodi divertenti: quando ad esempio, il suo maestro di Wushu gli insegna come deve insegnargli l’inglese, o quando una delle sue allieve, invece di rispondere a una domanda, nasconde la testa tra le braccia per eccessiva timidezza. Ma non mancano le occasioni in cui Salzman si innervosisce: una volta, ad esempio, voleva farsi arrivare da Hong Kong una crema per i piedi che non si trovava a Changsha, ma il pacco era stato bloccato all’ufficio postale, dove chiedevano una tassa che andava molto al di là del valore del prodotto.
Quale era la vera ragione di questo ostruzionismo? Era una questione di orgoglio nazionale, perché importare creme dall’estero significava che certi prodotti non si trovavano in Cina, e questo non era lusinghiero.
E che dire dell’episodio del ratto?
L’uccisione di un ratto comportava una ricompensa, ma quando Salzman si presentò nell’ufficio adibito allo scopo, gli rifiutarono i soldi. La ragione era sempre la stessa: non si poteva ammettere davanti a uno straniero che in Cina ci fossero ratti.
Non tutti i cinesi erano cordiali, dunque. Ma la maggioranza sì, e questa maggioranza è così cordiale da lasciar spesso Salzman con la bocca aperta: come quando un’insegnante sua collega lo aspettò una sera in giardino, perché lui era andato a fare una gita nei dintorni e lei non voleva che, tornato all’ostello, non ci fosse nessuno ad attenderlo.
Al di là delle avventure e disavventure di un americano in Cina, quello che mi ha colpito è la serietà con cui l’autore si è dedicato alle arti marziali (principalmente Wushu e Taiji), alzandosi prestissimo al mattino o dedicandogli anche dodici ore al giorno quando non aveva lezione.
E’ stata una lettura godibilissima e interessante.
Sono stata due anni fa a Wuhan e Pechino. L’atteggiamento dei cinesi nei nostri confronti era, come con Salzman, o apertamente ostile o estremamente cordiale. Non c’erano vie di mezzo.
Una cosa mi è rimasta impressa: siamo andati a visitare lo stadio costruito in occasione delle olimpiadi di Pechino. C’erano dei cartelli sparsi lungo i viali, scritti in cinese e in inglese.
Peccato che la traduzione in inglese fosse stata cancellata con dei segni di pennarello, riga per riga.
Inoltre, alloggiavamo in un buon albergo là accanto, e nessun impiegato parlava inglese.
Non sono bei segnali.
A me la Cina piace (mi piace l’Oriente in generale), ma pochi degli sviluppi moderni incontrano i miei gusti.