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Storia di mio figlio (Nadine Gordimer)

Sudafrica negli anni Ottanta.

Sonny è un insegnante di colore; è sposato con Aila. Hanno due figli: Baby, la più grande, che sembra sempre in cerca di divertimento, e Will, taciturno e studioso.

Quando Sonny accompagna gli alunni durante una protesta, passa quasi senza accorgersene dalla parte della resistenza contro il governo dell’Apartheid, anche perché, grazie ai suoi studi letterari, è un buon oratore. Viene licenziato e finisce in carcere. Là conosce Hannah, un’attivista bianca, e ne diventa l’amante.

Un giorno Will bigia la scuola e va al cinema, e proprio là trova il padre con l’amante.

La storia è narrata da due punti di vista: uno onnisciente e l’altro che parla attraverso le parole del figlio Will, arrabbiato e deluso dal comportamento del padre che prima vedeva come una figura degna di rispetto.

Ma Will non dice cosa ha visto alla madre, e Aila continua la sua vita quotidiana dedicandosi alla famiglia e al lavoro senza mai lamentarsi.

E’ interessante leggere le pagine dedicate a Sonny dalla voce onnisciente: si cerca di capire le ragioni del tradimento senza giudicare. Una ragione importante che tiene in piedi questa storia è il fatto che Sonny e Hannah abbiano una causa in comune che li tiene uniti non solo nel letto.

Sonny non ha mai coinvolto la moglie Aila nei suoi discorsi o nei suoi viaggi politici e lei non ha mai mostrato di voler partecipare.

Finché un giorno Baby scappa all’estero e…

Attraverso la storia di questa famiglia, vediamo la storia più grande di tutto il Sudafrica, dei suoi attivisti, delle crepe che indebolivano il movimento, e dei suoi punti forti.

Ma si scende anche su un livello più intimo, del figlio nei confronti del padre e del padre nei confronti dell’amante. Quella che rimane sempre un po’ più misteriosa è Aila, che parla solo alla fine del libro.

Non vi rovino la storia, ma il libro è bello soprattutto perché è ben scritto. Nadine Gordimer se lo è meritato il Nobel.

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Piangi, terra amata (Alan Paton)

Siamo in Sudafrica, nel 1946.

Il vecchio parroco Kumalo, di stirpe zulu, riceve una lettera da Johannesburg: è un grande evento, perché è da tanto che lui e sua moglie aspettavano notizie del figlio, che è andato nella grande città in cerca di lavoro e che non si è più fatto vivo.

Ma la lettera, in realtà, arriva da un altro religioso, e porta notizie di Gertrude, la sorella di Kumalo, anch’essa andata a Johannesburg tempo prima e di cui non si era più saputo nulla. La donna era andata in cerca del marito, che era partito in cerca di fortuna nelle miniere, e ora si trova in pericolo… spirituale.

Il reverendo Kumalo decide di partire per andare a salvare la sorella, e subito uno della parrocchia gli chiede di cercare la figlia, anch’essa scomparsa nelle spire della grande città.

Insomma, Johannesburg appare subito come un mostro divoratore di esseri umani.

Là, il reverendo trova anche il fratello – di cui da anni non sapeva più nulla – che si è dato alla politica: ce ne sono di cose di cui lamentarsi, ci sono scioperi da organizzare, folle da sollevare, e John Kumano si dedica all’opera con passione: fin troppa, si accorge il reverendo, perché il potere inebria e rovina le persone.

Tanto che anche il nipote è scomparso… è finito in un brutto giro, come sembra sia finito anche il figlio.

La ricerca è una discesa agli inferi: più volte incontra qualcuno che gli dà informazioni sul giovane, e ogni volta deve rassegnarsi che le informazioni erano vecchie e che il figlio si è spostato per l’ennesima volta.

Finché non trovano la sua donna, incinta e poco più che una bambina, anch’essa abbandonata.

Ora voi immaginatevi questo vecchio religioso che gira in lungo e in largo per la città spaventosa: non ci sono telefoni, non c’è internet, bisogna sempre chiedere e affidarsi alla memoria di qualcuno che non si conosce.

Ovunque regna la paura: la paura dei neri di morire di fame, e la paura dei bianchi, di venir uccisi dai neri.

Eppure, nonostante il titolo, e nonostante l’atmosfera lugubre che fuoriesce da queste pagine, il finale offre speranza. Anche troppa, forse, perché di tutto il male e i problemi che affliggono il Sudafrica sembrano possano essere eliminati con l’amore e col tempo.

Il sentimento principale che ho provato leggendo questo romanzo è la compassione per il vecchio che cerca, cerca e, alla fine, trova un figlio perduto, in tutti i sensi.

Ma ho provato anche un senso di impotenza di fronte agli innumerevoli problemi di un paese, problemi così intrecciati che neanche con la fine dell’Apartheid si sono risolti.

Paton ha uno stile particolare: a volte ricorre a una scrittura altalenante, come se si ascoltasse una nenia africana; altre volte ci riporta stralci di lettere, articoli di giornale, spezzoni di discorsi politici o di sentenze, e sono questi variegati scorci di Sudafrica che ci mettono davanti alla multiformità del paese.

Per quanto trovi un po’ ingenuo il finale (l’amore trionfa sul male), ammetto che ho tirato un sospiro di sollievo. La salvezza, però, può essere raggiunta solo nel luogo natio, non a Johannesburg, diventata il simbolo del potere che rovina le vite delle persone.

Certo, la salvezza non è a portata di mano, bisogna lavorare, rendere di nuovo il terreno fertile, non solo nel senso materiale del termine, sfruttando il concime degli animali, ma anche convincendo i giovani a restare nel veldt e a non andarsene distruggendo le famiglie e le tribù.

Si può salvare l’Africa, dunque? Sì, ma…

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