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Un libro per chi ha genitori anziani

LA CATTIVA FIGLIA (CARLA CERATI)

PREMIO COMISSO 1990

Narrato in prima persona, è la storia di Giulia e della sua ottantenne madre.

Giulia ha un lavoro creativo, ha a che fare con la fotografia, la grafica, l’arte. Ad un certo punto, dopo vent’anni che si è allontanata da casa per fare la sua vita, sua madre resta vedova.

La donna aveva sacrificato tutto per la famiglia, e soprattutto per il marito, un tipo autoritario ma affascinante; quando si ritrova vedova, la solitudine le cade addosso come una montagna d’acqua fuoriuscita da una diga.

Giulia si lascia convincere a tenerla in casa con sé ma la convivenza è dura. Due personalità, con le proprie abitudini e le proprie necessità, si scontrano: la madre, che in apparenza è gentile e timorosa, non si rende conto che la sua presenza è ingombrante e fa sentire in colpa la figlia, che inizia a sviluppare disturbi psicosomatici.

L’anziana si lamenta che la figlia esce troppo spesso, oppure resta nella stanza quando Giulia si porta i colleghi di lavoro a casa per delle riunioni, togliendo spontaneità e rendendo tutti un po’ nervosi. Le due non riescono a incontrarsi su nessun terremo comune: alla madre piace la TV con le telenovelas, a Giulia piacciono i telegiornali o il silenzio a tavola. Quando una ha voglia di parlare, l’altra vuol tacere, e viceversa.

La Cerati è bravissima a rendere lo scontro tra routine, il ricatto affettivo e i sensi di colpa, è così brava da farmi credere che si trattasse di un’autobiografia (non è così, ma di sicuro qualcosa di simile l’autrice deve averlo vissuto in prima persona, altrimenti non potrebbe essere così precisa nella descrizione di alcuni atteggiamenti).

Quando Giulia e la sorella decidono di portare la madre in una casa di cura, le cose non migliorano perché la donna è sempre scontenta, non fa amicizia, si lamenta di ogni cosa (a volte a ragione, ma non si vede mai un tentativo di conciliazione da parte sua).

Nei fine settimana, Giulia se la porta a casa o va a trovarla in casa di cura, e per evitare di ascoltare le sue lamentele, la interroga sulla sua vita. E’ così che scopre a quanto ha rinunciato sua madre per dedicarsi alla famiglia e per assoggettarsi al marito, e lo ha fatto con senso di fatalità ma anche di amore (per esempio, lei aveva il suo stipendio da maestra ma era il marito che decideva come spenderlo).

Giulia conosce dunque un po’ di più sua madre, e anche se il rapporto non cambia molto, di sicuro cambia il suo modo di considerare certi atteggiamenti dell’anziana.

Quello che ho più sentito, è stato il senso di colpa di Giulia: lei vorrebbe essere come certe sue amiche che si dedicano ai genitori anziani senza sentirne il peso, ma non ce la fa, è il suo corpo che le dice che non può farcela.

E’ un libro che non prende le parti di nessuno ma mostra cosa ci sia sotto a una normalissima relazione madre-figlia dei nostri giorni.

Non dà soluzioni, non ce ne sono. Non possiamo scappare da quello che siamo e rinunciare alle proprie abitudini, non è facile dire addio ai propri impegni e alle proprie inclinazioni per seguire un genitore che ha bisogno, e spesso anche la miglior sistemazione possibile è percepita come un ripiego alla soluzione che dovrebbe essere normale: vivere tutti insieme in famiglia, fino alla fine.

Alla fine ti lascia un senso di amarezza non indifferente, però ti rendi conto che certe situazioni sono comuni a tante persone.

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Una donna – Annie Ernaux

Annie Ernaux inizia a scrivere questo libro pochi giorni dopo la morte della madre. Racconta la sua vita, l’ambiente in cui è cresciuta, il rapporto che si era creato tra loro e la malattia, l’alzheimer, che se l’è portata via, prima nella mente e poi nel corpo.

E’ la vita di una donna normale, che si è sempre data da fare per uscire dall’ambiente contadino e dalla povertà, per farsi una cultura e per far studiare la figlia.

La Ernaux ha una scrittura concisa che tratteggia le situazioni con neutralità e precisione: scrive per fissare la vita della madre, perché se non lo facesse, di lei non resterebbe niente, e questo è il carattere che più ci fa riflettere sulla nostra essenza.

Segue un andamento cronologico, con paragrafi quasi diaristici, senza nessun tema da dimostrare né alcuna scaletta preimpostata: i ricordi vengono messi su carta man mano che li richiama alla mente.

E’ una storia drammatica perché universale, ci riguarda tutti, da vicino o da lontano.

Al Gruppo di Lettura molti hanno sottolineato la mancanza di giudizi: la Ernaux ti mette davanti ai ricordi senza darti appigli morali per valutarli, lascia fare a te.

Leggendola, mi ha dato l’impressione che sia lei che sua madre abbiamo vissuto senza poter davvero scegliere, come se ogni loro comportamento sia stato dettato dall’ambiente o dall’epoca.

Perché? Dopotutto, entrambe si sono date da fare, non si son trovate la strada spianata: lavoro, studio, famiglia, la morte di un figlio e di un marito/padre, un divorzio…

Credo che la risposta stia proprio nello stile: la scrittura è così scevra da giudizi, che da nessuna parte vengono esternati i desideri che erano all’origine dei comportamenti.

Mi spiego: i comportamenti sono descritti; i pensieri che hanno portato a quelle azioni, invece, no. Riportare i pensieri, infatti, avrebbe significato fare ipotesi, e l’ipotesi porta in sé un giudizio, o comunque qualche tipo di valutazione.

Durante la lettura, dunque, quando mi trovo la madre che apre un negozio di alimentari e che si fa in quattro per mandarlo avanti, posso intuire la motivazione che c’è dietro, ma se mi fermo alla parola scritta, questa motivazione non è esplicitata, e il comportamento sembra eruttare da un corpo senza volontà propria.

Il libro piace, non può lasciarti indifferente.

Quello che è mancato, secondo me (ma non era nell’intenzione della Ernaux) è il piano, la scaletta, un tema di fondo che mi aiuti a far entrare il libro nel novero della grande letteratura.

E’ un’opera d’arte, perché è una forma di comunicazione consapevole (molto consapevole), ma forse è un po’ troppo personale, troppo legato alla sfera intima.

(Ehi, qui sto facendo le pulci a un bellissimo libro… non ci badate)

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L’amante giapponese, Isabel Allende @feltrinellied

L’anziana e ricca Alma Belasco all’improvviso decide di trascorrere gli ultimi anni della sua vita in una casa di cura. Là conosce l’inserviente Irina Bazili, che assume come assistente. Irina si accorge ben presto che Alma nasconde dei segreti, e insieme al nipote dell’anziana donna, decidono di indagare. Scoprono così che Alma in gioventù si era innamorata del giardiniere della famiglia, Ichimei, giapponese di seconda generazione. Resteranno innamorati per anni, nonostante i matrimoni di entrambi e le vicende storiche.

La fine del romanzo mi ha creato un leggero effetto sorpresa, ma questo dipende più dal fatto che io sono poco perspicace che dalla bravura dell’autrice nel creare suspence. Non mi sono lasciata incantare come “La casa degli spiriti”, e non so se ciò dipende da me, che sono più disincantata, o se dipende dal romanzo, che non ha creato personaggi capaci di diventare “eterni”.

Trovo anche poco verosimile che Alma, all’inizio così riservata sul suo passato, ad un certo punto inizi a raccontare quello che le è successo senza un particolare motivo: è un passaggio troppo repentino. E poi: che Amore è, quello di Alma, se l’esperienza che ha di Ichimei è solo… di letto?

Attorno alla storia principale di Alma e Ichimei si snodano poi molte altre vicende, alcune dei personaggi che vivono nella casa di cura, altre delle persone della famiglia Belasco. Anche Irina alla fine ha una storia di sofferenza alle spalle, però non ho percepito i segnali di questa sofferenza finché la sua storia non è stata rivelata: si capiva che c’era qualcosa che la bloccava, che aveva delle difficoltà a innamorarsi, però questa incapacità non le bloccava altre espressioni vitali. Devo dunque ammettere che ho letto la sua storia senza averla aspettata con impazienza.

La parte più interessante del romanzo, secondo me, è quella in cui racconta la storia dei campi di concentramento di giapponesi negli Stati Uniti. E’ una parte di Storia con la S maiuscola che nei libri scolastici non mi risulta venga raccontata.

Giudizio conclusivo: storia carina ma non eterna.

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Una giornata di 36 ore (N. L. Mace e P. V. Rabins)

Ho problemi con la connessione internet, e sono rallentata nel postare sul blog, ma due parole su questo libro non posso non scriverle.

Sono 346 pagine, e ogni singola pagina mi ha fatto pensare a quante siano le difficoltà che un familiare deve affrontare quando qualcuno si ammala di demenza. Quando qualcuno non si ricorda che due minuti prima gli hai detto che uscivi, e va in confusione perchè non ti vede più… quando non riesce più a vestirsi… quando devi aiutarlo a farsi il bagno (e parliamo di persone come noi, pensate a quanto possa essere imbarazzante farsi aiutare in azioni che fino a poco tempo prima abbiamo svolto da soli)…

Il saggio affronta tutti (dico tutti e mi chiedo se possano esisterne altri) gli aspetti: dal rapporto di coppia, alla scelta di una casa di cura, alla depressione, alla tendenza del malato di perdere (o nascondere) gli oggetti, alla preparazione e somministrazione dei pasti…

Una cosa è importante capire: che la demenza non è un risultato necessario e inevitabile della vecchiaia. Anzi, no, c’è anche un’altra cosa importante da capire: la persona affetta da demenza è comunque una persona. Mai farle mancare la compagnia e gli stimoli.
Mi ha fatto molta tenerezza l’esempio della moglie che per aiutare il marito che non riusciva più a vestirsi bene, gli ha procurato dei calzini senza tallone. Una cosa così semplice.
Ci vuole energia per seguire un malato. Energia mentale ed emotiva (la fisica la lasci per ultima, ma in certi casi serve pure quella). Non la si estrae dai pozzi, la dobbiamo trovare dentro di noi, ma libri del genere un aiutino te lo danno.

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