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I peggiori anni della nostra vita (Oreste del Buono) @EinaudiEditore

Il protagonista del libro è Oreste, non so se è autobiografico o se è un io fittizio: non l’ho capito, Del Buono è uno scrittore che leggo per la prima volta e lo stile risente molto degli anni in cui è stato pubblicato (1971).

Oreste si definisce come un giornalista che scrive di ciò che non conosce: subito, all’inizio del libro, mette le mani avanti per farci capire che a lui del suo lavoro non interessa più niente, che vorrebbe cambiarlo, che resta là solo per via della tessera di partito.

Oreste ha una moglie incinta, ma quando partorisce lui pensa solo a dormire e a non stare troppo tra i piedi di consorte e suocera: ne viene fuori il ritratto di un uomo senza passioni, neanche domestiche. Leggi come si muove, cosa pensa, e ti verrebbe da dirgli: “Dai, smuoviti, un po’ di vita!”

Poi il racconto torna indietro negli anni, e scopriamo che viene da una famiglia fascista e che il padre era dirigente di una fabbrica: la loro identità crea non pochi problemi dopo l’armistizio, ma Oreste, che ha fatto la guerra ed è stato prigioniero, non ha il coraggio di dire ai suoi di aver cambiato idea, di non pensarla più come quando era piccolo.

In realtà, Oreste non si esprime: inizia le frasi e lascia che le finiscano gli altri.

I capitoli, brevi, forniscono flash della vita del protagonista ma lasciano molti buchi, che il lettore deve riempire con indizi seminati qua e là: la morte di un amico, i genitori che invecchiano, il divorzio, il tentativo di recuperare il rapporto con la figlia.

In una scala da 1 a 5, gli darei un 2-.

Non fraintendetemi: Del Buono sa scrivere, ci sono frasi che mi sono sottolineata per la capacità di uscire dagli schemi letterari; tuttavia il suo stile rimane troppo elegiaco, e nonostante l’uso frequente degli aggettivi, le descrizioni rimangono sempre ambigue, sia che si parli di persone che di situazioni.

Forse era un effetto voluto: anche Oreste è ambiguo, non prende posizione, e quando la prende non se ne assume la responsabilità fino in fondo; ma non posso dire che sia un libro da consigliare a un lettore di oggi.

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Padre padrone padreterno – Joyce Lussu #femminismo @internazionale

Ma… il femminismo esiste ancora?

Di sicuro non ci sono più femministe come Joyce Lussu.

Una tipaccia: ha fatto la guerra nella resistenza (ed era pure incinta), ha preso una medaglia al valor militare (volevano dargliela senza cerimonia, e lei si è fatta valere), e ogni volta che teneva una conferenza per il partito obbligava gli uomini a portare le mogli, che erano regolarmente assenti.

Di famiglia nobile, laica e benestante, poliglotta, laureata in lettere alla Sorbona di Parigi e in filologia a Lisbona, ha viaggiato molto in Europa e nel mondo. Era scrittrice, poetessa e traduttrice.

Il libro che ho letto è breve, e rivede la storia mondiale dal punto di vista della donna.

Certe affermazioni storiche mi sono sembrate semplicistiche o, perlomeno, un po’ fuorviate, come, ad esempio, queste:

L’impero romano decadde, come tutti gli imperi, per una crisi di manodopera.

Il grande terremoto della Rivoluzione d’Ottobre aveva dimostrato che le masse possono vincere contro la classe dominante e che l’industrializzazione si può fare al di fuori del sistema capitalistico.

Ora c’era la Rivoluzione cinese, la prima vittoria rivoluzionaria non europea.

Tuttavia, altre parti denotano una notevole chiarezza sulla situazione femminile:

Il femminismo massimalista, con le sue proposte riduttive e alienate, in quanto improponibili a livello di massa (il rifiuto del maschio; il lesbismo come liberazione; i bambini in provetta e allevati in batteria, come i polli; l’atteggiamento acido e vendicativo verso l’uomo-lupo, come se noi donne fossimo dei candidi agnelli), non matura nessuna collocazione storica e nessuna prospettiva.

Se le donne devono ancora fare della strada in direzione della completa parificazione (soprattutto qui in Italia, dove il cattolicesimo ha fatto e fa danni), la strada va fatta insieme al maschio, non contro; e non si può prescindere dalla situazione economica (lei parla ancora di classi, ma se togliamo questa parolina, ormai priva di significato, la sua analisi rimane attualissima).

Posso dire la mia?

Il libro è del 1976 ma… Non sono molto ottimista.

E non mi riferisco solo al lavoro, dove le donne non sono ancora parificate; né solo alla famiglia, dove per mio marito (e per tanti altri) è normale, dopo cena, alzarsi e andare a guardare un film lasciando tutto sulla tavola.

Mi riferisco alla mancanza di solidarietà femminile, che genera assenza di dibattito, assenza di consapevolezza di interessi comuni.

Mi riferisco alle giovinette, che non si accorgono neanche di essere ridotte a esseri estetici, considerando superfluo quello che hanno dentro al cranio (e loro sono contente così!).

E mi riferisco… al meccanico che, quando gli porto la macchina (mia, e di cui pagherò io la riparazione), chiama mio marito per spiegare cosa ha fatto e chiedere cosa deve fare…!

Ci rido sopra ogni volta, però è sintomatico.

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