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Il canto di Penelope (Margaret Atwood)

Margaret Atwood in questo romanzo, lascia parlare Penelope dall’Ade. La moglie di Odisseo si rivolge a noi, nel nostro secolo, e ci racconta la sua versione dei fatti: Ulisse, Troia, Elena…

Perché l’Odissea racconta un solo punto di vista: quello dell’eroe che aiuta a sconfiggere i troiani con lo stratagemma del cavallo di legno e che poi, tornando a casa, si ferma qua e là, mentre la moglie Penelope lo aspetta a casa, fedele e paziente, imbrogliando i pretendenti con lo scherzetto della famosa tela (che in realtà è un sudario per il suocero, che, nell’eterna attesa del figlio che non torna, potrebbe morire da un momento all’altro).

Penelope era figlia di un re di Sparta, intelligente ma non molto bella, sicuramente non bella come la cugina Elena, che faceva impazzire gli uomini ai suoi piedi. Quando è venuto il momento di darla in sposa, essendo una principessa, c’era in gioco una dote consistente, dunque i pretendenti erano numerosi. Ma erano tutti là per la dote, non per lei!

Lo stesso Ulisse aveva provato a sposare la bellissima Elena, ma non c’era riuscito: insomma, Penelope è un ripiego, e ce lo fa, molto femminilmente, notare. Ciononostante, una volta sposati, con Ulisse riesce a instaurare un bel rapporto, finché dura… perché a un certo punto inizia la guerra di Troia e Ulisse, essendo vincolato a un giuramento, deve partire.

Sta via vent’anni, abbandonando la moglie in uno scoglio di regno in mezzo a rocce e capre.

Ma Penelope ci parla da morta: ora sa tutto quello che è successo e adesso può parlare, perché nessuno può più farle del male.

Ad esempio, ci rivela che lei si era accorta subito che il mendicante che ha sfidato i pretendenti era suo marito, ma ha voluto lasciargli credere di esserci cascata, perché lui ci teneva a passare per uno bravo nei travestimenti. E quando Ulisse fa uccidere le dodici ancelle che per lui erano delle traditrici, ci confessa che le aveva mandate lei a spiare i proci per capire che intenzioni avevano, e le ancelle avevano obbedito.

Alcune poi, in seguito a questo atto di obbedienza, sono state stuprate, altre si sono addirittura innamorate di questi pretendenti di Penelope (erano giovani e belle, ricordiamocelo), ma a Ulisse questo non rileva: lui le fa impiccare perché lo hanno tradito.

E Penelope, dal regno dei morti, si pente e di duole di questo spargimento di sangue innocente di cui lei è parzialmente colpevole.

Ma a mio parere, le parti più interessanti del libro sono quelle in cui lei si confronta con la bellissima cugina Elena: vanitosa, attentissima al proprio aspetto, civetta con gli uomini e li lascia cadere nella sua trappola solo per il piacere di dimostrare che può farlo. Non le interessano le conseguenze.

Rispetto all’Odissea, qui si punta l’attenzione su Penelope che è, in definitiva, bruttina, ma intelligente, che tutti hanno corteggiata principalmente per i suoi soldi; si sottolinea che suo figlio Telemaco era viziato e che suo marito Ulisse era un furbastro che faceva quello che voleva; e che, infine, le donne sono sempre quelle che ci rimettono (a meno che non usino gli uomini ai propri scopi, come fa Elena).

Alla fine, non può manca un tribunale dei giorni nostri dove Ulisse viene giudicato.

Colpevole o innocente della morte dei pretendenti?

Innocente.

Colpevole o innocente della morte delle dodici ancelle?

Innocente.

E Ulisse, maestro d’inganno e travestimenti, anche se morto, non può restare a lungo nell’Ade. Va e viene, rivivendo nel nostro mondo sotto le spoglie più diverse. Alle sue calcagna, le furie, inviate dalle dodici ancelle che cercano vendetta.

Per scrivere questo romanzo, Margaret Atwood si è basata in gran parte sull’Odissea, ma anche sulle teorie di Graves, dove Penelope sarebbe stata la sacerdotessa di un culto di una divinità femminile; e devo dire che questa Penelope mi piace molto di più di quella canonica che tesse durante il giorno e disfa durante la notte.

Ne viene fuori una donna che vive all’ombra di un marito famoso ma che non è così passiva come ce la vogliono far sembrare: che per essere accettata, bruttina com’è, deve farsi passare per paziente e sottomessa, tanto da diventare l’archetipo della moglie ideale, per molti.

Lei a casa a respingere i pretendenti e a tutelare la sua virtù, il marito in giro per il mondo a intingere il biscottino dove gli pare.

Ma quanto piace questa versione di Penelope silenziosa a certi uomini?

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Amore liquido (Zygmunt Bauman)

L’amore non si può imparare, non è un’arte, è un evento unico, perché, ogni volta, le persone coinvolte sono uniche.

Dunque non è possibile dedurre delle regole generali, non è possibile raggiungere un vero apprendimento, nel senso di acquisire abitudini utili per un certo scopo. Questo è più che mai vero nel mondo moderno, dove le coppie nascono “a termine”, dove si rifugge il più possibile dall’impegno a vita.

Se un rapporto di coppia ha durata determinata, se ogni esperienza con l’altro sesso si concretizza in episodi brevi, non si riesce a affrontare abbastanza prove per poter dire: è vero amore.

La definizione romantica dell’amore come vincolo che dura “finché morte non ci separi” è decisamente fuori moda (…). Ma la caduta in disuso di tale nozione ha finito inevitabilmente con l’abbassare il livello di difficoltà delle prove che un’esperienza deve superare per fregiarsi del titolo di “amore”.

L’amore non lo impari perché per imparare serve una certa dose di ripetitività, di prevedibilità, e gli esseri umani non si ripetono, sono imprevedibili.

Si può imparare a svolgere un’attività laddove esista una serie di regole fisse riferite a uno scenario stabile, monotonamente ripetitivo, che ne favorisce l’apprendimento, la memorizzazione e il successivo espletamento.

Certo, se si parte da questo assunto, si capisce perché chi si lascia impegolare sempre da relazioni sbagliate sembra non imparare mai. Però le conseguenze di un pensiero del genere rischiano di sconfinare…

Perché alla fine, anche noi siamo sempre indefinibili e imprevedibili, perfino a noi stessi: dunque non si può mai giungere alla conoscenza di sé?

E comunque, anche se non si possono prevedere i comportamenti umani e non si possono conoscere tutte le sfumature del partner, è vero che alcuni atteggiamenti sono universali, e certe regole comuni, in qualche modo, si possono scovare qua e là.

Secondo Bauman, se si guardano i mass media, dalle riviste che parlano di rapporti di coppia alle trasmissioni, i consigli più diffusi sono quelli che ci insegnano a chiudere un rapporto col minimo dispendio di energie possibile; ma me non sembra che sia proprio così: a me sembra che ci siano ancora tante “poste del cuore” dove si chiede come conquistare un uomo o come gestire certi problemi di coppia, senza necessariamente arrivare allo scioglimento del matrimonio o del fidanzamento…

Certo, è vero che i legami d’amore (anche i legami d’amore) sono più effimeri. Però ho comunque sospeso la lettura del saggio a pag. 67 (su 214). Bauman non dà soluzioni. Il suo è un libro descrittivo, che usa molte metafore e molti richiami ad altri pensatori. Tutte affermazioni difficili da contestare le sue, ma… che tristezza.

D’altronde, le soluzioni per una coppia che è in difficoltà, esistono? Ponendomi questa domanda ricado nel prototipo di consumatrice baumiana, lo so. Però ho bisogno di speranza. Diciamo che “L’arte di amare” di Fromm (a cui Bauman sembra dichiarare guerra in questo saggio) mi è piaciuto di più.

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Belle Greene (Alexandra Lapierre) @EdizioniEO

Vincitore del Premio Comisso 2022 sezione Biografia

Un libro bellissimo: bella storia, ben scritto, ben documentato.

Tratta della vita di Belle Greene, bibliotecaria del finanziere miliardario J. P. Morgan, la donna più pagata all’epoca. E’ la storia di una passione, quella dei libri.

Belle Da Costa Greene in realtà era nata Belle Greener e proveniva da una famiglia di colore. Suo padre era stato il primo studente nero a laurearsi ad Harvard e il primo avvocato nero a cui fosse stato permesso di esercitare. Divenne anche il primo console di colore in missione all’estero (Vladivostok).

Un grande uomo, dunque, no?

Beh, anche io sono affascinata dagli uomini che si fanno avanti nel mondo a forza di studio e resilienza, ma si dà il fatto che il padre di Belle Greene nella vita privata fosse quel che si dice un farabutto. Lasciò la moglie per dedicarsi alla causa dei neri (nonché alle sue numerose amanti) e rifiutò categoricamente di aiutare la famiglia.

Geneviève, la moglie, si trovò a gestire da sola i figli. Come fare per garantire loro un futuro decente, senza dover lottare quotidianamente contro la povertà e le ingiustizie? Facendosi passare per bianca, approfittando del colore chiaro della pelle della sua famiglia (alcune figlie erano proprio bionde).

Si inventarono un lignaggio nobile di ascendenza portoghese, i Da Costa, e si trasferirono in un quartiere bianco, tagliando del tutto i ponti con la famiglia di Georgetown, che pure amavano. I figli giurarono solennemente che non avrebbero mai avuto una discendenza, per evitare che il colore scuro degli antenati potesse palesarsi in una delle generazioni successive.

Belle fin da piccola ha un sogno: lavorare con i libri e tra i libri.

Studia, raccoglie informazioni, osserva, fino ad arrivare a lavorare per il magnate J. P. Morgan, famoso tanto per la sua collezione di libri rari quanto per le sue sfuriate. Il rapporto è complesso: il miliardario è sospettoso di natura, deve esserlo, con tutti gli avvoltoi che gli volano attorno solo per i suoi soldi; ma si accorge subito della competenza e dell’energia di Belle, che, pian piano, diventa la donna più pagata d’America.

Si fida di lei: ad un certo punto, Belle ha carta bianca alle aste, può comprare senza limiti di spesa, eppure lei si comporterà sempre con attenzione e rispetto (guai a parlar male del signor Morgan in sua presenza!). Molto spesso rischierà grosso, soprattutto per trasportare opere d’arte e libri dall’Inghilterra all’America frodando le autorità doganali.

Morgan la inserirà nel testamento per un cospicuo legato, ma sarà, per tutta la durata del loro rapporto, un padrone esigente e tiranneggiante: arriverà al punto di dirle che non deve sposarsi!

Lei a sposarci non ci pensa. Non le mancheranno gli amanti, tutti di un certo livello: tra questi bisogna nominare Bernhard Berenson, famosissimo e richiestissimo critico d’arte, dal quale Belle assorbirà quanto più possibile della sua conoscenza, ma che farà anche il finto tonto quando lei, incinta, andrà ad abortire clandestinamente.

Il divieto di avere bambini sarà bellamente ignorato dalla sorella più giovane, Teddy. Il primo figlio nascerà senza conoscere il padre, che muore in Europa durante la prima guerra mondiale, e viene adottato da Belle, che stravede per lui.

Ma il segreto della famiglia è sempre in pericolo, soprattutto a causa del padre di Belle, che sarà una costante ombra minacciosa e che li ricatterà per motivi economici.

Io l’ho trovato un libro bellissimo e vorrei consigliarlo a tutti.

Ognuno di noi ha una paura che lo tiene incatenato dove si trova. Belle rischiava grosso facendosi passare per bianca: se l’avessero scoperta avrebbe perso il lavoro (con il quale aveva garantito un alto tenore di vita a tutta la famiglia) e sarebbe potuta andare in prigione. Eppure lei non si è fatta legare le mani: si è data da fare e ha esaudito il suo sogno.

Inspiring.

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La camera azzurra (Georges Simenon)

Tony Falcone ha una relazione con Andrée da circa otto mesi. Si incontrano in una stanza dell’albergo del fratello di lui, la Camera azzurra.

Tony rivive l’ultimo incontro con la donna attraverso un interrogatorio.

Un po’ alla volta veniamo a scoprire che indossa le manette, che lo portano nella stanza degli interrogatori col cellulare. Dunque è stato compiuto un reato ma non si sa quale, non si sa se sia stato ucciso qualcuno, chi, quando, perché.

Sia lui che lei sono sposati: lei con un uomo che soffre di epilessia; lui con Giséle, che le ha dato una figlia, Marianne, di sei anni.

Scopriamo che Andrée è innamorata di lui dai tempi delle scuole, ma che poi Tony se ne è andato dal paese per una decina d’anni, e lei, in assenza di lui, si è sposata con Nicolas, ricco e malato.

Tutto quello che veniamo a scoprire sulla coppia clandestina, lo sentiamo dalla voce o dai pensieri di Tony durante gli interrogatori.

Una delle grandezze di questo libro è che c’è stato un reato, ma non si dice quale: al centro della storia c’è la psicologia dell’uomo e della donna coinvolti.

Tony non si fa domande, né su di sé, né su Andrée, né sulla moglie. Il più delle volte giustifica il proprio comportamento e quello altrui con frasi del tipo: E’ quello che fanno le donne, è quello che fanno gli uomini.

E’ un essere umano che vive quasi ai limiti dell’animalità, seppur travestita da perbenismo: il lavoro, la casa, la famiglia, tutto è accettato perché “si fa così”.

Non si chiede mai che cosa vuole davvero Andrée, e anche quando lei gli parla in modo da fargli capire cosa davvero desidera, lui registra le parole senza rendersi conto delle possibili conseguenze.

Non si chiede mai cosa pensa la moglie Giséle, dice di amarla ma non sa definire cosa sia l’amore. D’altronde, quando Andrée gli chiede espressamente se lui la ama, lui non sa rispondere con un sì o con un no neanche a lei.

Alla fine, il delitto gli cade addosso senza che lui quasi abbia fatto nulla, eppure sa di essere colpevole.

E’ colpevole.

Non è un libro giallo, dove c’è un delitto e si deve scoprire movente e colpevole; piuttosto è un romanzo sul senso dell’essere umano: cosa ci rende davvero umani? La consapevolezza di esserlo, la riflessione, il pensiero.

Chi non si fa certe domande è colpevole e deve venir punito.

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Chiara Gamberale a S. Donà di Piave (VE)

Ieri sera sono stata alla presentazione de “Il grembo paterno” alla Libreria Moderna.

Chiara Gamberale è una donna spigliata e sorridente, una che ti immagini sempre circondata da tante amiche.

Per prepararmi alla presentazione, visto che non avevo ancora acquistato l’ultimo libro, mi son letta “La zona cieca” (Premio Campiello selezione Giuria dei Letterati 2008). E devo ammettere che Lorenzo, il protagonista maschile, l’ho trovato insopportabile.

Lidia però ne è innamorata e sopporta i suoi sbalzi di umore, i tradimenti, le frasi sprezzanti, la dipendenza dalle droghe, le bugie, le depressioni, le assenze fisiche e mentali. Ho fatto fatica ad arrivare alla fine, perché mi chiedevo: ma come si può abbassarsi a questi livelli? E parlo di Lidia, non di Lorenzo…

Come si può rinunciare ad avere una vita decente per colpa di un tipo così?

Poi però alla presentazione di ieri sera ho capito che cosa ha portato Chiara Gamberale a dedicare tempo a mettere su carta due personaggi così, che sembrano legati da una maledizione più che dall’amore.

Chiara Gamberale è sempre stata affascinata dalle parole e dalle persone che sanno usarle bene. Fin da piccola (ha scritto il suo primo romanzo a sette anni e mezzo) diceva che sarebbe andata a vivere nel paese degli scrittori, proprio perché ai suoi occhi gli scrittori erano persone belle, che sapevano “parlare bene”.

Con gli anni, però, si è accorta che le parole si possono usare in modi diversi, anche per fare del male, anche per sedurre: anche chi “parla bene” può usare le parole a scopi egoistici (anche se non sempre ne è consapevole).

Sotto questo punto di vista, Lorenzo de “La zona cieca” e Nicola de “Il grembo paterno” si assomigliano molto (prima di scoprire le differenze tra i due, devo leggere il secondo romanzo).

Chiara Gamberale è tornata a scrivere dopo quattro anni di pausa.

Quattro anni fa, infatti, è nata sua figlia Vita e questo le ha causato una specie di lockdown creativo, un vero e proprio evento, per lei che è sempre stata inseguita da così tante storie da aver difficoltà a scegliere quale mettere su carta. Due anni fa, poi, quando il primo marzo ha iniziato a portare Vita all’asilo e sperava di poter mettersi a scrivere di nuovo, è arrivato il Covid19, il lockdown per “eccellenza”, e quindi la piccola è rimasta quasi sempre a casa.

Questa era la seconda volta che le veniva il c.d. blocco dello scrittore. La prima volta è stato quando si è innamorata sul serio: era rimasta altri due anni senza scrivere (e poi ha scritto undici romanzi uno dietro l’altro).

Sembra dunque che quando le succedono questi eventi così importanti, la sua creatività vada in cantina: ma anche da là, continua ad ascoltare e immagazzinare quello che sente, come una brava massaia che mette via i vasetti di conserva per l’inverno.

Il messaggio di “La zona cieca” è ottimista e intimista: abbiamo tutti un passato, degli amori che ci sono stati donati, magari male, magari storti, ma che ci hanno plasmato in qualche modo; e questo è il materiale da cui dobbiamo partire per creare nuovo amore. E’ un messaggio molto diverso rispetto ad altri libri di altri autori (lei citava “La solitudine dei numeri primi”), ma mi è piaciuto, dà una scrollata ai rinunciatari e a chi si adagia su affermazioni coniugate al passato, come “questo mi è successo!”.

Adoro andare alle presentazioni dei libri. Si impara sempre qualcosa.

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La canzone di Achille (Madeline Miller) @Feltrinellied

Tutti conoscono l’Iliade…

Oppure no?

Beh, lo ammetto: non ho frequentato il liceo, ma un istituto tecnico, e l’Iliade l’abbiamo nominata solo di striscio. A vent’anni me la sono letta per conto mio, ma non sono abituata a leggere i poemi e mi mancava una buona base culturale, così me ne è rimasto ben poco.

Dunque ringrazio Madeline Miller per aver messo questa storia alla mia portata.

In realtà, il romanzo si incentra sulla storia d’amore tra Achille e Patroclo, raccontata dal punto di vista di quest’ultimo; la presa di Troia c’è, ovviamente, ma rimane sullo sfondo dei sentimenti dei due amanti.

Per entrare meglio nel mood del poema, mentre leggevo il romanzo, mi son guardata Troy, con Eric Bana, Brad Pitt e Orlando Bloom, e mi son resa conto di quante licenze cinematografiche si è preso lo sceneggiatore (David Benioff, l’autore del bel romanzo “La città dei ladri”).

Nel film, Patroclo è solo un personaggio secondario, cugino di Achille, e voglioso di combattere. Briseide è una cugina di Ettore e si innamora di Achille, che muore per salvarla. Teti, la madre di Achille, è una gentile signora anziana che raccoglie alghe in riva al mare. La guerra di Troia sembra durare pochi giorni ed Achille passa le notti con due donne nel letto.

Nel libro, invece, Patroclo è un principe esiliato inetto sul campo di battaglia e che si dedica a curare i soldati feriti; Briseide è una contadina che si innamora di Patroclo e Teti è una dea minore incazzosa che non vuole che Patroclo gironzoli attorno al figlio Ettore, perché potrebbe compromettere il suo destino di gloria. La guerra di Troia dura dieci anni e Patroclo e Achille sono amanti.

Questo romanzo, in 382 pagine, riesce a scendere in profondo nelle psicologie dei personaggi.

Se all’inizio il rapporto di Patroclo ed Ulisse è passionale e idealizzato, verso la fine Patroclo si accorge di quanto il suo amante sia spinto dall’orgoglio e dalla sete di gloria e immortalità. L’autrice però è brava a rendere l’amore di Patroclo, che, pur rendendosi conto dei difetti di Achille, non ci si sofferma, perché lo ama al di sopra di ogni cosa.

Cioè: ci ha messo davanti al vero amore, non alla semplice infatuazione, dove si è ciechi e sordi alle caratteristiche negative dell’altro. Non era facile rendere questa contraddizione (complimenti alla Miller), forse perché nella vita reale siamo a corto di esempi in carne ed ossa…

Achille sapeva che se fosse morto Ettore, poi sarebbe morto lui: così diceva la profezia.

All’inizio, quando la storia con Patroclo è ancora rose e fiori, Achille non ci pensa proprio ad uccidere Ettore. “Cosa mi ha fatto?” chiede. Poi però si rende conto se se Ettore (e dunque lui) non muore, non otterrà mai la gloria dei posteri e morirà ignoto come l’ultimo dei contadini.

Se non si può raggiungere l’immortalità col corpo, si desidera raggiungere l’immortalità attraverso la gloria. E’ una contraddizione talmente umana: morire per diventare immortali…

E così, il romanzo si allarga sull’universalità: l’uomo e il suo desiderio di essere immortale.

Da leggere.

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La incantatrice (Han Suyn)

Han Suyn è nata a Pechino da padre cinese e madre belga. Si è laureata a Londra in medicina ma non ha potuto esercitare nel suo paese per motivi politici. Ha scritto diversi libri, tra i quali il più famoso è “L’amore è una cosa meravigliosa”.

La mia edizione (bruttissima, guardate che schifo di copertina, sembra un romanzo rosa) è del Club degli Editori, ma a dispetto della foto poco evocativa, il libro è sia storico che d’avventura.

Narra la storia di Colin e Bea, due gemelli nati in Svizzera nella seconda metà del Settecento. La madre, di origini celtiche, viene uccisa insieme al padre a causa della bigotteria di quei tempi e loro si ritrovano a viaggiare: prima andranno da uno zio a Losanna, dove Colin dovrebbe prendere possesso delle proprietà di famiglia e del titolo di conte, poi in Cina e in Thailandia.

Dimenticavo: Bea ha ereditato le capacità della madre, ha un legame particolare con la natura, sa preparare pozioni e può comunicare telepaticamente col fratello.

Il libro è scritto in prima persona, a volte parla Colin a volte Bea, ma è sempre immediato nelle descrizioni di sentimenti e luoghi.

Non è un capolavoro, ma un libro che ti fa trascorrere ore rilassanti.

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Da qualche parte starò fermo ad aspettare te (Lorenza Stroppa) @LibriMondadori

Il romanzo è raccontato dal punto di vista dei due protagonisti: Diego, che lavora come editor e colleziona donne senza mai impegnarsi davvero, e Giulia, pittrice, reduce da un evento che le ha segnato la vita ma del quale non sappiamo nulla fino a quasi metà libro.

Tutto nasce quando Diego trova l’agendina di Giulia sotto lo scaffale di un supermercato e viene travolto dalla curiosità: si improvvisa subito detective e inizia a frequentare i posti che frequenta lei.

No, non è un romanzo rosa.

E’ la seconda volta in poco tempo che mi sento in dovere di mettere in chiaro che non leggo romanzi rosa: con tutto il rispetto dovuto a chi li scrive, ma in questo libro la storia d’amore, pur occupando un ruolo importante, non è il perno della storia.

Piuttosto, parlerei di romanzo di formazione, sebbene i protagonisti non siano più adolescenti: la ragione di questa mia scelta è che entrambi hanno un nodo da sciogliere al proprio interno, un ostacolo che non permette loro di andare avanti, di crescere, di… prosperare.

Mi è piaciuto, di Diego, il fatto che lavori come editor: quando parla del suo lavoro vediamo quanto una figura professionale del genere debba mediare con gli autori, e ci rendiamo conto di quali capacità diplomatiche abbia bisogno. E’ un punto che già alcuni editor sottolineano nei loro canali YouTube: per chi si interessa di editoria, è bello avere uno scorcio diretto sulle vite di queste figure.

Di Giulia invece ho particolarmente apprezzato il suo rapporto con i colori.

Lavoro per un’azienda di design di alta gamma, dove si tende a dare una preferenza ai colori neutri che tendono sempre ad essere considerati come i più eleganti (il bianco è stato canonizzato, praticamente). Ma il modo in cui Giulia parla dei colori ci mette davanti alla “personalità” delle varie sfumature cromatiche: i colori ci parlano, anche se non sempre li ascoltiamo.

Questa storia è ambientata a Venezia: la Stroppa la conosce molto bene, essendo figlia di veneziani. E questo mi permette una digressione: vi capita mai di accorgervi, mentre leggete un libro, che qualcosa lo lega a quello che avete letto prima? Nel mio caso, Venezia lega il libro della Stroppa a “Tod zwischen den Zeilen” (Morte tra le righe) di Donna Leon, che sto leggendo adesso, e che è, anche lui, ambientato a Venezia.

Non solo: all’inizio di “Da qualche parte”, c’è un richiamo al dottor Zivago, il che lega strettamente questo libro a “Il colibrì”, di Veronesi, che ho finito due giorni fa e nel quale lo Zivago era il libro preferito del protagonista.

Queste sincronicità mi capitano sempre, leggendo…

Fine della digressione.

Nel romanzo della Stroppa ci sono anche dei punti che mi hanno lasciata perplessa.

Innanzitutto, l’amicizia tra Giulia e Rita: nella mia esperienza, le grandi amicizie nascono tra persone piuttosto simili. Il rapporto tra Giulia e Rita lo sento poco verosimile: Giulia è introversa, monogama e malinconica; Rita è spumeggiante, esorbitante, esagerata, bisex e un po’ ninfomane. Quante coppie di amici conoscete con questa differenza di caratteri? Amici veri, intendo, come sono Giulia e Rita. Io nessuna.

Un altro punto che mi ha fatto storcere il naso è l’episodio di Giulia che finisce a letto con Diego: era ubriaca, e non si ricorda se ci ha fatto l’amore oppure no. Ecco… l’amnesia da sbronza io non l’ho mai provata, non so fino a che punto ci si possa dimenticare certe cose, tuttavia, è un espediente a cui spesso si ricorre nei film di serie B: nel romanzo ci sta, si lascia leggere, eppure…

Ultimo appunto: c’è una scena in cui Giulia è a letto con Diego, che dorme. Lei si sporge per messaggiare con Rita. Ma Diego ha un braccio attorno alla sua vita, com’è che Giulia fa in tempo a fare un discorso per SMS prima che lui si svegli?

Ok, comunque queste sono pignolerie, nell’economia generale del libro..

Vi consiglio la lettura di questo romanzo?

Sì, perché la Stroppa scrive molto bene e perché… questo non è un romanzo rosa! Alla fine la protagonista fa uno scatto che mi ha portata a commentare: Ah, però! Brava Giulia! Sembravi destinata semplicemente a rifarti una vita come tutte le altre donne e invece…

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Cani selvaggi (Helen Humphreys)

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Non conoscevo questa autrice canadese: ve la consiglio!!

L’espediente narrativo che ha usato in questo libro è di mettere insieme sei persone, molto diverse l’una dall’altra, ma tutte con un problema comune: ognuna di loro ha perso il proprio cane (scappato o abbandonato), che si è unito a un gruppo di cani selvatici nel bosco.

Tutti noi abbiamo paura delle persone con cui viviamo, di quelle che hanno dato via i nostri cani. Se non avessimo paura di loro, loro non avrebbero avuto l’autorità di fare ciò che hanno fatto.

Ogni sera, allora, si trovano tutti e sei ai margini del bosco e ognuno chiama il proprio cane.

La storia è raccontata da diversi punti di vista.

Incomincia Alice, che si è innamorata della biologa del gruppo.

Poi c’è Jamie, un adolescente che cerca di crescere prima del tempo avvicinandosi ad amicizie poco raccomandabili per dimenticare la situazione che lo aspetta a casa.

C’è Lily, una ragazza con dei problemi intellettivi causati da un incidente

Parla anche Spencer, che non appartiene al gruppo, ma che sarà fortemente toccato dal destino di Lily (destino causato da lui, ma non faccio spoiler).

Un altro punto di vista è quello di Malcom: anche lui ogni sera va a chiamare il suo cane, e siccome Alice ha appena mollato il suo ragazzo ed è rimasta senza casa, le offre di dormire nel suo capanno. Ma anche Malcom ha dei problemi mentali..

Al di là della vicenda che li unisce, l’autrice affronta vari temi.

In un rapporto di coppia (o cane-padrone) bisogna fidarsi o bisogna mantenere un certo grado di paura?

Perché i cani se ne sono andati e cosa li trattiene nel bosco? Sono cambiati rispetto a quello che erano una volta o sono diventati quelli che erano già? E questo succede anche alle persone?

Non riuscivamo ad immaginare un mondo per loro del quale noi non fossimo il centro.

Credo che i cani siano una metafora della vita: sono addomesticati, vivono delle nostre abitudini, e poi all’improvviso cambiano. Sono diventati selvaggi o lo sono sempre stati, in realtà? E noi siamo addomesticati del tutto o possiamo ancora cambiare?

E’ un romanzo davvero pieno di riflessioni che ognuno può adattare a se stesso.

5 Stelle su 5.

L’acqua ha sempre qualcosa da fare. Dà sempre l’idea di avere un posto importante dove andare. Anch’io vorrei sentirmi così.

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Solo io posso scrivere la mia storia (Oriana Fallaci)

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Non è un’autobiografia, nonostante il titolo, bensì una raccolta di scritti scelti e catalogati in base ai principali temi affrontati dalla Fallaci durante la sua vita.

Si inizia con il resoconto della sua infanzia sotto il regime fascista e sotto le bombe della guerra: è un passaggio necessario per capire la durezza e la determinazione che l’hanno guidata durante la sua carriera e la vita privata.

Il padre era uno dei capi della resistenza, è stato imprigionato e torturato, e lei stessa, ancora bambina, ha fatto la staffetta per i partigiani. Ecco perché è sempre stata molto sensibile al tema della libertà e della politica.

Una buona parte del libro è dedicata alla sua storia con Alekos Panagulis, ovviamente: molti testi li ho letti qui per la prima volta, altri invece erano già contenuti in libri precedenti, o in articoli già pubblicati, ad esempio non ricordavo delle difficoltà che la Fallaci aveva avuto coi parenti dell’uomo dopo la sua morte.

E’ sicuramente un libro interessante, considerando la vita che ha vissuto questa giornalista.

Ha anche i suoi limiti, però.

La catalogazione è a volte imprecisa, ad esempio, sotto il capitolo “Il mestiere di scrivere” ci sono dei paragrafi dedicati al padre e alla guerra in cui non si parla di vera e propria scrittura.

Un altro limite di questo tipo di raccolte è che, essendo ogni testo tratto da una fonte diversa, a volte è difficile contestualizzare e bisogna andare alla fine del libro per capire – almeno – in che anni è stato scritto.

Passando ai contenuti specifici di quello che dice la Fallaci: beh, sì, è la Fallaci, però era anche un essere umano… dunque bisogna evitare di sottomettersi al principio di autorità, accettando tutto quello che dice, e valutare le sue opinioni caso per caso.

Ci sono ad esempio affermazioni che condivido, come queste:

In Italia i giornali non sono quasi mai fatti per la gente: sono fatti per i politici, per i partiti, per gli interessi di pochi.

Il nostro compito [dei giornalisti] non è compiacere il potere. Il nostro compito è informare e risvegliare la consapevolezza politica delle persone.

L’amore non si misura nel momento in cui fai l’amore ma dopo.

Altre invece sono troppo lapidarie e/o sono il frutto di una visione quanto mai personale:

Quando un padre impazzito ammazza un figlio, ammazza anche sé stesso. Quando una madre impazzita ammazza un figlio, non si ammazza affatto.

L’odio è un sentimento. E’ una emozione, una reazione, uno stato d’animo. Non un crimine giuridico.

Insomma, un libro da leggere per ragionare, non per imparare a memoria delle frasi astratte dal contesto.

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