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L’ultimo amico (Tahar Ben Jelloun)

A volte scelgo i libri in base al paese in cui mi piacerebbe trovarmi in quel momento.

Vivendo nella pianura Padana, adesso che in inverno è tutto freddo e grigio, e avevo bisogno di caldo e colori, così ho scelto il Marocco. Ma di paesaggi e luoghi in questo libro ho trovato ben poco.

E’ la storia di due amici, Alì e Mamed. Si conoscono da adolescenti e il loro legame dura per trent’anni, attraverso incarcerazioni, allontanamenti, matrimoni e malattia.

La vicenda inizia quando Alì, adulto, riceve una lettera dall’amico:

Poche frasi, brutali, secche, definitive. Le ho lette e rilette. Non è uno scherzo, una trovata di pessimo gusto. E’ una lettera destinata a distruggermi. La firma è proprio quella del mio amico Mamed. Non ci sono dubbi. Mamed, il mio ultimo amico.

Si inizia dunque a leggere il libro con l’aspettativa di scoprire quale è il contenuto della lettera. Il Primo a raccontare la storia è Alì, che passerà il testimone a Mamed dopo essere arrivato al punto definitivo della rottura dell’amicizia, senza però spiegarne il motivo.

Alì è un insegnante di lettere, molto colto, sposato con Soraya che non può avere figli. Mamed è un medico che ad un certo punto della sua vita si trasferisce in Svezia, e comincia a sentirsi diviso tra il rispetto per il paese di adozione e la nostalgia del paese di origine. Da giovani hanno vissuto insieme l’esperienza del carcere per le loro idee politiche e si sono sempre protetti a vicenda.

Il matrimonio di entrambi causa delle incrinature nell’amicizia: fa sorgere delle invidie, soprattutto da parte di Mamed, ma niente di così forte da rompere il rapporto. Eppure, ad un certo punto, Mamed incolpa Alì di aver cercato di imbrogliarlo quando si è occupato di arredare l’appartamento che Mamed aveva acquistato in Marocco mentre era in Svezia.

Le accuse sono spiazzanti, dopo tutto quello che hanno passato insieme.

Mentre leggi il libro ti viene naturale chiederti quando ci si può definire “amici”.

Credo che sia essenziale un certo grado di parità: se ci sono troppe differenze c’è sempre la possibilità che uno dei due possa sviluppare invidia nei confronti dell’altro… ma forse questo si verifica con più frequenza nelle amicizia femminili. Gli uomini – anche i due protagonisti – non scendono mai nei dettagli delle proprie emozioni, quando parlano. Mamed e Alì non parlano mai del rapporto con le proprie mogli, ad esempio. Le donne lo fanno: condividono molto, ma mettere sul tavolo certe emozioni ti espone anche alle ferite, ti rende vulnerabile.

Di certo il matrimonio cambia le cose: è un sovvertimento importante. Solo le vere amicizie sopravvivono.

E di sicuro, non si possono avere molti amici. Veri, intendo.

Conosco persone che esce quasi tutte le sere con così detti “amici”, ma quando hanno bisogno di qualcosa, non si vede nessuno. La vera amicizia richiede un investimento emotivo e temporale: devi sentire quello che sente il tuo amico, e per far questo, hai bisogno di trascorrere tempo con lui, essere concentrato su quello che prova.

Non ci sono molti veri amici nei grandi gruppi di persone, perché l’amicizia richiede un certo grado di esclusività: è nel rapporto a due, a quattro occhi, che puoi parlare sul serio, non davanti alla pizza, attorniamo da un gruppo di dieci, quindici persone.

E l’amicizia vera richiede un certo grado di accettazione del sacrificio.

Con i ritmi di oggi, vedo davvero poche vere amicizie. Tanta gente che esce a mangiare insieme, quella sì, ma c’è poca vera comunicazione. Si parla di argomenti neutri, che non ci riguardano sul serio, non si toccano neppure le paure e i desideri, c’è sempre il timore di esporsi. di rendersi attaccabili. Manca una vera fiducia di fondo.

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Ravelstein (Saul Bellow)

La prossima volta che compro un libro su Amazon, ricordatemi di non andare al risparmio, o almeno di farlo controllando la lingua. Questo l’ho preso in spagnolo, e siccome io non butto mai via i libri, me lo sono letto in lingua straniera, il che non è il massimo per un romanzo con così pochi eventi.

Ravelstein è un professore ebreo di filosofia politica. Omosessuale, ammiratissimo dai suoi studenti, vecchi e nuovi, è al centro di una rete di contatti da far invidia ai più quotati PR presidenziali. Tutti si rivolgono a lui, e la sua linea telefonica è quasi sempre occupata perché riceve chiamate da tutto il mondo. Il suo giudizio è sempre tenuto in gran conto.

Ha vissuto al di sopra dei propri mezzi per gran parte dei suoi anni: amante dei lussi e della bella vita, riesce a concedersi entrambi solo dopo la pubblicazione di un saggio particolarmente apprezzato dal mercato.

A raccontarne la storia dopo la morte è Chick, suo grande amico di antica data.

Chick, di Ravelstein, ammira l’erudizione e la capacità di aver sempre un punto di vista originale su ogni argomento: non c’è da meravigliarsi che venga consigliato anche da ex alunni che sono diventati personaggi influenti nella politica nazionale ed internazionale.

Ma accanto a Ravelstein e Chick girano altri personaggi interessanti: ex mogli, ex filo-nazisti, espatriati… E le conversazioni che si sentono nell’appartamento di Ravelstein non sono mai banali.

Come dicevo all’inizio, non ci sono molti avvenimenti nella vita di questo dotto professore. Tutto è incentrato sull’amicizia: Chick, quando si deciderà a scrivere la biografia di Ravelstein, non si occuperà delle sue teorie filosofiche, ma dell’uomo con cui si intratteneva così piacevolmente, tanto che anche dopo la sua morte continua a discutere di lui, come se fosse ancora vivo.

Avendolo letto in spagnolo, è probabile che mi sia persa alcune delle finezze retoriche in cui incorrevano i loro discorsi, ma anche così credo di essere giunta al nocciolo del messaggio: per diventare amici, un elemento essenziale è la conversazione, il dialogo, lo scambio pacifico di opinioni.

Elementi che continuano ad essere di scarsa qualità oggigiorno.

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La simmetria dei desideri (Eshkol Nevo)

Amichai, Yuval, Churchill e Ofir sono quattro amici che alle finali di calcio del 1998 decidono di scrivere su dei foglietti i propri desideri, per vedere se, dopo quattro anni, ai successivi mondiali, alcuni di questi si saranno realizzati.

La storia è narrata in prima persona da Yuval, introverso e di formazione anglosassone, ma già dall’inizio sappiamo che gli è successo qualcosa: il libro infatti è scritto da lui, ma è Churchill a farne la prefazione e la postfazione, accennando al fatto che Yuval si trova in una condizione in cui non può occuparsi della revisione finale.

I quattro amici sono molto diversi tra loro.

Ofir è un pubblicitario che odia la materialità del suo lavoro e sogna di diventare uno scrittore: ha sempre avuto un rapporto controverso col padre e i suoi tentativi di riavvicinamento non sono mai andati a buon fine. Finirà in India, e questo gli cambierà la vita.

Amichai è l’unico sposato del gruppo e ha due gemelli piccoli. Sua moglie, che gli amici chiamano Ilana la Piagnona, è psicologa e insegna all’università, ma i quattro amici non la fanno partecipare ai loro incontri. Il suo desiderio è quello di aprire uno studio di terapie naturali.

Churchill è avvocato con obiettivi molto chiari ed è il più affascinante del gruppo: è lui che ha fatto conoscere i quattro amici ed è un leader nato. E’ così affascinante che porterà via la ragazza a Yuval. Il suo sogno è quello di seguire, prima dei successivi mondiali, una causa importante che possa cambiare le cose in Israele.

Yuval è sempre controllato, ma le idee sul suo futuro sono poco chiare.

L’autocontrollo, che ha caratterizzato le relazioni familiari in casa nostra, in me si è trasformato in apatia generale.

L’unico desiderio che riesce ad esprimere riguarda la sua ragazza, Yaara, quella che poi gli verrà soffiata da Churchill. Sta cercando di finire la sua tesi in filosofia, e ogni tanto ne leggiamo un paio di pagine: riguarda i filosofi che hanno cambiato idea, che hanno fatto un dietro front plateale nelle loro teorie.

E in effetti il cambiamento è uno dei temi del romanzo.

Tutti i protagonisti cambiano, cambiano così tanto che i desideri che avevano espresso ai mondiali del ’98 sono completamente stravolti: si realizzeranno, ma non come avevano immaginato.

Sullo sfondo, Israele, sempre più violento e incomprensibile per i suoi stessi giovani.

Ma anche Israele cambia, come fa notare una giudice che comparirà nelle ultime pagine del libro. Israele diventa sempre più violenta, e questa violenza ricade sul gruppo degli amici. In questo contesto, si fa centrale una teoria esposta da Churchill, la teoria dei trecentosessanta gradi:

“Chiunque cambi in modo estremo finisce col compiere un giro completo e tornare a essere se stesso”.

Come se Israele, esplicitando la violenza, esprimesse il potenziale iniziale di un paese che è tale solo perché si è imposto sugli abitanti di una terra già abitata.

Ovviamente, questo è anche un romanzo sull’amicizia, e ne analizza le profondità facendoci vedere come quattro personalità così diverse tra loro riescano ad intrecciarsi le une alle altre nel corso degli anni, pur sottostando alla legge del cambiamento che li investe dentro e fuori.

Un bel libro, con personaggi credibili e approfonditi.

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Il piccolo libro del superamento personale – Josef Ajram

La mia traduzione del titolo farà acqua come le cascate del Niagara, ma credo che il senso si capisca.

Josef Ajram è nato da madre spagnola e padre siriano. E’ un’autorità in Spagna per il suo lavoro in borsa, ma è anche molto conosciuto come atleta (bici, triathlon e ultra-competizioni).

Non ho letto il primo libro sul superamento personale. Questo ha due idee fisse (ma fisse nel modo giusto, non così esageratamente fisse da rendere noiosa la lettura): l’eccessiva dipendenza dai social e la caducità della vita umana.

Ajram è uno che raccoglie frasi e massime in giro per il mondo, dai libri, dalle pareti dei bagni pubblici, dai graffiti sui tavolini delle birrerie ecc… se le segna e ci riflette su. Questa è una raccolta di tali frasi con le relative riflessioni.

E’ difficile che un libro del genere dica davvero qualcosa di nuovo nel panorama del self-help, ma è una lettura piacevole e – a suo modo – utile, perché le verità più semplici e profonde sono quelle che ci dimentichiamo più spesso.

Dunque eccovi solo alcune delle massime che Ajram si è appuntato (non riporto i nomi di chi le ha pronunciate, è il contenuto che conta, non la fonte):

  • Preoccupati più del tuo carattere che della tua reputazione. Il tuo carattere è ciò che sei davvero. La tua reputazione è solo ciò che gli altri credono tu sia.
  • La felicità si raggiunge quando ciò che pensi, che dici e che fai sono in armonia.
  • Non puoi cambiare il tuo passato, ma puoi sempre dargli un nuovo significato.
  • Inciampare non è un male; arrabbiarsi con la pietra, sì.
  • Se stai cercando la persona che cambierà la tua vita, dà un’occhiata allo specchio.
  • Distacco non significa che tu non debba possedere nulla; significa che tu non sia posseduto da nulla.
  • Passare del tempo con i bambini è più importante che spendere soldi per i bambini.
  • Devi smettere, non sei capace. – Se smetto non sarò mai capace.
  • Essere una brava persona non costa nulla.
  • Vale la pena vivere? Tutto dipende da chi vive.
  • Disapprendere la maggior parte delle cose che ci hanno insegnato è più importante che apprendere.
  • Ci sono tre strade che portano alla saggezza: la imitazione è la più facile; la riflessione è la più nobile; e l’esperienza la più amara.

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Non lasciarmi – Kazuo Ishiguro @repubblica

Inghilterra, tardi anni Novanta.

Ma non sono gli anni Novanta veri: ci troviamo in una distopia, nel racconto di una realtà alternativa.

A parlare è Kathy, che è assistente dei donatori. Donatori di cosa? Perché hanno bisogno di assistenza? Il mondo di questo libro è cupo, senza speranza, ma Kathy e i suoi amici lo capiscono solo una volta cresciuti.

E’ lei a raccontarci la loro infanzia alla scuola di Hailsham: un’infanzia protetta, ma isolata dal mondo esterno, perché gli studenti sono “speciali”, sono nati con uno scopo specifico. Non hanno genitori, non hanno cognome, e si parla del loro destino solo in termini fumosi.

I ricordi di Kathy non sono niente di speciale, ma acquistano unicità in forza del futuro che si prospetta alle porte. Per lei sono importanti, le danno delle radici, ma per altri, per Ruth, ad esempio, sono anche fonte di una nostalgia troppo forte, tanto che a volte finge di aver dimenticato molti piccoli accadimenti.

Di fronte al destino che aspetta tutti questi giovani, l’aspetto che mi ha colpito di più è la loro rassegnazione. Non ci sono segni di ribellione: accettano di diventare donatori, e solo alcuni scelgono la strada dell’assistenza (che comunque sfocerà nella donazione).

Ci sono pettegolezzi, chiacchiere: a volte qualcuno parla di possibilità di rinvii, con l’arte, con l’amore, ma non c’è niente di vero. Il “completamento del ciclo”, come viene chiamata la morte, è ciò che li aspetta.

Non ci si può fare nulla…

Per questo il romanzo è una grande metafora. E se è vero che niente, né l’arte né l’amore né il sesso possono posticipare il completamento del ciclo, è anche vero che l’infanzia e la gioventù di Kathy sono state piacevoli e meritavano di essere vissute.

Non è un libro che arriverà nella top ten dei miei preferiti (atmosfere e sentimenti troppo rarefatti, molto giapponesi, per intenderci), però merita di essere letto.

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Bisogno di libertà, Bjorn Larsson @iperborealibri @casalettori

Tutti vogliono la libertà.

Ma…

a) pochi sono disposti a sopportare la responsabilità che ne deriva e…

b) pochi sono disposti a sopportare le persone davvero libere.

Ho fatto questa premessa perché il punto b) cade a pennello con Larsson. E’ un libro che di per sé è un atto di libertà, perché non si lascia catalogare: nelle biblioteche si potrebbe trovare sotto la voce “autobiografia”, ma la definizione è imprecisa.

Perché qui Larsson ci parla del suo rapporto personale, personalissimo con la libertà; e, tanto per darci un pugno in faccia, nella prima pagina ci mette subito davanti alla morte del padre, avvenuta per un naufragio quando l’autore aveva sette anni. E’ un atto di libertà ammettere (confessare, quasi) che questo evento non gli ha provocato la tristezza e la disperazione che ci si aspettava da lui.

Volete altri esempi dell’ecletticità del personaggio?

E’ finito tre volte in prigione (per un totale di circa cinque mesi) per renitenza alla leva.

Alle elementari è andato a scuola per un periodo con la cravatta. =ra che è adulto, non la indossa mai, per principio, perché odia ogni forma di divisa; e se gli capita di essere invitato a kermesse o cene in cui la cravatta è d’obbligo, bè, semplicemente, non ci va.

Ha rifiutato una borsa di studio negli Stati Uniti per diventare oceanografo, sebbene gli piacesse molto la materia: non gli piace il modello di vita americano. Ha trascorso un anno negli States, e gli è rimasto impresso come, a scuola, si studino solo la storia e la geografia americane, mettendo le basi per un nazionalismo della peggior specie.

Per Larsson, è essenziale non fare “come gli altri”, spostarsi spesso, cambiare prospettiva… per lui, tutto ciò è necessario al fine di non addormentarsi, di evitare l’abitudinarietà, di vivere, insomma.

Però, attenzione: se un personaggio così è da ammirare per le scelte che compie, non credo sia facile viverci assieme (e lui lo ammette). Se ne sono accorte soprattutto le sue compagne. Un esempio? Se uno ti dà un appuntamento e poi non si presenta, e non ti avvisa (il cellulare ce l’ha, ma spento), solo perché gli è passata la voglia di vederti… bè, ecco, io Larsson preferisco incontrarlo sui libri, e non frequentarlo di persona!!

E ora vi lascio un po’ di citazioni, perché ce ne sono davvero tante che meritano di essere incorniciate:

Ho imparato che spostarsi non è pericoloso, che si può vivere bene ovunque, che le amicizie perse sono rimpiazzate da amicizie guadagnate.

Per essere liberi dobbiamo sapere dove siamo.

Gran parte di coloro che sbandierano la loro differenza in maniera ostentata e provocatoria , rientreranno nei ranghi.

Senza sogni, la libertà è solo un miraggio.

La frenesia del consumo è un nemico pericoloso per chi vuole soddisfare il suo bisogno di libertà.

Dove la libertà è più difficile da realizzare e da vivere è nella quotidianità, nella famiglia e nel lavoro.

E’ la fantasia che rende gli uomini umani.

pocha)a)

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Le lacrime di Nietzsche, Irvin D. Yalom @NeriPozza

Bel libro: mi sento di suggerirlo a tutti gli amanti dei romanzi, non solo a chi si interessa di psicanalisi e filosofia.

Yalom, psichiatra e scrittore, parte dai dati anagrafici, reali, di personaggi storici (Nietzsche, Lou Salomè, Breuer, Sigmund Freud…) per farne un romanzo di fantasia, ma senza mai allontanarsi dalla verosimiglianza dei caratteri per quanto se ne può trarre da testi e testimonianze scritte; tranne forse nel caso di Lou Salomè, che difficilmente si sarebbe sentita in colpa per aver rifiutato di sposare Nietzsche, almeno al punto da ricorrere a un medico per aiutarlo. Ma non c’è rischio di confondere fantasia e realtà, perché l’autore alla fine ci spiega cosa ha inventato e cosa no.

Le malattie (o la malattia) di Nietzsche sono un mistero clinico difficile da svelare. Breuer, nel romanzo, dandone un’interpretazione, quasi giunge a una forma di guarigione: e se non ci giunge del tutto, questo dipende da Nietzsche. Ma non posso dirvi di più, altrimenti svelo troppo.

Quello che posso dire, è che nel romanzo è ben delineata l’amicizia che nasce tra il filosofo e il medico, nonostante i blocchi emotivi di entrambi; e sebbene il rapporto medico-paziente venga rivisto in modo originale – ribaltato, direi –  alla fine entrambi riescono a imparare qualcosa su se stesso e sull’altro. Merito della logoterapia, la terapia della parola, che riesce non sono a creare un’amicizia, ma anche a farci conoscere personaggi storici nel loro carattere, nei loro pregi e difetti (perché, diciamolo, Nietzsche aveva dei problemi con le donne…).

L’insegnamento generale che ne ho ottenuto, però, non è tanto nozionistico: non gira attorno alla storia del pensiero o della filosofia. L’insegnamento che si ottiene da questo libro è che nella solitudine non si guarisce.

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Stoner – John Williams

Me lo hanno consigliato così spesso, che alla fine l’ho comprato e letto.

Mi incuriosiva perché tutti quelli che, entusiasti, me ne parlavano, ammettevano che la storia in sé era piuttosto scarna, tanto che nessuno era stato capace di farmene un riassunto. I booktubers, poi, sono tutti estasiati dal libro, ma pochi ti dicono di cosa parla davvero (d’altronde, devo ammettere che la profondità della maggioranza dei booktubers italiani lascia un po’ a desiderare). Eppure tutti erano concordi che questo è un gran romanzo.

Dunque: l’intreccio è scarso, è vero. William Stoner è un professore di letteratura che conduce una vita povera di eventi. Si sposa e poi si accorge che lui e sua moglie non si amano. Si innamora di un’insegnante e ne diventa l’amante per poco più di un anno, ma poi devono dividersi perché la notizia ha cominciato a diventare pubblica. Ha un disaccordo importante con un altro professore che lo ha preso di mira per una stupidaggine e che, una volta fatta carriera, gli mette tutti i paletti tra le ruote. Alla fine, muore di tumore.

Stoner è un tipo tranquillo, con poche passioni: la letteratura è una di queste. Raramente prende decisioni eclatanti, preferisce tacere per quieto vivere. A volte ti lascia basito, da quanto è amorfo. Lui stesso ammette di avere deboli capacità di introspezione, e forse sono queste a renderlo apparentemente debole e privo di iniziativa.

Sembra che preferisca soggiacere alla sua personale natura e alle circostanze.

Ma quale è il tema del libro? Credo ce ne sia più d’uno.

Innanzitutto: l’incomunicabilità. Lui e sua moglie non si spiegano. Non si dicono quello che pensano l’una dell’altro. Ma lo stesso Stoner fa con la maggior parte dei suoi colleghi, dando tutto per scontato oppure rinunciando in partenza ai chiarimenti. Forse questa incomunicabilità deriva in parte dalla sua debole capacità di introspezione, ma questo è un dato che interseca quasi tutti i personaggi del romanzo. Non è un caso che, ad esempio, sia lui che sua moglie spesso dicano “credo di volere”. Ma anche sua figlia Grace si lascia andare senza prendere l’iniziativa, diventa un’alcolizzata, perde il figlio…

Nonostante la vita priva di rilievo, Stoner mi appare come un piccolo eroe che cerca di tirar avanti come può, date le circostanze e la sua natura personale. Tende alla passività, e trasmette questa tendenza alla figlia Grace, ma quelle volte che si risveglia dal suo sonno emotivo, sono le volte in cui tu, che leggi, ti svegli con lui e pensi: forse stavolta gli va bene, forse stavolta ce la fa. E invece no.

Stoner muore come è vissuto. Si può parlare di evoluzione del suo carattere? Non mi pare. Però… noi, esseri umani in carne ed ossa, evolviamo sempre? O piuttosto le nostre vite non sono fatte da passi avanti, passi indietro e soste (molte soste)? E poi: noi sappiamo sempre perché ci comportiamo in un certo modo? Capiamo sempre le motivazioni degli altri?

E poi, i piccoli fallimenti… Ad esempio: Stoner si accorge di amare immensamente la letteratura, ma per gran parte della sua vita di insegnante, è un insegnante mediocre. Oppure; Lomax, l’insegnante che gli renderà la vita così difficile, all’inizio lo incuriosisce; Stoner avrebbe voluto conoscerlo meglio, conversare con lui. Ma non lo fa. Per tutta una serie di motivi, non lo fa. E il rapporto va in una direzione invece che in un’altra. Quante volte è capitato a voi? A me non spesso, ma quelle volte ce le ho ben impresse in testa.

 

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Il pane di Abele – Salvatore Niffoi

Questo romanzo incarna in sé tutti e tre gli stati della materia. È solido, perché porta al suo interno un nocciolo che non muta col tempo e con lo spazio (l’amicizia, il tradimento…); è liquido, perché si adatta e prende la forma del luogo in cui è ambientato (la Sardegna barbaricina); è gassoso perché piccole frasi – piccole quasi come molecole – si staccano dalle pagine per andare a toccare temi molto più vasti, lontani dall’apparentemente facile trama.

Però io, che manco totalmente di cultura letteraria, senza l’aiuto di un Gruppo di Lettura, avrei travisato il titolo…

Pensavo che Abele fosse Nemesio, perché alla fine si prende una pallottola dall’amico fraterno Zosimo; e credevo che il pane fosse la Sardegna, quel coacervo di passioni, abitudini, paesaggi, parole e magie, che lo avevano nutrito durante la giovinezza; tanto che, nel momento in cui se ne era allontanato e si era dato al diverso pane morale del continente e della politica, erano germogliati in lui quei semi bacati di tradimento e falsità.

Invece l’interpretazione del Gruppo è più azzeccata.

Abele in realtà è stato personificato da Zosimo, perché è lui che è stato ucciso dal voltafaccia della moglie e dell’amico. Mentre il pane di cui si è nutrito era l’illusione che tutto andasse bene, nonostante i presagi di sventura gli girassero attorno come mosche cavalline.

Ed ecco un’altra riflessione che non mi sarebbe venuta in mente senza un appunto del Gruppo… durante la lettura quasi mi infastidiva il continuo utilizzo di parole sarde, perché il glossario alla fine è solo parziale. Ma un’altra lettrice ha detto: Niffoi lo ha fatto apposta. Ed è vero: un bravo scrittore non lascia nulla al caso; non ci ha dato un glossario completo perché, mancandoci il significato preciso di alcune parole, restassimo col senso di mistero e di lontananza; una lontananza che, per quanto mitigata da un glossario minimo, è inevitabile per chi non è nato e vissuto in Sardegna.

Insomma: chi lo ha detto che la lettura è un hobby solitario? È solitario per necessità, perché qua c’è poca gente che legge. Ma in un mondo ideale… (d’altronde, la lettura solitaria è un’invenzione abbastanza recente).

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The Tender Bar, a memoir – J.R. Moehringer

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Questa autobiografia è uscita in Italia col titolo “Il bar delle grandi speranze”.

Mi è piaciuto? Sì, ma in modo altalenante.

Trovo sempre un po’ fastidiosa una narrazione che riguarda la dipendenza. Da alcool, da fumo (che fastidioso “La coscienza di Zeno”!), dagli altri.

Il fulcro di questo libro è il bar, in cui il protagonista trova quelle figure maschili che non ha trovato in famiglia perché suo padre se ne è andato di casa appena lui è nato. Ma il bar diventa, appunto, una dipendenza: non si entra là se non bevi e se non fumi. E soprattutto, J.R. si ritrova a pensare a questo luogo come punto di riferimento: non gli può succedere niente senza che lui non si veda nella sua testa mentre va al bar a raccontare ai suoi amici cosa è successo e cosa succederà. Va bene l’amicizia, ma svegliati, ragazzo mio.

Un’altra dipendenza è suo padre. Non capisco la fissazione di J.R nel cercare continuamente suo padre: pazienza da piccolo, quando ancora non capisci cosa ha fatto (ha minacciato di morte sua madre un paio di volte e non ha voluto saperne di spillare un soldo, lasciando ex moglie e figlio in condizioni piuttosto critiche), ma da grande? Come puoi ancora cercare una persona che ti delude fino alla nausea e che non affronta minimamente le sue responsabilità? Sì, magari la cerchi… ma per metterla sotto con la macchina! Stessa cosa con il suo primo amore: è una che tiene i piedi in due scarpe, e non lo nega neppure, ma si giustifica dicendo che non è ancora matura, che il suo passato l’ha portata a quel punto ecc…. fatti curare! E pensare che gente così esiste davvero. Anche in Italia.

Incomprensibili, poi, per me che l’ho letto in inglese, le parlate di molti amici del bar: gergo? Balbettio? Onomatopee? Biascicamenti da ubriachi? Me lo sto ancora chiedendo.

Molto dolce e protettivo invece il rapporto che J.R ha con sua madre e molto istruttivi i suoi alti e bassi con l’università e col lavoro: aspetti di vita in cui ci si può anche identificare.

Ma la parte che mi è piaciuta di più, è l’incontro con Bill e Bud, due tipi strani che “gestiscono” una libreria stando sempre rinchiusi in uno sgabuzzino perché devono leggere. Quando capiscono da che parte va zoppo il protagonista e che nessuno lo ha mai guidato nella scelta dei libri, fanno a gara per regalarglieli (prendendoli dalla libreria in cui lavorano, e che non è la loro, ma togliendo le copertine, perché quelle vanno restituite alle case editrici per il rimborso degli invenduti). Ma perché io non incontro mai gente così? Qui in Italia già è difficile trovare gente che legge molto; se poi la trovi, di solito sono sboroni che ti guardano dall’alto in basso perché sono “specialisti” della letteratura (e se ci sono le eccezioni, è perché confermano la regola).

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