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True (Mike Tyson) @EdizPiemme

Ecco un tipo che non potrei mai frequentare. E non perché mi faccia paura: semplicemente perché non è una bella persona (con tutte le giustificazioni che può tirare in ballo per via della sua infanzia da povero).

Il padre è sparito dall’orizzonte familiare fin da subito. La madre è scesa sempre più in basso, finendo con l’abitare in edifici destinate alla demolizione e passando da una relazione disfunzionale all’altra.

Tyson ha iniziato a frequentare brutte compagnie fin da subito e a sette anni già accompagnava gli amici a fare furtarelli per gli appartamenti. A dieci anni il primo arresto. E’ semianalfabeta e non capisce niente a scuola, così iniziano a dargli medicinali per curare presunte disfunzioni mentali/emotive.

La sua vita prende una via diversa quando va a vivere da Cus, un settantenne che si è improvvisato allenatore di box e che lo prende sotto la sua ala protettiva: gli infonde fiducia, gli dà uno scopo. Peccato, però, che, per far questo, nutre talmente tanto il suo Io che aumenta la sua già ben avviata predisposizione alla sbruffonaggine.

Tyson affronta il suo primo match da dilettante a 14 anni e si fa subito notare: da là in poi, è una sfilza di vittorie, fino a diventare il più giovane campione del mondo dei pesi massimi a vent’anni.

Se da un lato è pazzo per la boxe, si allena senza risparmiarsi, legge libri e guarda video di pugili del passato, dall’altro non sa stare al mondo.

Le donne sono un problema: le tratta come strumenti da sesso. Le palpeggia, fa commenti spregevoli, va a letto con tre o quattro donne a notte e poi le manda via a male parole. Questa è la sua modalità di comportamento, non riesce a farne a meno.

Senza parlare della sua ammirazione per uomini che lui considera “forti”, e che invece vivono solo di furti, spaccio, sfruttamento della prostituzione. Vorrebbe avere il loro carattere, cerca di imitarli.

Grazie alla boxe accumula milioni e milioni di dollari, che spende senza alcun controllo: gioielli per sé e per gli amici (a volte anche per i barboni che incontra per strada), ville stratosferiche sparse per tutti gli stati uniti (dove tutto è firmato Versace: ma proprio tutto), cocaina, stranezze varie (tra le quali, non si possono dimenticare i cuccioli di tigri e leoni), auto di lusso.

Finisce in galera per lo stupro di Desiree Washington, anche se si dichiarerà sempre innocente.

Ma sapete una cosa?

Innocente o no, gli sta bene. Prima o poi doveva trovare quella che gliela faceva pagare anche per tutte quelle che sono state maltrattate.

In prigione diventa musulmano, e dopo centinaia di pagine di parolacce e apologia di vari reati, il passaggio a parole tipo “amore universale” e “veganesimo” sa tanto di “ho finito i soldi e devo rendermi interessante per vendere il libro”.

Sì, perché nonostante i milioni guadagnati con la boxe, alla fine lui è diventato “povero”. O almeno così si definisce. Ma non so quanto obiettivo sia uno che dice

“Ero a corto di soldi, quindi vendetti sessantadue macchine”.

Tyson è insomma una persona che nasconde la sua insicurezza dietro un muro di aggressività. E’ uno che è capace di staccare un orecchio a morsi ma che non è capace di controllarsi e dire no a una bottiglia di alcool, a una notte di bagordi con sette donne o a una striscia di coca; e quando ci riesce, le ricadute sono dietro l’angolo.

Ha una sfilza di figli avuti quasi tutte da donne diverse: se non mi son persa passaggi, a volte compare il nome di un figlio e prima non ha neanche mai nominato la madre, come se fosse irrilevante…

Con tutte le giustificazioni del mondo, come faccio a farmi piacere un tipo del genere?

Ho letto la biografia perché, non avendo la TV, l’ho sempre sentito nominare, ma ne sapevo poco. E ora che l’ho letta, mi innervosisco perché…

… Non sono i soldi che mancano nel mondo. Sono solo mal distribuiti. Ma tanto, ma tanto male.

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Prostituzione, alcolismo, droga e altre dipendenze

Il tentatore non “mette alla prova”, ma “commette un reato”, e il tentato che cede non è un “colpevole”, ma gode dell’innocenza della “vittima”.

La prostituta in quanto tentatrice è perseguitata dalla legge, mentre il cliente, in quanto cede a una forza a cui non può resistere, è innocente.

Ma perché questa sociologia che fa tesoro delle scoperte scientifiche mantiene la categoria mitico-religiosa della tentazione per lo spacciatore e per la prostituta, e adotta invece la categoria psico-biologica della forza irresistibile per il drogato e il cliente della prostituta?

Per sottrarre al drogato e al cliente anche la sola ipotesi di avere a disposizione la libertà dell’autocontrollo, perché solo persuadendo gli uomini che non si possono autocontrollare si può esercitare su di loro il controllo esterno a cui il potere per sua natura e per sua essenza tende.

(U. Galimberti (“L’ospite inquietante”)

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Pastorale americana – Philip Roth @CasaLettori

Nathan Zuckerman, l’alter ego di Philip Roth che ritroviamo anche in altri romanzi, da giovane è stato un fan silenzioso dello Svedese, un giovane ebreo bello, bravo, gentile, benestante. Per Zuckerman e per molti altri, lui era un modello da imitare: per anni ed anni Zuckerman è vissuto col ricordo di un episodio in cui lo Svedese, semplicemente, gli ha rivolto la parola, tirandolo fuori dal limbo dell’inesistenza in cui vivacchiava.

Per questo, quando, ormai sessantenne e con un’operazione alla prostata alle spalle, riceve una lettera dello Svedese in cui gli chiede di incontrarlo, Zuckerman va in fibrillazione. Nella lettera il suo idolo gli ha anticipato che vuole parlargli di alcuni fatti che hanno amareggiato la vita al padre, ma quando si incontrano, al ristorante, nessuno dei due trova il coraggio per entrare in argomento.

Solo qualche mese dopo Zuckerman viene a scoprire che lo Svedese è morto di tumore. E’ il fratello dello Svedese, a raccontarglielo e ad accennargli del dramma che aveva sconvolto la sua famiglia: l’amatissima figlia, lasciatasi trascinare dall’odio contro la guerra nel Vietnam, aveva messo una bomba in un ufficio postale uccidendo una persona innocente.

Ma la trama, come in tutti i libri di Roth, è solo una scusa: i temi vanno al di là degli atti di terrorismo. Qui si parla di America, del sogno americano e della delusione che questo sogno ha causato. Si parla di concorsi di bellezza e di baseball, delle aspettative e dei problemi che ne derivano; si parla di ricerca di senso nella religione e nella morale; si parla di incomunicabilità all’interno della famiglia e della cerchia degli amici più stretti; si parla dell’impossibilità di conoscere davvero un essere umano; e si parla dell’America.

Philip Roth, come i suoi personaggi, si è sempre sentito americano: ebreo sì, ma integrato, e felice di vivere nel suo paese. Ciò non gli ha impedito (e non ha impedito ai suoi personaggi) di accorgersi delle contraddizioni: del razzismo, ad esempio, strisciante o apertamente dichiarato; ma anche dell’incapacità di trovare un senso nel benessere materiale.

Una volta gli ebrei cercavano di sfuggire all’oppressione; adesso scappano da dove l’oppressione non esiste. Una volta scappavano perché erano poveri; adesso scappano perché sono ricchi.

Prendiamo lo Svedese: visto dall’esterno aveva tutto ciò che un americano può desiderare per sentirsi soddisfatto, a partire dall’azienda bene avviata, fino alla moglie ex reginetta di bellezza. Si è sempre dato da fare, si è sempre sentito responsabile per la famiglia e l’azienda e il suo paese, è sempre stato attento a non offendere chicchessia; eppure, gli capita questa mazzata tra capo e collo.

E chi è il colpevole? Lo Svedese analizza tutta la sua vita, quasi giorno per giorno, in cerca del suo peccato originale, ma non c’è niente che possa essere considerato come la causa scatenante delle sue disgrazie. E di questa mancanza di una ragione lui non riesce a capacitarsi.

Eppure, nell’occhio del ciclone, ancora si sforza per tenere insieme i cocci:

Sua figlia era una folle assassina che si nascondeva sul pavimento di una stanza di Newark, sua moglie aveva un amante che fingeva di scoparla sopra il lavandino della cucina, la sua ex amante aveva portato coscientemente la sua famiglia al disastro e lui stava cercando d’ingraziarsi suo padre spaccando il capello in quattro.

La visione generale è cupa, è vero, ma Roth non cerca soluzioni. Il romanzo stesso termina senza aver chiuso tutti i fili narrativi (ad esempio manca tutta la storia dello Svedese con la seconda moglie, e non si sa nulla di come finisce davvero la figlia).

Perché mi è dunque piaciuto questo romanzo?

Innanzitutto per la prosa così ricca, mai banale. E poi perché ad ogni riga c’è una piccola verità: tanti, tanti dettagli, sia psicologici che ambientali. Pastorale Americana è un quadro che puoi restare a osservare per ore, scoprendo sempre qualcosa che non avevi notato prima.

I dettagli sono così tanti che è impossibile non trovarne alcuni che si adattano alla tua vita.

Alla fine dici: bè, sì, anche io sono un po’ Svedese. O sono un po’ sua moglie, o sua figlia, o suo padre. O mio padre è come suo padre, o la mia vicina di casa è come sua figlia, o, o…

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La ragazza del treno – Paula Hawkins

Tanto nominato quanto scontato… così imparo a leggere libri troppo pubblicizzati!

Farò un po’ di spoiler, ma il romanzo è così scadente che perfino io – nota a livello internazionale per l’incapacità di scoprire i colpevoli – ho capito chi aveva fatto cosa.

La storia della ragazza che passa in treno davanti alla casa del suo ex marito – e che per caso entra in contatto con la scomparsa e l’assassinio di una donna – è piena di COINCIDENZE: ebbene, quando le coincidenze fioccano come pop-corn, subiscono una metamorfosi e diventano punti deboli.

E’ un caso che Rachel si sia fissata a guardare proprio una coppia la cui casa dà sulla ferrovia; è un caso che la donna della coppia fosse la baby sitter della figlia del suo ex marito; è un caso che proprio quella donna scompaia; è un caso che proprio la sera della scomparsa Rachel fosse nei paraggi…

Un ulteriore elemento che fa scadere il libro è l’amnesia alcolica. Banale, banale, banale. Rachel non ricorda cosa ha fatto la sera del crimine. Non solo: non ricorda neanche tutte le volte in cui si ubriacava quando era sposata, e si è costruita una versione del proprio matrimonio che si rivelerà fallace.

E continua a ricaderci, a bere, a decidere di smettere e a ricominciare di nuovo fino a stordirsi: ma fatti curare, cazzo!

Volete un’altra banalità?

Rachel, osservando questa coppia apparentemente perfetta dal finestrino del treno, si è fatta le sue favolette mentali, tanto da dare dei nomi fittizi ai due protagonisti. Ma dopo la scomparsa della donna, si mette in contatto col marito. Bè, dopo due incontri in cui i due praticamente neanche si dicono il nome, finiscono a letto insieme. Ma… erano ubriachi, ovvio!

Di sicuro questo romanzo non avrebbe potuto essere ambientato in una comunità mormona.

Salviamo qualcosa?

Certo.

Megan, la donna che scompare, è (tra le altre cose) annoiata: credo che la sua noia sia stata ben resa e che abbia assunto un ruolo abbastanza verosimile nel decorso dei fatti.

Altro aspetto da salvare: Rachel sente una forte spinta a immischiarsi nella scomparsa di Megan perché l’ha vista con un uomo diverso dal marito. Questo le fa rivivere – ancora e ancora – il tradimento del suo uomo, dal quale non riesce a risollevarsi.

Esistono persone così, che sono emotivamente invischiate nel proprio passato tanto da vedere le storie altrui in modo del tutto sfalsato? Sì, esistono.

Ultimo aspetto da salvare: il parallelismo tra Rachel e Megan. Sono entrambe senza direzione, senza un senso che possa mostrare loro strade alternative alla tragedia.

Esistono persone così? Sì, esistono, e questa verosimiglianza salva il romanzo; ma lo salva nonostante la trama da thriller privo di consistenza, un thriller che non ci dà nulla di nuovo.

Voto: 2,5/5.

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Il cardellino, Donna Tartt @casalettori

892 pagine e non sentirle!

Il romanzo racconta la storia di Theo Decker, che a 13 anni perde la madre in un attacco terroristico in un museo. Lui sopravvive miracolosamente, e in quegli attimi di confusione e paura succedono altre due cose che lo segnano per tutta la vita: tiene la mano al signor Welty, che sta morendo, e si porta via il quadro del Cardellino, un’opera dal valore inestimabile e che sua madre amava tantissimo.

E’ morta per colpa mia. Gli altri sono sempre stati fin troppo solerti nell’assicurarmi che, andiamo, ero solo un bambino, chi avrebbe potuto immaginarlo, un terribile incidente, maledetta sfortuna, sarebbe potuto accadere a chiunque, tutto assolutamente vero, ma io no ho mai creduto a una sola parola.

La grandezza del romanzo, però, non è tanto nella storia, che ha i suoi colpi di scena, ma nella nostalgia che lo permea ad ogni pagina.

Theo, dopo la morte della madre, prende quella che noi definiremmo una brutta strada: si dà alle droghe e al bere insieme al suo amico Boris. Rischia grosso quando un malvivente scopre che lui è in possesso del quadro (ma lo è davvero?? Non faccio spoiler), e finisce per perdere anche il padre, che aveva già perso da piccolo (aveva abbandonato moglie e figlio) e che… bè, scusate, mi fermo qui, rischio di raccontarvi tutto.

Anche da giovane adulto, Theo continua a chiedersi cosa sarebbe successo quel giorno al museo se… se… se… Questa domanda salta fuori spesso, e ci coinvolge tutti, perché tutti prima o poi ce lo chiediamo, sbaglio?

Eppure, alla fine Theo giungerà alla conclusione che è una domanda sbagliata.

Ma vi lascio il piacere della scoperta… Leggetelo!

Potete acquistarlo a questo link affiliato Amazon 

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Eppure cadiamo felici, @Enricogaliano @garzantilibri

E poi dicono che la macchina del tempo non esiste…

Sì, che esiste, basta leggere un libro ben scritto che ti fa rimettere nei panni che indossavi a 15, 16, 17 anni. E’ quello che ha fatto Galiano, e se è stato inserito nella lista dei migliori insegnanti nel 2015, un motivo c’è: sa capire il casino che regna nella testa degli adolescenti. Ve lo ricordate? Io pensavo di essermelo dimenticato, e invece è ancora tutto là nella mia testa, mi è bastato leggere questo romanzo per rievocarlo.

C’erano passaggi in cui mi sembrava che stesse raccontando la mia storia. Non tanto negli eventi vissuti dalla protagonista, ma nelle sensazioni descritte.

La confusione.

L’incapacità di dare un nome a certi stati d’animo.

La paura dell’esclusione.

Il bisogno di mettere tutto in dubbio.

Se c’è una cosa in cui ho trovato poco verosimile il libro, è che Gioia, la protagonista, fino ai diciassette anni non si è ancora interessata ai maschi, non ci ha ancora pensato. Prendersi una cotta a 17 anni è un po’ tardino, per gli adolescenti contemporanei, anche se Gioia è un po’… alternativa.

E’ comunque un libro molto bello: ad un certo punto sfiora il genere thriller, ti fa venire mille dubbi su quello che credi di aver intuito, perché non capisci più se tra Gioia e Lo è stato vero amore o se Lo ha dei problemi grossi…

E poi… Alzi la mano chi non si è sentito così:

Il brutto della faccenda è che è praticamente scritto che oggi, quando sarà a casa, quando ormai sarà troppo tardi, le verrà fuori preciso e perfetto il discorso che avrebbe dovuto fare alla Batta e alle sue amiche per spegnerle definitivamente.

Oppure, ditemi se non concordate in pieno con questa frase:

Il migliore dei mondi possibili è quello dove nessuno ha bisogno di tradurre sé stesso, per farsi capire dagli altri.

Ecco cos’è questo libro: una DeLorean.

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Home before dark – @susancheever

In Italia non si trova molto di John Cheever: questa sua biografia ho dovuto comprarla e leggerla in inglese. E’ scritta dalla figlia Susan, a sua volta scrittrice: l’avevo “incontrata” nella sua biografia di Louisa May Alcott, e mi era piaciuta molto.

Tuttavia, questo libro non mi ha appassionato allo stesso livello.

John Cheever non ha certo avuto una vita avventurosa, e riconosco le difficoltà che si possono incontrare nello stilare la vita di uno scrittore: uno scrittore scrive, non c’è molto altro da aggiungere!

Il resto della sua vita è stato segnato dalla normalità (qualunque cosa si intenda con questa parola), dalla famiglia, dai frequenti traslochi, dai suoi cattivi rapporti con la moglie, dalla sua omosessualità latente e dall’alcolismo.

Era una biografia dovuta, ma non posso definirla appassionante. E’ scritta bene, ma alla sera non tornavo a casa con la voglia di prenderla in mano per mettermi a leggere. Ammetto anche di aver saltato dei passaggi (più che altro descrizioni di paesaggi e di comuni visite tra vicini di casa). Nonostante questo, è comunque valsa la pena di leggere i passaggi in cui la Cheever racconta di come a tredici anni chiacchierava di libri con suo padre. Magari avessi avuto qualcuno con cui parlare di libri durante la mia adolescenza!

Cheever per gran parte della sua vita ha litigato con i soldi (o con la loro mancanza), con la moglie e con la bottiglia. Ha attraversato tutti gli stadi dell’alcolismo, e solo chi ha vissuto con un alcolizzato sa cosa significa. E’ rilevante il fatto che anche la madre di Cheever era alcolizzata. E anche la stessa Susan Cheever lo è stata (tanto che ha pure scritto un saggio sull’America e l’alcool).

Lasciatemi tradurre qui un paio di frasi che ho trovato alla fine del libro (by the way, perché i libri americani hanno questi interessantissimi inserti per i gruppi di lettura, con domande piene di spunti interessanti e interviste all’autore, e in Italia no??):

Mark Twain diceva che se non c’è scoperta per lo scrittore durante la scrittura di un libro, non ci sarà scoperta per il lettore. Scrivendo Home Before Dark ho scoperto che mio padre era bisessuale. Ho inoltre iniziato a capire il suo legame con l’alcool.

(…) Scrivo nella speranza che la mia esperienza in tutte le sue specificità possa aiutare altre persone – o perché possono riconoscersi in essa e sentirsi meno sole – o per altre ragioni.

 

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Il nostro caro Billy – Alice McDermott @Einaudieditore

Grande scrittrice, la McDermott.

Il romanzo inizia nel Bronx con una veglia funebre per Billy, il vecchio caro Billy, di cui tutti parlano un gran bene ma del quale, sottovoce per non farsi sentire dalla vedova Mauve, tutti ricordano il primo amore, Eva, l’Irlandese morta di tubercolosi nella terra natia prima che il loro sogno potesse realizzarsi.

La storia è narrata dalla figlia di Dennis, che è stato il miglior amico (nonché cugino) di Billy. Dennis però è anche il personaggio che ha, per così dire, creato il mito di Billy, perché è lui che ha comunicato all’amico la notizia della morte di Eva, molti, moltissimi anni prima. Ed è l’unico che per tutti quegli anni ha saputo che questa era una bugia: perché Eva non è morta di tubercolosi; no. Eva si è semplicemente tenuta i soldi che Billy le aveva mandato per tornare negli Stati Uniti e li ha utilizzati come acconto per l’acquisto di una stazione di servizio, dove è andata a stare col nuovo marito.

In cosa consiste il “mito” di Billy?  E’ il mito del primo amore, quello che non si scorda mai. Infatti, anche se Billy poi si sposa con Mauve, anche se non nominerà più Eva per il resto della sua vita matrimoniale, tutti sentono che lui è ancora legato a quel sogno; e tutti sanno, anche se non lo dicono, che Billy è diventato un alcolizzato e si è ucciso a forza di bere per colpa di quel sogno.

La bugia di Dennis viene rivelata subito nel primo capitolo, e la narrazione va avanti e indietro lasciandoci capire subito come finisce la storia di Billy; ma la bellezza del romanzo sta nell’alone di fascino che circonda questo protagonista (morto). Tutti vogliono credere in questa magia ambigua, che può darti tutta la forza del mondo, ma che può anche distruggerti se non riesci a imbrigliarla.

Durante la lettura mi è spesso venuto il dubbio: Billy è morto alcolizzato per colpa della bugia di Dennis? Mi sono risposta: no, l’autrice non voleva darci questa interpretazione. Perché le persone come Billy avrebbero trovato un’altra scusa per bere (un alcolizzato trova sempre una scusa per bere); Dennis ha creato un mito perché se avesse rivelato subito a tutti la verità, il loro mondo sarebbe stato un po’ meno bello.

Come mi sembravano tutti soli quella sera, i familiari e gli amici di mio padre: anime solitarie, tutti quanti, nonostante i mariti, i figli, i cugini e gli amici, con tutte le loro speranze, tutto quell’accoppiarsi e generare, quella mania di tenersi in contatto, di non perdersi di vista, tutto così vano alla fine, perché prima o poi tutti quanti erano costretti a rendersi conto che niente di ciò che avevano provato aveva cambiato le cose.

Questa secondo me è il periodo che illumina tutto il senso del romanzo: tutti sperano nell’amore come unico mezzo per dare senso alla vita, quella vita che alla fine tutti devono lasciare.

Consigliato.

 

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Sulla collina nera – Bruce Chatwin

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Ho iniziato a leggerlo perché nella biografia di Rushdie, Joseph Anton, l’autore diceva che questo è il romanzo migliore di Chatwin. Ed infatti è stupendo.

E’ la storia, ambientata in Galles, di due gemelli del secolo scorso, dalla nascita alla morte di uno dei due, ed è piena di personaggi delineati benissimo: ti sembra di averceli come vicini di casa, ti arrabbi quando ti ammazzano una pecora e ti dispiace quando gli crolla la baracca sulla testa.

Non ho molto da dire, perché ogni parola sarebbe un di più: leggetelo. Bello, bello, bello. Posso permettermi di consigliarvene l’acquisto sul link affiliato Amazon qui.

Sto anche leggendo “In Patagonia”, che però non mi prende come il romanzo sopra. Lo trovo spezzettato nello stile, non ci trovo un filo che leghi i vari momenti del viaggio. Non so, aspetto di finirlo e vi dirò.

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Camminando nell’ombra, Doris Lessing

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My job in this world is to write.

Questa presa di coscienza mi ricorda tanto una frase dell’autobiografia della De Beauvoir, anche lei donna, scrittrice, impegnata in politica, presa da viaggi e uomini. Entrambe hanno sentito il bisogno di dirlo, qual è il loro lavoro, non tanto forse al mondo esterno, quanto per non perdersi tra tazzine da lavare, orari dei treni e spasimanti.

I parallelismi tra l’autobiografia della Lessing e quelle di altri scrittori non si fermano qui. Guardiamo ad esempio alla struttura del libro, suddiviso in capitoli che seguono i vari indirizzi in cui l’autrice ha abitato: come Paul Auster nel suo Diario d’inverno. E’ come se i traslochi, pur con tutti gli inconvenienti che provocano, tenessero in esercizio l’angolino del cervello adibito alla riesumazione dei ricordi e delle sensazioni: angolino essenziale nella quotidiana scrittura che ruota attorno a personaggi fatti di carne e sangue.

E poi, altro parallelismo: l’alcolismo. La Lessing non ne è diventata schiava come altri scrittori (cito solo Hemingway e John Cheever: gli americani sembrano non sentirsi abbastanza scrittori se non si ubriacano con una certe frequenza), ma la tendenza c’era, come sul fianco ripido di una collina, dove devi puntare i piedi per non andare giù di corsa.

Nel memoir Joseph Anton, Rushdie ci racconta un incontro con Doris Lessing e di come lei gli avesse esternato dei dubbi su quello che poi è diventato Walking in the shade: gli uomini, sempre gli uomini. Maschi, intendo. Lei era una bella donna, da giovane, le facevano la corte, ci provavano. Ma quanto di queste avventure o aspiranti tali era lecito riportare nell’autobiografia? Questo il dubbio della Lessing davanti a un perplesso Rushdie già alle prese con i casini della fatwa. Credo questa signora che ne abbia taciute parecchie, di storie, per rispetto ai vivi e ai discendenti; perché alla fine, tra le pagine, il non detto si intuisce.

Il libro trabocca di attivismo politico, di comunismo, di dubbi, di delusioni e speranze dopo la scoperta delle atrocità staliniane. Erano giovani che parlavano di mondi ideali. Belli questi giovani (ma anche se fossero stati più vecchi)… Non importa che non abbiano ottenuto ciò in cui speravano. L’idealismo è una componente della speranza: ci vuole!

Però, alla fine, la Lessing parla poco, in questo volume come nel primo, dell’atto della scrittura in sé.

Impossible to describe a writer’s life, for the real part of it cannot be written down.

Lo dice chiaro e tondo: come puoi scrivere della scrittura?

Ci ha provato: ha raccontato del suo bisogno di camminare, dormire e fumare mentre sta buttando giù una trama o sta revisionando un racconto, ma questi sono gesti al di là della scrittura vera e propria. Ha raccontato della sua idiosincrasia per le lunghe file di lettori in attesa di autografo, della passione che gli editori di allora nutrivano per la cultura in sè, della necessità di accudire il figlio e di togliere le briciole dalla tavola prima di mettersi a lavorare; ma neanche qui parla dell’atto dello scrivere vero e proprio.

E ciononostante, quando racconta la sua vita, respiriamo la sua arte, non fosse altro per la moltitudine di gente che incontra: gente che legge, scrive, riflette. Idee che si incontrano e scontrano. Non è vero che si impara a scrivere solo dai libri: per gli scrittori, l’entourage conta, conta molto.

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