Denise Lesur è appena stata da una mammana e aspetta di abortire. Il tempo scorre in attesa di liberarsi di quello che ha dentro, ma quello che ha dentro non è solo un feto non voluto.

Denise Lesur è piena di rabbia: il romanzo è una lunga invettiva contro il mondo da cui proviene.
La sua è una famiglia di negozianti, nel quartiere è considerata benestante: il bar va avanti bene, sempre pieno di ubriaconi che vomitano e stramazzano al suolo, e la rivendita di alimentari è un continuo via vai di donne in pantofole che chiedono di poter pagare a fine mese.
Ma nel quartiere ce ne sono tanti che stanno peggio, molto peggio, e Denise ogni domenica va a trovare qualche malato con la madre e a portare un po’ di scatolame per alleviare la miseria.
Denise Lesur da bambina è invidiata dalle amiche: può mangiare quello che vuole e può giocare con bambole che camminano da sole.
Tutto cambia quando iniziano le elementari: i genitori la mandano in una scuola privata dove Denise scopre di non essere al centro del mondo, di non essere la bambina più ricca né la più benvoluta. E’ la cacciata dal giardino dell’Eden.
Per recuperare l’ammirazione di cui ha spasmodicamente bisogno, diventa la prima della classe, e lo sarà sempre, anche alle superiori e all’università, ma, man mano che cresce, inizia ad odiare l’ambiente da cui proviene: si vergogna dei suoi genitori, del loro basso livello culturale, del loro linguaggio scurrile, della loro volgare abbigliamento.
Cerca di tenere separati il mondo della scuola e il mondo della famiglia, perfino il suo modo di parlare cambia a seconda dei due ambienti.
Quando inizia ad accorgersi dell’altro sesso, sceglie i ragazzi in base al loro livello, a quanto sono fini, a quanto possono arrivare lontano. Oscilla tra il senso di superiorità nei confronti del suo ambiente di origine al senso di inferiorità nei confronti di certi studenti ricchi e aggraziati.
Non è un libro sull’aborto, o sul diritto all’aborto. E’ un romanzo sulla perdita dell’ingenuità e sul tentativo di una giovane di staccarsi dal proprio passato.
E’ pieno di rabbia (e leggere 237 pagine piene di rabbia non è salutare).
Mi si dirà che è una rabbia dettata dalla costrizione dell’aborto: Denise Lesur non può tenere il figlio, i suoi non glielo perdonerebbero mai, imbottiti di morale come sono.
Ma in realtà, a lei il figlio non interessa per niente. Non ne parla mai in termini di “bambino”, non si vede mai nel ruolo di madre. Quello che la manda fuori di testa è che è costretta a fare qualcosa per colpa della morale imperante, e a farla di nascosto, perché la fanno sentire colpevole.
Questa settimana Annie Ernaux ha vinto il Nobel per la letteratura e tutti giù a dire che è un Nobel politico, una reazione all’avanzare della destra che minaccia il diritto all’aborto.
Il diritto all’aborto va tutelato, ma non bisogna strumentalizzare ogni accenno all’interruzione di gravidanza per giustificare certi premi.
Annie Ernaux sa scrivere, ma a mio parere, c’erano altri nomi più meritevoli per un premio così ambito.