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Ripensare il terrorismo in termini di storytelling

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Uno dei capitoli de “21 lezioni per il 21° secolo” di Yuval Noah Harari si intitola “Terrorism – don’t panic”.

Oggi il terrorismo uccide in media, globalmente, 25.000 persone all’anno (principalmente in Iraq, Afghanistan, Pakistan, Nigeria e Siria).

Consideriamo che ogni anno, solo in Europa, muoiono 80.000 persone in incidenti d’auto. In America, i morti per incidenti sulle strade sono 40.000; in Cina sono 270.000.

A livello mondiale, i morti per incidenti stradali sono 1,25 milioni.

Contro i 25.000 morti per attacchi terroristici.

Eppure, non ci sono governi che perdono le elezioni a causa del numero di morti sulle strade, mentre ci sono governi che le perdono a causa di attacchi terroristici.

Perché?

Perché l’attacco terroristico mina direttamente la legittimità dello stato.

Gli stati odierni si fondano sulla promessa di proteggere i cittadini dalla violenza politica.

Se ci pensate, nel medioevo, quando ogni signorotto o vescovo possedeva interi eserciti, non c’erano problemi di terrorismo, perché lo Stato non prometteva di proteggere i cittadini dalla violenza politica, che abbondava – così come nessuno stato ha perso legittimità quando la peste ha decimato da un quarto a metà popolazione europea: perché non ci si aspettava che uno Stato dovesse prevenire le epidemie.

Uno Stato basa la propria legittimità sul rispetto delle promesse che fa.

Ora, guardando al terrorismo con occhi obiettivi, si nota che agisce come farebbe un disperato: non dispone di eserciti organizzati, dunque attacca con l’unico scopo di creare panico. Terrore, appunto, come dice il suo nome.

Un esercito statale, invece, attacca obiettivi militarmente strategici: pensate a Pearl Harbour, quando i giapponesi hanno distrutto la forza navale statunitense.

E ora pensate a un camion che travolge un centinaio di passanti in Spagna: il governo spagnolo, sia prima che dopo l’attacco, continua a disporre della sua forza militare, nessuno dei suoi siti strategici è stato intaccato.

Dunque, perché i terroristi continuano a comportarsi in modo così irrazionale? Sapendo che il loro nemico non viene minimamente indebolito dall’attacco?

Perché in realtà ciò che viene indebolita è la legittimità dello Stato, che dimostra ai suoi cittadini di non esser stato capace di difenderli dalla violenza politica.

E cosa fa lo Stato? Reagisce in modo esagerato.

Di fronte a una minaccia minima, quella terroristica, lo Stato di solito va fuori di testa, adottando misure che sono sproporzionate in confronto alla vera minaccia.

E’ quello che vogliono i terroristi: si comportano come un giocatore di carte che ha una mano particolarmente sfortunata, e allora, non avendo niente da perdere, sperano che la controparte rimescoli le carte. Le probabilità che escano carte favorevoli sono basse, ma ci prova lo stesso, perché non sa cosa altro fare.

I terroristi agiscono con mentalità teatrale: uccidere una dozzina di persone in Belgio fa più scena che ucciderne centinaia in Nigeria. Vogliono che lo Stato reagisca, perché uno Stato NON può perdere la faccia davanti ai suoi cittadini.

Quale sarebbe la giusta reazione davanti a un attacco terroristico?

Uno Stato dovrebbe intraprendere mirate azioni di intelligence e tagliare i flussi finanziari che permettono ai terroristi di comprare armi. Il guaio – grosso guaio – è che queste azioni sono discrete, non fanno parlare i mass media.

Molto meglio mandare bombardieri a radere al suolo interi villaggi…

…Spendendo miliardi che potrebbero essere utilizzati per combattere la povertà, gli incidenti stradali, e intraprendere azioni contro il riscaldamento globale nel proprio paese.

Insomma, se i terroristi fanno scena, gli Stati si sentono in obbligo di reagire con altrettanta scena.

Lo Storytelling diventa sovrano.

Non vogliatemene: anche solo una persona innocente morta a causa di un attentato è un dramma familiare e sociale. Tuttavia, la reazione di un governo non può essere puramente emotiva.

E noi, gente, non possiamo farci prendere per il naso da chi manipola le nostre paure.

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Chi sono i terroristi suicidi, Marco Belpoliti @GuandaEditore

Questo breve libro è una raccolta di testi scritti per lo più in occasione dei tanti attentati successi negli ultimi anni (Bataclan, Charlie Hebdo, Bruxelles…). E’ un’opera di pubblica utilità: ci aiuta a non rifugiarci nei clichés e a ragionare sugli avvenimenti.

Belpoliti cita molti altri autori, destreggiandosi tra letteratura, sociologia, filosofica, antropologia, storia, psicologia sociale.

Certi articoli ti fanno pensare in modo particolare. Ad esempio, il primo, “Eccesso”. Si ricorre all’eccesso, per uscire da un sistema incerto, che oscilla su posizioni poco chiare, come può essere la situazione di un adolescente o di un giovane (non è un caso che quasi tutti i terroristi suicidi siano giovani), ma anche, più in generale, in un ambiente in cui mancano degli ideali a cui appellarsi.

E allora, l’uomo della strada occidentale, così laicizzato, odia sì i terroristi, ma siamo sicuri che non ci sia, sotto sotto, anche un po’ di invidia per gli chi ideali, comunque, ce li ha? Siamo sicuri che i terroristi siano, come forma mentis, poi molto lontani da noi?

E ancora: perché lo fanno?

Belpoliti sottolinea un concetto: il suicidio purifica l’omicidio. Un terrorista suicida che pur uccida un bel po’ di infedeli ma che non riesca ad uccidere se stesso, ha comunque fallito.

Chi sono?

Molti sono giovani, o giovanissimi. Di solito sono gregari (i leader non fanno attentati suicidi, si limitano a organizzarli). Spesso hanno studiato (molti sono ingegneri, e Belpoliti spiega bene perché). Tutti stanno attenti a creare il proprio storytelling: con testamenti video, facendo appello al sentimento di vendetta, passando per vittime dei nemici.

Dunque non sono “sradicati” nel senso comune del termine. Sradicati, però, lo sono nel senso che con loro è inutile appellarsi alla realtà, perché è ciò che loro vogliono combattere.

Infine, un altro importantissimo elemento in comune che uniforma i terroristi suicidi islamici con altri in altre parti del mondo è la rinuncia a controllare il proprio io: abdicano il potere di scelta ai propri leader. Torna anche qui l’attualità di un testo che non smetterò mai di suggerire per capire tantissime dinamiche dei comportamenti umani: “Fuga dalla libertà” di Erich Fromm.

Belpoliti non fornisce soluzioni, ma attira la nostra attenzione su due punti fondamentali: non ci sarebbero martiri senza storytelling e senza appoggio di una comunità.

Se questa non è una soluzione, è comunque una direzione a cui guardare.

Ps: bellissimo l’ultimo capitolo, intitolato “Cosa leggere”. Una specie di bibliografia ma con piccole note che ti indirizzano verso nuovi libri e articoli. LOL!

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