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Uccidere il cancro – Patrizia Paterlini-Bréchot

Bella questa autobiografia (anche se credevo si trattasse del solito manuale su cosa mangiare e quanto allenarti). La prof.ssa Paterlini, italiana con cattedra di biologia cellulare e molecolare all’università di Paris-Descartes, si racconta sia dal punto di vista professionale che personale.

E’ un testo pieno di speranza: la Paterlini ha sviluppato un sistema per verificare se nel sangue ci sono cellule tumorali circolanti, in modo da stanare un cancro prima che diventi visibile agli esami con imaging. La tecnica fa uso di una macchina che ha brevettato lei (si è dovuta anche improvvisare industriale, perché non trovava nessuno che le finanziasse la produzione dei prototipi) e che sfrutta la differente grandezza delle cellule ematiche e tumorali per scovare tumori allo stadio iniziale. E’ riuscita, partendo da una macchina che filtrava il latte, a crearne una che filtra il sangue in verticale (mentre di solito il sangue viene filtrato con una specie di centrifuga). Ed ha dovuto anche brevettare una sostanza per rendere filtrabile il sangue senza rovinarlo.

Lo ripete più volte nel corso del libro: il cancro è mortale solo quando gli si dà il tempo di diventarlo. Anche i c.d. tumori fulminanti sono tumori che sono rimasti nel corpo a lungo, a volte per anni, prima di dare sintomi: e quando i sintomi sono arrivati, è già troppo tardi, per qualcuno.

Durante la lettura, l’ho percepita, oltre che molto competente e determinata, anche umana: si sente investita di una missione perché soffre quando vede un paziente soccombere alla malattia, non lo fa per ottenere onori e attenzione mediatica, e dedica diversi paragrafi del libro a descrivere le vicende di alcuni suoi malati.

La macchina che permette di stanare cellule maligne nel sangue, e che potrebbe ridurre moltissimo i casi di decesso grazie alla tempestività dell’intervento, dunque, esiste, ma è ancora poco diffusa. Perché bisogna comprarla? No: perché non fa guadagnare alcuna multinazionale. Nel libro ci sono ampi passaggi dedicati alle multinazionali del farmaco e a come influenzano la ricerca scientifica, le prescrizioni di medicinali, le pubblicazioni sulle riviste.

E, a proposito di pubblicazioni sulle riviste scientifiche, la Paterlini ci dà un’ampia panoramica di come il sistema del peer-review mostri il fianco alle critiche. In pratica: per pubblicare su una rivista (ricordo che la pubblicazione è quasi l’unico modo per convincere enti e istituzioni e rilasciare fondi per la ricerca) bisogna passare l’esame di una commissione medica di pari (peer) che sono e restano anonimi. Il problema è che la concorrenza in campo scientifico è enorme. Se i revisori sono competenti nel campo su cui verte la ricerca, è probabile che si tratti di concorrenti che lavorano sullo stesso argomento: la mancanza di obiettività è sempre in agguato. Se invece i revisori sono più lontani da quel campo di ricerca, di solito sono meno compromessi, ma è anche probabile che non dispongano delle competenze necessarie per valutare bene tutti i contenuti della ricerca. E quel che è peggio, è che i revisori possono rifiutare la pubblicazione di una ricerca senza dare motivazioni (il che è quello che è successo alla Paterlini: se danno delle motivazioni insufficienti, ci si può appellare all’editore, ma se non ci sono motivazioni, non puoi attaccare il verdetto).

Dunque: da un lato, onore e gloria a ricercatori come la Paterlini che con tanta, tanta, tanta resilienza si danno da fare per combattere questa malattia. Dall’altra, vergogna, che una ricercatrice del genere, e tanti altri come lei, sia dovuta emigrare in Francia perché qui il baronaggio non le avrebbe dato via di uscire allo scoperto.

Sono sempre più stufa di questa Italietta.

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Vergine giurata – Elvira Dones

In Albania, quella del nord, la più arretrata, tra le c.d. Montagne Maledette, c’è un’usanza alquanto strana: se manca un maschio in famiglia (cosa probabile, visto che si ammazzano come formiche), una delle donne può giurare di fare il maschio per il resto della sua vita.

E’ un giuramento, appunto, a vita: ci sono ancora delle vergini giurate anche oggi, nella zona. Una volta che hai giurato, non puoi tornare indietro.

Una volta che sei diventato uomo… smetti di lavorare. E fai l’uomo. Cioè bevi fino a stordirti, bestemmi, vai in giro col fucile, porti avanti la faida ammazzando altri uomini che hanno ammazzato altri della tua famiglia… cose così, insomma. Come si può capire dal tono sarcastico della mia esposizione, io mi innervosisco a leggere certe cose. Ma torniamo al romanzo.

L’eroina della Dones, a differenza delle vergini giurate reali, ha lasciato l’Albania perché vuol riappropriarsi della sua femminilità. Va negli Stati Uniti da una cara cugina, ma ci mette un pezzo prima di tornare donna, dice che, dopo quattordici anni trascorsi a fare il maschio, ha bisogno dei suoi tempi…

L’autrice ha ben caratterizzato questa difficoltà a tornare donna. Ha un po’ meno bene caratterizzato la quotidianità di Hana Doda quando era Mark Doda. A parte due episodi che la ritraggono da maschio, la figura di Mark rimane come una sagoma vuota nello sfondo delle Montagne Maledette.

Cioè: se gli uomini non potevano farsi da mangiare né pulire la casa, lei/lui come si è arrangiata, visto che viveva da sola/o? Ho l’impressione che questo sia un po’ un limite del libro: la Dones è riuscita benissimo a incarnarsi nella Hana prima e dopo di esser diventata uomo, ma non in Mark.

A parte ciò, il libro mi è piaciuto, e lo consiglio: la scrittrice ha una bellissima scrittura, anche se piena di paratattiche. E lode alla Dones che, albanese, ha scritto il romanzo direttamente in italiano. Un’autrice che sceglie l’italiano come lingua per scrivere un libro è una mosca bianca, nel panorama mondiale (visto che lei conosce benissimo anche l’inglese). Grazie per esserti ricordata di questo culturalmente sperduto paese…

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