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Gurdjieff, viaggio nel mondo dell’anima – Joe Santangelo

Se prima di leggere questo libro non sapevo chi era Gurdjieff, ora ne so poco di più. E’ un libro-omaggio, ben documentato, scritto con passione e gratitudine, ma il suo scopo non era quello di sviscerare il personaggio: sarebbe impossibile.

Per alcuni Gurdjieff era un maestro di vita, per altri un insegnante di danza, per altri un filosofo, un imbroglione, un mago, un ipnotizzatore… la lista è lunga. Di sicuro era un uomo carismatico, che è riuscito a stringere attorno a se una folta schiera di… studenti? Forse “ricercatori” è la parola più adatta.

Gurdjieff si occupava dell’anima. Ma per far ciò, doveva occuparsi dei corpi, delle emozioni, delle vite intere dei suoi seguaci. Seguaci che erano disposti a mollare famiglie e ricchezze pur di seguirlo.

Forse non è preciso dire che Gurdjieff si occupava dell’anima, perché sosteneva sempre che l’uomo ne nasce privo: l’anima bisogna meritarsela. Con la fatica, con la sofferenza (consapevole), con l’autosservazione, con l’ancoraggio nel presente, col controllo delle emozioni negative, silenziando il chiacchiericcio psicologico e risparmiando energia per dedicarsi al Lavoro.

La prima parte del libro è quasi una biografia: ma scordatevi di trovarci episodi eclatanti, scabrosi o esoterici. Ce ne sono solo accenni, di sfuggita, e non sono quelli che contano. Ciò che conta è la Verità e la guerra agli automatismi, alle abitudini, allo spreco di energia.

Non è un Lavoro per tutti: solo in pochi riescono a sopportarne la tensione, ma la ricompensa è l’Anima.

In realtà di “magico” il Sistema non offre nulla. Per il Sistema l’unica, autentica magia consiste nel “potere di fare” (…).

Questo è un libro molto lontano da un manuale: non ci sono consigli pratici, non ti dice fai questo, fai quello. Si legge di alcuni esercizi che Gurdjieff affibbiava ai suoi studenti: ad esempio, scavare, in un ben definito lasso di tempo, buche di dimensioni ben precise, per poi riempirle fino a renderle invisibili.

Lo stesso viaggio che ha fatto fare ai suoi studenti attraverso l’Europa in cerca di un luogo dove piantare la propria scuola è stato un esercizio: attraverso guerre, massacri, morte. Ma loro sono passati indenni, e ancora non si capisce bene come. Chi parlava di preveggenza, chi di magnetismo animale, chi di ipnosi… fatto sta, che quando sono arrivati, erano diversi da come erano partiti.

Insomma, quando ho messo giù il libro dopo aver chiuso l’ultima pagina, mi è rimasta la domanda: ma chi era Gurdjieff?

E’ però una domanda che potrebbe applicarsi a chiunque, perché abbiamo sempre bisogno di etichette: è più facile che dedicarsi all’Essenza di una persona.

Allora prendo solo un periodo, tra i tanti che mi sono rimasti impressi del libro, e ve lo riporto qui, perché leggendolo mi è sembrato di vedere tutta la schiera di persone (persone!) che passa ore e ore davanti agli schermi dello smartphone o davanti a schermi ultrapiatti da cui fuoriescono notizie inutili e dannose:

E’ necessario soltanto che egli impari a economizzare, in vista di un lavoro utile, l’energia di cui dispone, e che, per la maggior parte del tempo, dissipa in pura perdita. L’energia viene soprattutto spesa in emozioni inutili e sgradevoli, nell’ansiosa attesa di cose spiacevoli possibili e impossibili, consumata dai cattivi umori, dalla fretta inutile, dal nervosismo, dall’irritabilità, dall’immaginazione, dal sognare a occhi aperti e così via. (…)dalla tensione inutile dei muscoli, sproporzionata rispetto al lavoro compiuto; dal perpetuo chiacchierare, che ne assorbe una quantità enorme, dall’interesse accordato ininterrottamente alle cose che non meritano nemmeno uno sguardo; dallo spreco senza fine della forza di attenzione; e via di seguito.

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La dieta delle zone blu – Dan Buettner

Le zone blu, per chi ancora non lo sapesse, sono cinque zone del mondo con una straordinaria percentuale di centenari in buona salute. Si trovano in Sardegna, Grecia, Costa Rica, Okinawa, Loma Linda (California).

Dan Buettner è un giornalista ed esploratore del National Geographic che si sta adoperando per diffondere i principi di vita di queste cinque zone al resto del mondo, soprattutto negli Stati Uniti, malati e obesi.

La dieta è un pilastro fondamentale di questi stili di vita: la carne, mi spiace dirlo per i carnivori, è relegata in un angoletto. Il pesce, invece, è più presente. Via libera ai vegetali (soprattutto legumi!) e ai cibi NON confezionati.

Il libro è interessante quando Buettner ci presenta la sua esperienza diretta nelle cinque zone blu, descrivendoci le abitudini alimentari (ma non solo) di qualche personaggio esemplare. Diventa un po’ noioso quando descrive come ha importato in alcune zone degli Stati Uniti ciò che ha imparato, riportando un incremento generale della salute (e, sembra, felicità) pubblica.

Il nocciolo del suo discorso è che spesso siamo grassi e malati non per una colpa individuale, ma per scelte ad ampio raggio. Esempi ne sono le caramelle e i dolcetti che si trovano sullo scaffale vicino alla cassa del supermercato, la mancanza di piste ciclabili, le macchinette che vendono schifezze nelle scuole e nei posti di lavoro.

Lui e la sua equipe hanno lavorato a questo livello, incontrando i rappresentanti locali e scegliendo dei portavoce in loco.

Sebbene non si possa ignorare il punto di vista della “responsabilità collettiva”, credo che Buettner abbia sottovalutato troppo quella individuale.

La gente, gli individui, al giorno d’oggi hanno tutte le informazioni che vogliono. Non posso dare la colpa al sindaco se soffro di cuore… non posso dire governo ladro se mangio come un bufalo e resto incollato al divano… finiamola di dare la colpa agli altri!

Anche qui, è tutta questione di equilibrio.

E’ vero che la forza di volontà individuale è un muscolo, che dopo un po’ si affatica. Che a forza di vedere il pacchetto di patatine appena apri la dispensa, te lo mangi. Che lo hai comprato perché costava meno ed è più bello del chilo di mele. Ma insomma: noi siamo il frutto delle nostre scelte.

Basta delegare colpe!

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Shock politics, Naomi Klein

Quando Katrina si abbatté sulla costa del Mississippi nell’agosto 2005, era stato abbassato da uragano livello 5 a un ancora devastante livello 3. Ma quando arrivò a New Orleans, aveva perso quasi tutta la sua forza, venendo declassato a “tempesta tropicale”.

(…) una tempesta tropicale non avrebbe mai sfondato le difese di New Orleans contro le alluvioni. Invece Katrina ci riuscì perché gli argini artificiali che proteggono la città non ressero. Perché? Oggi sappiamo che, nonostante i ripetuti allarmi sui rischi, il Genio militare aveva lasciato che i levees (argini, n.d.t.) non avessero una manutenzione sufficiente.

Attenzione: le case più esposte alla furia delle acque sarebbero state quelle nel Lower Ninth Ward, dove gli abitanti erano quasi tutti di colore. D’altronde, se fai una guerra sistematica al settore pubblico, è ovvio che i soldi non vanno alle infrastrutture di utilità pubblica (ma piuttosto alla polizia e all’esercito).

Cosa è successo dopo l’alluvione? Che tutte le strutture federali adibite ai soccorsi hanno fatto cilecca. Ci sono voluti cinque giorni prima che portassero cibo e acqua alle famiglie abbarbicate sopra i tetti.

Risultato:

I bisognosi, lasciati in città senza cibo né acqua, fecero quello che avrebbe fatto chiunque nelle medesime circostanze: si presero le provviste dai negozi del posto. Fox News e le altre testate ne approfittarono per definire i residenti neri di New Orleans “saccheggiatori” che presto avrebbero invaso le parti asciutte e bianche della città.

Dunque… bisogna difendersi, no? E allora ecco i poliziotti che sparavano a vista ai residenti neri e “bande di vigilantes bianchi armati che battevano le strade in cerca dell’occasione per dare la caccia ai neri.”

Per non parlare delle guardie private di compagnie come la Blackwater arrivate di fresco dall’Iraq.

Capito? “Guardie private“. In America si privatizza tutto (voi lo sapevate che anche molte prigioni sono private? E anche i servizi di addestramento dell’esercito e della polizia: sono i privati che addestrano i militari, incredibile).

E la Fema, l’agenzia federale adibita ai soccorsi? Si era appoggiata a un’agenzia privata per allestire i campi base per i soccorritori: allestimento che venne pagato 5,2 milioni di dollari e che non venne mai portato a termine.

Ma, direte, poi l’emergenza è finita. Sì, però, guarda caso, la tragedia è diventata la scusa per privatizzare quanto più possibile: largo alle multinazionali! Tra le prime istituzioni da privatizzare ci sono state le scuole. Milton Friedman, il teorizzatore del neoliberismo, lo ha detto chiaro e tondo, che l’uragano “è anche l’occasione buona per riforare radicalmente il sistema scolastico”.

Nel giro di un anno, New Orleans diventò il sistema scolastico più privatizzato negli Stati Uniti.

Ma non è finita qui.

Nei mesi successivi all’uragano

(…) furono abbattute migliaia di unità abitative pubbliche, molte delle quali avevano subito danni minimi perché si trovavano in un punto elevato, per essere sostituite da condomini e torri abitative dal costo irraggiungibile per chi aveva vissuto lì in precedenza.

E, ovviamente:

Per compensare le decine di miliardi che andavano ai privati come contratti ed esenzioni fiscali, nel novembre 2005 il Congresso a maggioranza repubblicana annunciò che doveva tagliare 40 miliardi dal bilancio federale. Tra i programmi falcidiati: prestiti studenteschi, Medicaid e buoni alimentari.

Scandalo isolato? Colpa dell’amministrazione Bush?

Purtroppo no.

Questo è solo uno dei tanti casi della deriva neoliberista che sta prendendo piede nel mondo.

In copertina vediamo la sagoma di Bush, ma Bush è solo l’esempio più visibile. La strategia è quella di creare o di approfittare di crisi esistenti per varare tutta una serie di politiche illiberali favorevoli a una minoranza di ricchi. E il guaio è che si tratta di un serpente che si morde la coda: la crisi del 2008, di cui stiamo ancora scontando gli effetti, è stata causata dalla deregulation voluta da Clinton. E tranquilli: sarà causa di altre crisi finanziarie simili.

Capito? Si riducono i controlli sulle banche, per favorire i loro profitti, e si mettono a repentaglio i risparmi delle famiglie. Goldman Sachs e Lehmann Brothers sono tra le aziende più rappresentate nell’attuale governo Trump!

Ma se vogliamo parlare del governo americano, possiamo tacere che nel suo esecutivo ci sono solo miliardari? E pieno di rappresentanti di multinazionali con palesi conflitti di interessi (come può la Exxon, i cui miliardi dipendono dal settore petrolifero, favorire le energie verdi?).

E Trump?

Oh, Trump (che si è pubblicamente vantato di aver evaso il fisco e il cui patrimonio non è noto) ha lasciato le sue aziende in mano ai figli, vero (anche se non ha rinunciato ai profitti che queste aziende producono).

Però attenzione: Trump è un logo. Un marchio. Lui guadagna sulle royalities che i costruttori gli pagano per usare il suo nome su un campo da golf o su un grattacielo. Trump non è più un immobiliarista: guadagna sui diritti di sfruttamento del suo logo.

Vi rendete conto che incassa miliardi ogni minuto che passa alla Casa Bianca? Che chi è in grado di pagare il suo marchio su un albergo, può dire “sul mio albergo c’è il nome del presidente degli Stati Uniti”?

Le multinazionali (e Trump è una multinazionale) non producono quasi più niente: fanno outsourcing (in Cina, India…) e appiccicano etichette. Poi, è tutta questione di pubblicità.

Trump… D’altronde, bastava leggere i suoi libri: vinci e schiaccia chi rimane indietro. Non lo dice in modo velato, signori miei. E’ la tattica che ha usato per fare i soldi. Se dobbiamo riconoscergli un pregio, è che è sincero: lo ammette. Ammette che ha frodato il fisco perché è più furbo di altri.

Allarghiamo la visione: e il settore ambientale? Il neoliberismo ne è infastidito. Diffonde finta scienza, nega il riscaldamento globale (negli Stati Uniti, sono stati chiusi tutti i siti governativi che ne parlavano!)… come se non ci accorgessimo che inondazioni e trombe d’aria ci minacciano sempre più spesso negli ultimi anni. C’è ancora qualcuno che non collega il riscaldamento globale al cambiamento climatico in atto???

Ma Trump (e quelli come lui sparsi in altri governi mondiali) dice che c’è bisogno di petrolio. Che bisogna continuare con le perforazioni e con la posa di condutture e con le trivellazioni polari.

Per ora va tutto a rilento. Ma tranquilli: è solo perché il prezzo del petrolio non è abbastanza alto, e le trivellazioni in zone ghiacciate costano un botto. I neoliberisti aspettano solo la prossima crisi (una guerra sarebbe perfetta!) per sfruttare l’aumento del prezzo del petrolio.

Crisi, shock: ecco cosa serve a questa gente. Scuse per privatizzare servizi pubblici. Per far guadagnare aziende private.

Che poi, diciamo Trump, ma noi in Italia abbiamo avuto Berlusconi: siamo caduti anche noi nell’illusione che un miliardario, per il solo fatto di aver costruito un impero, potesse voler guidare un paese per soli scopi umanitari.

Viviamo in un film della DC Comics? Crediamo ancora che possa esistere un miliardario filantropo alla Bruce Wayne che si sacrifica per i cittadini?

Naomi Klein fa appello a noi, poveracci. Perché, tutti insieme, possiamo fare qualcosa, fornire alternative. E il boicottaggio è solo una strada.

Nelle ultime pagine, Naomi Klein afferma che per attuare un cambiamento totale, abbiamo bisogno di più utopia, di più sogni, di più visioni grandiose; non di aggiustamenti minimi in direzione di una maggiore giustizia sociale (solo un pochetto di più). Mi sembrava un’affermazione un po’ ingenua, ma devo fissarmi da qualche parte questo pensiero di Eduardo Galeano:

L’utopia è come l’orizzonte. Mi avvicino di due passi, e lei si allontana di due passi. Faccio altri dieci passi e l’orizzonte si allontana di altri dieci. Per quanto io possa avanzare, non lo raggiungerò mai. Allora che senso ha l’utopia?

Il senso è: continuare ad avanzare.

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Niebla, Miguel de Unamuno

Sì, lo so che non bisognerebbe giudicare i libri dalle loro riduzioni, ma il mio spagnolo è ancora troppo rozzo per abbordare uno stile (e una storia) come questa:-(

Perché, diciamolo, è alquanto strana. Una meta-storia: un ragionamento sulla storia stessa e sul senso dei romanzi… e della vita.

Augusto, un giovane ricco ma poco pratico, un giorno esce in strada e si innamora di Eugenia, una ragazza che non ha mai visto. Peggio: da quel giorno, si accorge… delle donne. E non riesce a fare a meno di innamorarsi di tutte quelle che incontra. Inclusa Rosario, la ragazza che gli stira i vestiti.

Però, Eugenia è fidanzata. Con un nullafacente, certo, ma è fidanzata, e rifiuta l’amore (ma si può parlare di amore??) di Augusto. E Augusto decide di sacrificarsi, aiutare la ragazza finanziariamente senza chiedere nulla in cambio.

Lei accetta, non senza fatica. Ma solo dopo che il suo fidanzato le ha fatto capire che non vuole sposarsi, né lavorare.

Salto un po’ di passaggi e arrivo alla fine: Augusto decide di suicidarsi, ma prima di farlo, va a parlare con Unamuno in persona. Sì, il suo autore.

Ecco perché parlo di meta-storia. Richiama alla memoria sia i “Sette personaggi in cerca di autore” di Pirandello, scritto più o meno nello stesso periodo (ma sembra indipendentemente l’uno dall’altro), “The Truman show, e anche, a mio modesto parere, “Blade Runner“.

Solo che il romanzo di Unamuno è punteggiato di riflessioni filosofiche sulla vita, sull’amore, sull’anima, sulle donne, sui generi letterari… tutti argomenti che, in una riduzione, perdono profondità, e mi son sembrati ragionamenti di un bambino di sei anni. Devo leggere l’originale!

Mi piace l’uomo Unamuno. Mi piace sempre una persona capace di prendere decisioni, magari “sbagliate” (lui all’inizio era favorevole all’insurrezione dell’esercito di Franco), e mi piace quando, studiando la realtà, le cambia (ammettere di aver sbagliato è difficile… mi ricorda Thomas Mann, che, per ragioni diverse, ha tenuto un atteggiamento simile di fronte alla prima guerra mondiale).

Gente così decide dopo aver ragionato. Noi, al giorno d’oggi, decidiamo dopo aver guardato la TV.

I ragionamenti non arrivano sempre alla Verità, ma implicano comunque una fatica. Sì, decidere, scegliere, implicano fatica. Rischi, a volte. Come quelli che ha assunto Unamuno nel 1936, quando si è alzato in piedi durante la cerimonia di apertura dell’anno accademico (insegnava all’università di Salamanca) e ha detto quello che pensava della guerra incivile.

Ecco, sono innamorata (anche) di Unamuno.

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L’arte di insegnare il riordino ai bambini, Nagisa Tatsumi @illibraio

Quando scriveranno il manuale intitolato “L’arte di insegnare il riordino ai mariti”???

Mentre lo aspetto, leggo la Nagisa Tatsumi, che parla di bambini.

La Nagisa, che ammette di non essere un asso nel riordino, segue regole ben precise nell’educazione dei figli.

Bisogna dare un luogo ad ogni cosa, stare attenti alle quantità, rivedere periodicamente quantità e utilità.

Bisogna inoltre insistere sulla necessità di rimettere subito a posto gli oggetti che si usano (i bambini sono procrastinatori laureati) e scegliere con cura i luoghi in cui mettere gli oggetti (perché se un bambino deve salire su una sedia per mettere via un libro sullo scaffale in alto, fidatevi: non lo farà).

I suggerimenti della Nagisa partono da un principio di base: bisogna portar rispetto agli altri.

Ne derivano alcuni corollari da cui non si può prescindere (e ai quali dovrebbero attenersi anche i mariti): nei luoghi comuni non si devono lasciare oggetti personali, e il riordino può diventare un’attività da svolgere tutti assieme (tutti = mariti inclusi).

Vi lascio leggere il libro da soli per scoprire i vari suggerimenti concreti. Niente di trascendentale: l’autrice usa solo buon senso e un po’ di creatività (neanche tanta). L’utilità di questi libri è che ti ispirano.

Ti ispirano a razionalizzare la casa.

Almeno per il tempo durante il quale dura la lettura. Io so già che da domani, quando avrò messo via il volumetto, mi dimenticherò di insistere con mio figlio affinché asciughi il lavello dopo essersi lavato i denti… perché mi stufo.

Faccio prima a farlo io.

Sbaglio, lo so. Mio figlio diventerà come mio marito.

Cosa ho detto? No! Non posso permetterlo! No, ora mi scrivo un reminder grande come la parete del corridoio: Insegna a tuo figlio a riordinare!!

Scherzi a parte, adoro gli autori giapponesi.

Ho scoperto due cose carine sulla cultura del Sol Levante.

Uno: prima di mangiare tutti si fanno, a turno, il bagno nella stessa acqua. Anche gli ospiti. Non preoccupatevi: prima di entrare in vasca, ci si lava sotto la doccia. Però… ecco, leggere una cosa del genere, mi ha fatto venire i brividi lo stesso.

Due: non capivo perché l’autrice insistesse tanto sul dilemma “cameretta sì – cameretta no”. Si chiede infatti se è il caso di dare una camera personale al bambino, almeno a partire da una certa età. Sembra che in Giappone ci sia stato molto dibattito in merito, soprattutto perché molti adolescenti diventano hikikomori.

Gli hikikomori sono stati riconosciuti dal governo giapponese come fenomeno sociale a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta. Si tratta di soggetti che dimostrano perdita di interesse per la scuola o il lavoro e che si ritirano completamente dalla società per più di sei mesi; sono inclini alla malinconia, se non alla depressione, e trascorrono il tempo leggendo manga, navigando su internet o semplicemente oziando nelle loro camere.

Non è l’esistenza degli hikikomori, che mi lascia perplessa. E’ la necessità (tutta giapponese) di doversi riconoscere a livello governativo.

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Leggere libri in lingue straniere? @lingosteve

Il mio primo libro in tedesco l’ho letto ai tempi dell’università: avevo trovato sul treno “Dieser Hunger nach Leben” (Fame di vita), forse abbandonato di proposito. Sull’ultima pagina, il precedente proprietario (o proprietaria?) aveva scritto una lista di lingue, tre o quattro, e accanto ad ognuna di esse c’era un visto, come per dire: “Inglese: fatto. Francese: fatto. Tedesco: fatto.”

Mi son subito detta: “E io?”

Così mi son data da fare. Sì, avevo studiato tedesco alle superiori e all’università, ma leggere un libro dalla prima all’ultima pagina… vi assicuro che è stata un’impresa molto faticosa e le pagine erano tutte bagnate del mio sudore. Però alla fine: che soddisfazione!

Poi ho iniziato a lavorare in un ufficio vendite estero; l’aggiornamento delle lingue era necessario (io sono laureata in scienze politiche, non in lingue), e mi son detta: perché non approfittarne per fare quello che mi piace di più, e cioè, leggere??

I primi capitoli sono sempre i più difficili, ma poi si prende velocità.

A maggio ho iniziato a studiare spagnolo. Non solo per lavoro. Anzi, forse il lavoro qui c’entra poco. Qui c’entrano di più i sogni: un giorno, vorrei andare ad abitare in Costa Rica. Possibilmente prima della pensione.

Lo spagnolo è solo apparentemente simile all’italiano: ci sono tantissimi false friends e tanti altri vocaboli che non hanno alcuna assonanza con la mia lingua e, avendo iniziato due mesi fa a studiarlo, sto facendo fatica a leggere le leggende del Popol Vuh (Messico).

Sto applicando però una tecnica diversa da quella che ho sempre utilizzato a scuola e nei corsi di lingua. Mi sono documentata e sembra che il modo migliore per imparare sia quello scoperto da Stephen Krashen (in realtà ci sono stati altri linguisti che hanno affrontato l’argomento prima di lui, non ultimo, Chomsky).

Krashen sostiene che la seconda lingua si impara meglio se sussistono i seguenti presupposti:

a) lo studente si espone a un afflusso massiccio di input comprensibili: cioè, se ascolta molto e legge molto nella lingua bersaglio. I testi devono essere comprensibili attorno all’80%, cioè ci deve essere una piccola percentuale di strutture e vocaboli ancora sconosciuti, ma il cui significato può essere dedotto dal contesto (e dalla voglia, o dalla necessità, di capire)

b) lo studio avviene in maniera rilassata: cioè se non c’è l’ansia per il voto e se non c’è paura di essere continuamente interrotti da correzioni.

Durante i mesi di esposizione massiccia agli imput, lo studente non parla. O non è necessario che lo faccia. Si trova nel silent period: il periodo in cui il cervello sta assorbendo informazioni e si sta abituando alla nuova lingua.

Il periodo silenzioso non ha una durata prefissata, dipende da molti fattori: vicinanza della lingua straniera alla materna, tempo dedicato allo studio, stato emotivo dello studente, ecc… Però, una volta assorbiti input in quantità sufficiente e per un periodo di qualche mese, se si è esposti alla lingua target, si riesce a esprimersi con fluidità nel giro di due o tre giorni.

Sembra magia, ma ho visto che ci sono molti poliglotti (es. il canadese Steve Kaufmann, l’italiano Luca Lampariello e molti altri) che adottano questa tecnica, magari con poche varianti.

E la grammatica? La assorbi insieme ai fondamenti della lingua durante il periodo silente. Se poi vuoi, la puoi approfondire: come fanno i bambini, che non parlano subito, e, quando iniziano a studiare grammatica alle elementari, sanno già parlare.

Che affascinante!

Sto provando a seguire questa strada per imparare lo spagnolo: scarico podcast in lingua e li ascolto, almeno mezz’ora al giorno, mentre cucino o faccio pulizie. Sto adottando solo una piccola variante per la lingua scritta: copio brani in lingua in cui compaiano parole nuove. Questo mi permette di esercitare anche la scrittura.

Se la teoria è giusta, tra tre mesi dovrei riuscire ad esprimermi con fluidità.
Quizas…

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Come vivere 120 anni, Adriano Panzironi

Diamo a Panzironi quel che è di Panzironi: per scrivere questo libro si è dato da fare. Ha studiato un bel po’ di termini medici e, per il poco che ne so, li ha usati anche in maniera corretta. Allora, quale è il problema? E’ che ha guardato solo una faccia della luna. Ha ridotto tutto ai carboidrati insulinici, affermando che qualunque problema di salute, alla fin fine, va fatto risalire ai carboidrati quale pane, pasta, riso, patate ecc…

E quando dico tutti, intendo davvero tutti, non so cosa resta fuori: cita depressione, mal di testa, malattie dentarie, canutismo, stipsi, emorroidi, cellulite, raffreddori, impotenza, Alzheimer, tumori, acidosi tissutale, osteoporosi, tiroidismo, gotta, intolleranze alimentari, candida, malattie intestinali, arteriosclerosi, dislipidemia, artrosi e artrite, diabete,…

Il suo approccio è una sorta di regime paoleolitico: proteine animali sia a pranzo che a cena, verdure, poca frutta. Via libero ai grassi, stop ai carboidrati e ai cereali.

I punti con cui mi trovo in disaccordo o che mi lasciano perplessa sono talmente tanti che non riesco a riassumerli tutti qui in modo dettagliato, ma ne faccio un breve elenco:

a) Manca la bibliografia: Panzironi cita delle fonti all’interno del testo ma non indica le ricerche sulle quali si appoggia per fare certe affermazioni. Siccome dice che il sistema Life120 è scientifico e che si basa su scoperte scientifiche (che qualche complotto universale vuol farci dimenticare), sarebbe bene menzionare le fonti. E quando cita le ricerche scientifiche, bisogna specificare almeno il numero dei soggetti coinvolti e se l’esperimento era in doppio cieco. In questo libro non c’è niente di tutto ciò.

b) Ci suggerisce caldamente di eliminare i legumi dall’alimentazione perché contengono troppi carboidrati e alzano il carico glicemico: però allora non si spiega come mai i paesi in cui si vive più a lungo (v. le blue zones) fanno dei legumi il piatto giornaliero.

c) Parla degli Orac, ma sorvola sul fatto che la carne non ne abbia.

d) Ci dice che siamo fatti per la carne ma non spiega come mai il nostro intestino è così lungo, mentre l’intestino degli animali carnivori è brevissimo, proprio allo scopo di ridurre al minimo la permanenza della carne all’interno del corpo.

e) Sorvola sul fatto che la nostra dentatura non è una dentatura da carnivori.

f) Dice che mancare un etto di spaghetti o 80 grammi di zucchero da cucina è esattamente la stessa cosa. Troppo semplicistico: non è la stessa cosa! C’è una differenza di assorbimento tra zuccheri semplici e zuccheri complessi, ma anche tra pasta raffinata e pasta integrale (visto che le fibre rallentano l’innalzamento della glicemia). Così come c’è differenza di assorbimento tra pane e pasta di grano duro… ma son tutti dettagli neanche menzionati.

g) Dice che a Okinawa e in Ecuador, dove c’è una alta incidenza di centenari, si mangiano pochi carboidrati: falso. Mangiano molti legumi e verdure. Assolutamente non mangiano paleo tutti i giorni.

h) Suggerisce di mangiare frutta solo alla fine dei pasti perché lo zucchero in essa contenuto viene assorbito più lentamente. Sbagliato: mangiata alla fine del pasto, la frutta fermenta e immette in circolo la putrescina, che fa tutto tranne che bene.

i) Suggerisce di mangiare salumi a colazione, senza specificare che sono pieni di nitriti e nitrati, che possono essere cancerogeni.

l) Non fa sostanziale distinzione tra carni bianche e carni rosse.

Mi fermo qui?

No, ultima critica: il libro è una lunga preparazione al consiglio di assumere integratori. Che in sé può non essere un brutto consiglio, ma mi faccio delle domande quando gli integratori sono i suoi, di Adriano Panzironi e fratello.

Non mi disturba il fatto che Panzironi non sia un medico: molti medici sono ignoranti dal punto di vista alimentare, e lui ha dalla sua il fatto di essersi dato da fare per chiarirsi concetti a volte ostici.

Quel che mi dà fastidio è che… Panzironi è un imprenditore. E un imprenditore non può essere obiettivo. Non esiste. Ben che vada, adotterà un approccio riduzionista, con una fetta di non-detto più importante del detto.

Insomma: trovatemi un ultracentenario che ha mangiato per tutta la sua vita come suggerito da Panzironi. Uno solo.

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48 giorni per ottenere il lavoro che ami – Dan Miller

Perché lavorate?

La maggior parte della gente che frequento mi risponderebbe: per prendere uno stipendio.

Biiip! Risposta sbagliata.

Dan Miller ci propone subito una distinzione tra lavoro, carriera e vocazione.

Faccio un esempio: se io avessi la vocazione (calling) di aiutare a migliorare il mondo, potrei scegliere di fare il medico, il volontario, lo scrittore, l’insegnante, lo scienziato ecc. Queste sarebbero le carriere (career). Allo stadio pratico, però, la carriera può comprendere diversi tipi di lavoro (job): posso fare lo scrittore di romanzi, saggi, mailing list, pubblicità, testi teatrali, volantini politici… se scelgo la carriera di insegnante, posso rivolgermi a una classe di 32 bambini o scegliere una scuola serale per adulti o insegnare inglese in un paese del terzo mondo… se sono un dottore, posso fare il medico di famiglia, specializzarmi in pediatria, far consulenza per un’assicurazione ecc…

Il lavoro è l’attività concreta che vi porta lo stipendio in casa. Il problema è che quasi nessuno, all’inizio della propria esperienza lavorativa, programma il futuro tenendo conto di tutti e tre i seguenti aspetti: competenze, tendenze personali e desideri/sogni.

Le competenze (skills) sono ciò che sai fare: comprendono non solo ciò che si è imparato a scuola, ma anche le singole capacità acquisite nei lavori precedenti (amministrazione, capacità matematiche, organizzative, scrittura, gestione del personale, uso del computer, pianificazione…). Sono capacità che possono essere spese in diversi posti di lavoro.

Le tendenze personali si incentrano sulle preferenze caratteriali: ti piace di più lavorare in team o impegnarti su un compito per conto tuo? Ti piacciono i cambiamenti o sei più portato per l’abitudinarietà? Sei diretto nel parlare o sei più diplomatico? Hai molta fiducia in te stesso o tendi ad essere cauto?

Infine ci sono i sogni, i valori e le passioni: quello che ti rende felice quando lo fai. Che ti fa trascorrere il tempo senza guardare l’orologio. Quello che faresti anche senza riceverne una remunerazione in cambio.

Nella ricerca di un lavoro bisognerebbe integrare le competenze con le proprie tendenze personali senza mai dimenticare i sogni.

Per quanto vedo in giro io, invece, il primo problema usciti dalla scuola/università è trovarsi un lavoro. Qualunque lavoro. Circa l’80% dei diplomati e dei laureati viene impiegato in un campo che non ha nulla a che fare con quello che ha studiato: il che non è un male in sé, ma è solo il sintomo di una mancanza di programmazione.

E diventa un male quando la scelta iniziale fa “curriculum” e vincola l’assunzione nei lavori successivi.

Quando si cambia lavoro (e lo si può cambiare perché costretti da un licenziamento o per libera scelta), non bisogna farsi legar le mani dal proprio passato, ma concentrarsi sul futuro, su ciò che si vuol fare.

Dunque… è importante sapere cosa si vuol fare. Una buona parte della fatica nel cercare il lavoro, è data dallo studio su se stessi (skills, tendencies e dreams).

L’85% dei casi in cui la gente viene promossa o ottiene delle opportunità di carriera nelle aziende dipende da capacità personali – attitudine, entusiasmo, autodisciplina e capacità interpersonali. Il 15% dei casi di promozioni lavorative è dovuto a capacità tecniche o educative, oppure a credenziali varie. (trad.mia)

Si può essere un buon medico (job), dunque aver buone capacità (skill), ma non amare il proprio lavoro, ad esempio perché non si sopporta veder soffrire i pazienti (tendency) o perché si vorrebbe lavorare la terra (dream).

Paul Gauguin lavorava in banca prima di diventare pittore. Tom Clancy era un agente assicurativo prima di diventare scrittore. Paul Newman era un operaio edile, prima di diventare attore. Nessuno di questi personaggi si è lasciato vincolare dal proprio curriculum.

Il difficile è:

  1. fidarsi dei propri sogni e
  2. mettere in modo un piano d’azione

Il libro di Dan Miller ci ispira a prendere in mano la nostra situazione lavorativa (e non solo).

Ha solo un difetto, ed è quello a causa del quale non verrà mai tradotto in Italia: inserisce, quasi ad ogni pagina, un riferimento a Dio e alla Sua volontà.

Dan Miller è figlio di un predicatore americano ed è cristiano praticante.

Io non sono cristiana osservante, e tutti questi riferimenti alla volontà di Dio, ai suoi progetti su di me ecc… mi ha dato un certo fastidio, all’inizio. Poi però il fastidio l’ho superato, non è grave, se i consigli alla fine sono ragionevoli. Il libro sta in piedi anche senza questi riferimenti divini.

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Le consolazioni della filosofia – Alain De Botton @GuandaEditore

Dai ammettiamolo: la parola Filosofia incute timore alla maggior parte dei lettori medi.

Perché? Credo che la ragione sia da ricercarsi in un errore di metodo.

Mi spiego: a scuola si parte dal periodo storico e dai filosofi di quel periodo. Stiamo studiando il Novecento? e vai di Heidegger e Nietzsche e Adorno, finché non ti viene la nausea. Così, a valanga, senza minimamente porsi la domanda se i loro contenuti possono integrarsi nel vissuto degli studenti.

Secondo me è sbagliato: per avvicinare il lettore medio alla filosofia bisogna partire dai problemi concreti, e poi leggere i filosofi che li hanno affrontati. Un approccio, diciamo, per argomento.

In questo momento ho questo problema, dunque in questo momento dovrei leggere Tizio. Ho un altro cruccio? Allora leggo Caio. Deve essere l’interesse contingente ad avvicinare il lettore a certi autori: una volta fatta conoscenza, poi, la voglia di approfondire verrà da sola.

E’ l’approccio che ha adottato Alain De Botton, svizzero trapiantato a Londra, che ha già reso la filosofia più abbordabile con altri suoi romanzi divulgativi (es. “Il piacere di soffrire”, “Cos’è una ragazza”).

Hai problemi di impopolarità? Allora leggi Socrate, impopolare per eccellenza, uno che stava così sulle balle ai propri concittadini che lo hanno fatto ammazzare.

Problemi di denaro? Leggiti Epicuro, così ti renderai conto che la parola “epicureo” ha un significato molto diverso da quello accolto nella mentalità comune, e magari incomincerai anche a ridimensionare le tue voglie e i tuoi desideri.

Soffri di frustrazione? Seneca fa per te (mi permetto di consigliare le “Lettere a Lucilio”, di semplicissima lettura e sempre, ma sempre semprissimo, attuali).

(…) secondo Seneca, a farci arrabbiare sono le aspettative pericolosamente ottimistiche nei confronti del mondo e delle persone.

Senso di inadeguatezza? Non sei l’unico: guarda Montaigne. Oltre a parlare liberamente di funzioni corporali (tanto per ricordarci che anche i filosofi sudano, fanno la cacca e che sono influenzati dal loro sistema fisiologico), ci aiuterà a sentirci meno inadeguati, ad esempio quando leggiamo che amava solo i libri piacevoli e facili.

Pene d’amore? Alain de Botton ci suggerisce Schopenhauer. Non sono molto d’accordo con la sua scelta: Schopenhauer non esita a dire che

Il fine del matrimonio non è il piacere intellettuale, bensì la procreazione dei figli.

Io avrei scelto un Bertrand Russell, con la sua razionalità cristallina che non dimentica mai la complessità emotiva dell’uomo. Ma i gusti son gusti.

Infine, trovi difficile la vita? E fatti un Nietzsche, dice De Botton. Nietzsche ci consiglia di prendere le difficoltà e di trasformarle in trampolini di lancio, in occasioni di crescita. Sì, sto generalizzando, sto brutalizzando Nietzsche, ma De Botton lo rende un po’ più allettante, credetemi.

I filosofi erano persone normali, come noi, solo che hanno dedicato molto più tempo di noi a riflettere su certi problemi. Sfruttiamo i loro ragionamenti: uno scambio di opinioni con certe menti non può far che bene.

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Come leggere più libri

A volte mi chiedono come faccio a leggere così tanto, così lo scrivo qui una volta per tutte.

Ricordiamoci però che la lettura non è una gara, e leggere non vi renderà né più fighi né più ricchi né più simpatici: anzi, se tirate in ballo un argomento di lettura, di solito ci fate pure la figura dei so-tutto-io, dunque leggete, se vi va, ma (shhh!) non ditelo in giro…

Voglio confrontarmi con questo video, dove Ruby Granger – una youtuber amante della lettura – spiega come è riuscita a leggere 102 libri in un anno.

Come primo consiglio, ci dice, bisogna fissare un orario per la lettura: non fa per me. Non ho bisogno di scalette e obblighi autoimposti. Passiamo oltre.

Secondo consiglio: darsi degli obiettivi, magari utilizzando dei segnalibri adesivi e stabilendo fino a che pagina arrivare un determinato giorno. Neanche questo fa per me, vedi sopra.

Terzo consiglio: sfruttate i viaggi e le attese. Come darle torto? Non posso leggere mentre guido, ma ho sempre un libro in macchina o in borsa, e, appena si chiudono le sbarre del passaggio a livello, lo tiro fuori; idem quando sono in coda dal dottore, o quando aspetto che il bambino esca dalla piscina o da scuola.

Che mio marito non venga mai a saperlo, ma leggo anche quando cucino: soprattutto il risotto. Insomma: stare davanti alla pentola a mescolare è uno dei lavori più barbosi che ci siano in giro, dunque con una mano mescolo e con l’altra tengo il libro. Non capita di rado che mi dimentichi di continuare a girare il cucchiaio e che il risotto si attacchi, ma, insomma, si elimina lo strato di riso bruciato, e… voilà!

La Granger consiglia anche gli audiolibri: non ne è una fan, ma la aiutano a sfruttare tutto il tempo che altrimenti andrebbe sprecato. E’ un suggerimento sul quale sorvolo: l’ascolto non mi dà lo stesso piacere della lettura vera e propria, tanto più che la mia memoria è prettamente visiva, dunque dimentico più facilmente quello che mi entra dalle orecchie rispetto a quello che mi entra dagli occhi.

L’ultimo consiglio della Granger è leggere ciò che ami.

Più in generale, credo sia questo il segreto di chi legge tanto: A ME PIACE LEGGERE, e il tempo lo trovo, a volte non so neanche io come: semplicemente, salta fuori tra il lavoro part-time, la scuola, il catechismo, i rientri, le malattie e lo sport del figlio, la gestione della casa e della famiglia e degli amici..

Invece faccio fatica a trovare il tempo per lavare le tende, pulire il bagno, spazzare i pavimenti, cucinare la lepre in salmì, potare le rose (ne ho?), spolverare, stendere i panni… davvero, non so come facciano le altre, ma per queste attività ho solo pochi minuti alla settimana (ergo, siete tutti i benvenuti a casa mia, ma vi prego: chiamatemi almeno mezz’ora prima di arrivare!!).

C’è anche da dire anche che ci legge molto, legge più veloce: è un topo (di biblioteca) che si morde la coda.

Ah, dimenticavo: non ho la TV.

Quando lo dico, la gente in genere commenta: bè, sì, io ce l’ho ma non la guardo mai.

Sicuri?

Sicuri, sicuri?

Ma proprio stra-sicuri sicurissimi?

Appena ho dieci minuti liberi, tiro fuori un libro e leggo (e se uno non ha dieci minuti liberi in una giornata, non ha una vita). Se non mi capita di trovarli nel quotidiano, vado a letto più tardi. A volte, se un libro mi piace, mi alzo prima al mattino (e leggere al mattino, senza nessuno tra i piedi, è uno spasso).

A chi non piace leggere, questo può sembrare un disturbo compulsivo.

I disturbi compulsivi, se non erro, sono sintomi che alleviano il malessere.

E sia.

La lettura mi allevia il malessere

Mi fa stare bene.

Mi rilassa.

Mi piace!

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