Il romanzo inizia in un cimitero sulle rive del Tamigi, con il piccolo protagonista, Pip, davanti alle tombe dei genitori. Pip vive con la sorella che lo “tira su con le mani”, un eufemismo per dire che gliele dà di santa ragione per ogni sciocchezza. Suo marito Joe, un fabbro di buon cuore, non può accorrere in aiuto del piccolo, perché le prende pure lui.

In queste prima pagine del romanzo, Pip incontra un evaso che gli impone di portargli da mangiare e una lima. Il bambino, terrorizzato, ubbidisce e mantiene il segreto.
Poco dopo, Pip viene chiamato a casa di un personaggio piuttosto singolare: la signora Havisham. La villa è in totale abbandono, e la proprietaria, ormai vecchia, indossa ancora il vestito da sposa del giorno in cui il suo fidanzato l’ha abbandonata sull’altare. Sul tavolo vicino, c’è ancora la torta di nozze, potete immaginarvi in quali condizioni.
La donna vive con la figlia adottiva, Estella, che lei educa in modo da farla diventare crudele con tutti i maschi del creato, così da potersi vendicare delle sue disgrazie di gioventù; manco a farlo apposta, Pip si innamora di questa capricciosa ma bellissima ragazza.
Ad un certo punto, Pip viene contattato da un avvocato di Londra che gli comunica che un benefattore si è preso in carico di farlo diventare un gentiluomo e che sosterrà le sue spese di vitto, alloggio e studio nella City. Pip pensa subito alla signora Havisham e si mette in testa che la donna lo abbia destinato alla figlia Estella.
Ecco quali sono le grandi speranze: il ragazzo si aspetta di diventare un gentiluomo. E’ una speranza comprensibile in un orfano che ha appena conosciuto una signora del gran mondo, anche se decaduta, ma una volta cresciuto, Pip si… perde.
Mi spiego meglio: doveva mettersi a studiare per imparare un lavoro, e invece incomincia a far debiti. Non ha un mestiere e apre conti al ristorante e dal gioielliere. E, come se non bastasse, continua a far sogni su Estella, che lo snobba e lo tratta come un bambino.
Come ogni romanzo dell’Ottocento che si rispetti, non possiamo aspettarci personalità ambigue: i personaggi cambiano nel corso della narrazione, ma siamo lontani dalle lotte psicologiche dei romanzi più recenti. Estella è una stronza, la signora Havisham è guidata dalla sete di vendetta, Pip è un ingenuotto, Joe e Biddy sono le incarnazioni del bene, la sorella di Pip è l’incarnazione della crudeltà, e così via.
Cambiano tutti, o quasi, nel proseguo della vicenda, ma si va da un estremo all’altro.
Pip si accorge di come si è comportato nei confronti di Joe e Biddy quando li ha abbandonati per andare a seguire le sue grandi speranze. Sua sorella viene bastonata quasi a morte e finisce i suoi giorni da inferma. L’evaso si rivelerà essere una persona migliore di quella che Pip aveva creduto (e l’unico uomo che si è davvero “fatto da sè”). La signora Havisham si riprende verso la fine e si accorge di cosa ha fatto a Estella.
Però sono finali abbastanza scontati, la morale ottocentesca non conosce vie di mezzo: o dannazione o redenzione.
E’ da far risalire al contesto storico anche la risoluzione del romanzo, dove alla fine tutti i personaggi sono legati da qualche segreto (in modi un po’ ingenui e prevedibili, per un lettore del Duemila).
Però Dickens ha una prosa superba e la lezione che ci tramanda a quasi due secoli di distanza è ancora attuale: se le grandi speranze sono tutte incentrate sui soldi a scapito dei sentimenti e delle relazioni personali, sono destinate a cadere.
Un’ultima osservazione: avete fatto caso che, in tutti i romanzi di formazione, il protagonista si trova a dover lasciare il proprio ambiente natio? Io sono rimasta sempre a 10 km dalla casa dell’infanzia: mi sembra di non essermi mai formata del tutto!!