Raccontino

IL GREMBIULE (Serena Gobbo)


Marta stava togliendo la polvere dai buchini dell’armadio col cotton fioc, quando esplose l’inno di Mameli nella camera. Per un secondo si dimenticò di avere il cellulare appeso al collo e lo cercò nel tascone del grembiule, poi sentì il petto rimbombarle e afferrò la custodia.


Era la rappresentante di classe, voleva sapere se aveva già prenotato il ristorante per la cena di fine anno scolastico.
“Certo! Ci aspettano per le otto. E poi c’è la sorpresa!” avevo risposto.
“Quale sorpresa?”
“Vedrai, i piccoli ne saranno entusiasti!”
“Marta, sei incredibile, non so come fai a pensarle tutte. A domani allora.”


Si chiese se fosse il caso di chiamare un’altra volta il tipo dei gonfiabili: gli aveva già spiegato come entrare nel giardino del ristorante senza farsi vedere, ma di certa gente non ti puoi mai fidare, soprattutto di quella che va sempre in giro in tuta da lavoro, anche di sabato. Gli avrebbe telefonato in serata, dopo aver messo Giacomo a letto.


Le mancavano ancora dei buchini da ripassare: prima o poi avrebbe dovuto coprirli, non servivano a niente, i ripiani erano già alle giuste altezze; ma alle tre Giacomo usciva da catechismo e lei doveva accompagnare a casa anche i figli di Loredana e Susanna, così mise il cotton fioc nel sacchetto e andò in cucina per riporre il grembiule. Mentre lo piegava, si accorse di un alone, proprio nel centro della pettorina.


Lo annusò. Non era bagnato e aveva un odore lievemente acido. Forse non era stata attenta quando, due ore prima, si era piegata sul water con due dita in gola. Per la volta successiva si sarebbe protetta con un asciugamano.
Andò in bagno e mise il grembiule piegato nel cesto della biancheria sporca. Afferrò la spazzola e si guardò allo specchio: le era colato il rimmel fino a mezza guancia. “Dio mio!”
Sarebbe potuto arrivare qualcuno. Il postino, un vicino, un volontario dell’associazione, e lei avrebbe potuto aprire la porta in quelle condizioni, se non si fosse controllata prima allo specchio.


“Stupida! Stupida! Stupida!” si disse sbattendo i piedi per terra e sfregandosi la guancia con la spugnetta.
Fece un profondo respiro, e poi un altro.
“Una cipolla!” esclamò al suo riflesso.
A quest’ora si trita la cipolla e si prepara il soffritto. Tre ore di cottura e il ragù è pronto per le sette in punto.
Sorrise a se stessa. Aveva ancora dei bei denti, dritti, bianchi. Sarebbe rimasta ore a guardarsi i denti, ma doveva muoversi, mancavano dieci minuti alle tre e lei doveva essere davanti al cancello della canonica prima che aprissero le porte, o Giacomo sarebbe uscito senza vederla. E poi, arrivando in anticipo, avrebbe potuto spiegare alle altre mamme come ordinare i libri di testo dal sito della cartolibreria: era stata lei ad insistere perché implementassero un sistema di ordinazione online, doveva far capire alle altre che era facile da usare.


Sorrise di nuovo. Non conosceva nessuno che potesse sfoggiare denti con quella tonalità di bianco confetto. Si impadronivano della luce e la proiettavano nel mondo con sicurezza, come un faro che compie il proprio dovere.
Si sistemò la frangia e vide l’orologio riflesso nello specchio: erano le 14:52.
Avrebbe potuto rilavarsi i denti col dentifricio sbiancante, lo spazzolino elettrico era tarato tre minuti esatti di pulizia: sarebbe arrivata al cancello alle 14:58, in tempo per prendere i bambini ma non per spiegare alle mamme come ordinare i libri.


Rinunciò alla pulizia dei denti e, afferrate le chiavi, uscì per andare a prendere l’auto: preferiva proporsi alle mamme con calma, instillare una senso di competenza e ottimismo, o quelle là si sarebbero agitate, vedendola di corsa, e avrebbero pensato che parlava in velocità per evitare domande, o chissà cosa. Non riusciva mai a capire cosa pensassero le altre di lei.


Afferrò la maniglia dell’auto e si sedette al posto di guida. Mentre stava per inserire la chiave, la vide: la patacca bianca si spalmava per la grandezza del palmo di una mano proprio davanti ai suoi occhi. Quale uccello poteva cagare un ammasso del genere? E poi, perché bianca?
Gli uccelli mangiano insetti, no? Sono carnivori, gli uccelli, la loro merda dovrebbe essere marrone, come quella degli esseri umani. Ma a guardarla bene, non era neanche del tutto bianca: un bianco puro avrebbe potuto, al limite, giustificarlo, era una forma di perfezione, per quanto merdosa, ma quella roba al suo interno aveva delle sfumature antracite, che non erano né grigie né nere, ed erano distribuite senza logica, peggio di un vasetto di insalata russa che cade e che espande il contenuto rispettando una una sua legge rotazionale.


E poi, perché così liquida? Per spalmarsi meglio sui parabrezza delle donne che vanno di fretta? Peggio, sui parabrezza delle mamme che vanno di fretta, come se essere mamma non fosse già una missione fatale, che decide della vita di un bambino?
Mentre rifletteva sul guano che le impediva la vista sul vialetto, si accorse che erano le 14:58: non c’era tempo. Non c’era tempo per pulire il parabrezza, non c’era tempo per spiegare alle mamme il sito della cartolibreria, ma soprattutto non c’era tempo per star ferma là, a pensare al perché di quella merda, a cercare di darle una posizione nella sua vita.


Oh, le sarebbe piaciuto così tanto star là ,seduta, senza far nulla, godendosi il lusso di respirare, senza pensare a bambini da ritirare e consegnare, a macchie sul grembiule, a imballi multimateriale da smistare nel bidone giusto. Ci doveva essere, da qualche parte, un mondo dove si poteva star ferme con la testa vuota, sguazzando in quel vuoto come si fa da bambini, quando non ci si deve preoccupare del lavoro del parrucchiere.


Era da qualche parte, quel mondo, sicuro. Forse non era neanche lontano, magari era là davanti a lei, ma girato di spalle. Forse bastava chiamarlo.


Ma con quale nome?


Marta iniziò a urlare come non aveva mai fatto. Compensava la mancanza di senso con il volume. Più forte urlava, e più l’altro mondo avrebbe dovuto girarsi a guardarla.


Guardami, sono qui, pensava mentre in gola le si accendeva il fuoco. Guardami, sono stata brava, me lo merito, nessuno se lo merita più di me.


La voce si affievolì fino a tramutarsi in un soffio di raucedine, ma davanti a lei non c’era alcun mondo, niente che potesse guardarla e ringraziarla per la sua semplice esistenza: c’era solo quell’imperfetta macchia bianca che si allargò fino ad avvolgerla tutta.

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