L’ACQUA LO SA (SERENA GOBBO)
Mia moglie aveva cercato di avvertirmi, una delle ultime volte che mi ero chinato ad ascoltare i suoi sussurri. Aveva un fiato dolciastro, che attribuivo al glucosio delle flebo, e che invece era dovuto – ora lo so – alla carne che si disfaceva.
“Lui sta arrivando” aveva detto, e io avevo annuito, muto, senza notare che aveva detto “lui”, e non “lei”, come faceva nelle ultime settimane.

“Lei”, Clara la nominava spesso, e non era una figura impietosa con la falce sporca di sangue: era una donna velata a lutto che offriva una sua forma di accoglienza, e pronta a porgerle la mano per sollevarla un’ultima volta da quel letto che Clara non abbandonava ormai da mesi. “Lei” non era neanche una figura ossuta e spigolosa: era dotata di un corpo arrotondato e morbido, e di una voce delicata che la chiamava sottovoce con la delicatezza di un foulard di seta che ondeggiava al vento.
“Lei”, insomma, era una donna: imperscrutabile e profonda, come un pozzo nel quale si precipita con terrore ma che, in fondo, ci accoglie su uno strato di morbida terra misericordiosa.
“Lui” non sapevo chi fosse, ma quando tutto finì e tornai a casa, mi accorsi che qualcosa era cambiato. L’erba continuava a crescere lungo il canale; i runner continuavano ad allenarsi sulla strada davanti a casa nostra – mia -; le auto sul cavalcavia continuavano a correre; eppure Carla aveva avuto ragione per l’ultima volta: “lui” stava arrivando.
Se ne accorse anche Cristoforo: una mattina, due giorni dopo che ero tornato, mi destai alle otto e un quarto e saltai a sedere sul letto. Non avevo sentito il miagolio che per dodici anni mi aveva svegliato con una puntualità ragioneristica alle sette. Uscii in pigiama e pantofole e Cristoforo non c’era. Lo aspettai tutto il giorno e i giorni successivi; lo chiamai, gli lasciai i bocconcini nella ciotola, ma non lo vidi più, e alla fine dovetti regalare ad un’associazione le scatolette che lui non avrebbe più mangiato.
In questi mesi ho cercato di raccogliere degli indizi su di “lui”, di capire chi è, cosa vuole.
Il primo è stato lo sguardo di Carla. Quando mi parlava di “lei”, teneva gli occhi socchiusi, come se ci fosse stato un raggio di sole a sfiorarle le palpebre; ma quando aveva nominato “lui”, l’espressione era stata molto diversa. Sulle prime avevo pensato che l’avesse pungolata un dolore improvviso, sfuggito alle maglie delle droghe che le giravano per le vene: un guizzo di fuoco che le aveva fatto strabuzzare gli occhi e raddrizzare la schiena. Ma il dottore mi aveva tranquillizzato, ormai dolori fisici non ne poteva sentire.
Un altro indizio era stata la scomparsa di Cristoforo, che si allontanava solo quando arrivava un estraneo e che tornava non appena l’intruso se ne andava.
Infine, l’ho sentito anch’io. Lo sento anche ora. E’ decisamente “lui”. Non so che faccia abbia, nè cosa voglia, ma c’è, è qui con me, sempre.
La prima volta che l’ho sentito distintamente, stavo attraversando il ponte pedonale per andare alla candelora: mi è sempre piaciuto il rimbombo dei passi sul pavimento di legno e metallo, e il luccichio dell’acqua che si intravede tra i gerani; ma quella volta è stato molto diverso.
“Lui” era lì. Mi son girato. A parte me, solo una madre con una carrozzina. Ci siamo salutati con un cenno della testa e lei mi ha superato, accelerando. Ma “lui” era ancora lì.
Adesso, quando mi veglio di notte per andare in bagno, sento il suo fiato, calmo e ineluttabile. Di giorno, il sottofondo dell’autostrada copre il suo respiro, ma “lui” resta qua, in attesa, non so di cosa. Non so da dove viene, né se ha un nome o se qualcuno, con quel nome, lo ha mai chiamato.
Non so a chi rivolgermi. Clara e Cristoforo, che sapevano, se ne sono andati. Don Gino dice che è Gesù, che cerca di farmi sentire la sua vicinanza, ma non c’è niente di divino, in “lui”.
Quando attraverso il ponte sento che potrei quasi toccarlo, come se là, la grata di ferro dei gerani gli donasse una forza magnetica che lo rende denso, palpabile.
Stamattina, alla fine, ho capito che il ponte non c’entra nulla.
Stavo tornando dalla messa ed è stato come se qualcuno mi chiamasse. Mi sono affacciato al parapetto e ho guardato l’acqua che scorre sotto, e l’ho visto. Ho visto la sagoma della sua testa. Non ne distinguevo i lineamenti, ma era lui per forza, c’ero solo io sul ponte.
E’ l’acqua che me l’ha mostrato. L’acqua lo sa. Deve averlo incontrato nei suoi innumerevoli viaggi, dai monti al mare e dal mare al cielo. Lo ha affrontato, attraversato, forse sconfitto più volte. Forse.
Sa chi è, cosa vuole. Sa perché ha scelto me. E vuole dirmelo, aspetta solo che io vada da lei…
Stanotte.
Stanotte andrò dall’acqua col mio fardello di domande. Mi chinerò su di lei, come facevo con Clara negli ultimi giorni, e ascolterò quello che ha da dirmi.