In queste vacanze atipiche, dove non possiamo muoverci perché il ragazzino non è ancora in regola col green pass, avevo voglia di luoghi esotici, così ho optato per un libro ambientato in Cina, durante la seconda guerra mondiale.

Come dice mio marito, quando c’è da scegliere un film o un libro, non riesco a sceglierne uno comico. No davvero. Preferisco le storie drammatiche che hanno un fondo di verità, e questo ne ha uno bello corposo perché l’autore ha scritto un romanzo di fantasia ma basandosi su esperienze vissute in prima persona.
Jim è un undicenne che vive nella zona internazionale di Shanghai. E’ una vita fatta di feste, party, ricevimenti. Gli europei di Shanghai si muovono su lussuose auto con autista, hanno la piscina in casa, grandi saloni per ricevere gli ospiti, cuochi e altro personale di servizio, baby sitter e tutto quello che il glamour può richiamare alla mente.
E questa vita sfarzosa va avanti anche dopo il 1937, quando i giapponesi invadono la Cina e instaurano il loro governo fantoccio: questi ricchi stranieri continuano a fare la loro vita di feste e risate all’interno della zona internazionale, anche se la popolazione cinese sta morendo di fame e il fiume Yangtze è pieno di bare che galleggiano.
Quando però i giapponesi attaccano Pearl Harbour e, automaticamente, gli europei diventano loro nemici, tutto cambia.
Jim si ritrova solo. I genitori, e tutti gli europei che conosceva, sono spariti. Il ragazzino, nei giorni che seguono, gironzola un po’ per le case dei vicini e degli amici, ma è difficile trovare vero cibo: abbondano solo i salatini e il seltz. Decide così di consegnarsi ai giapponesi, dei quali ha un’altissima opinione (molto più alta di quella che nutre nei confronti dei suoi connazionali inglesi).
Non è facile per lui farsi rinchiudere in un campo di concentramento, ma alla fine ci riesce: finisce nel campo di Lunghua, dove trova altri europei ed americani. Degli inglesi continua ad avere una cattiva opinione: li trova lamentosi, pigri, nazionalisti.
Jim riesce a entrare nelle logiche del campo e, facendosi amici una serie di adulti tra guardie e prigionieri, riesce a non morire di fame, anche se le condizioni sono davvero tragiche. Sono così denutriti e malati che non hanno neanche la forza di scavare buche profonde per i morti, e nel cimitero quando piove affiorano pezzi di cadavere.
Ma nonostante tutto, Jim prova verso i giapponesi e il campo di prigionia una sorta di timore reverenziale. Solo nel campo si sente al sicuro, e a scappare non ci pensa proprio.
Col passare del tempo (trascorrerà tre anni a Lunghua), il campo diventa addirittura meta per molti contadini cinesi che muoiono di fame: una orda di visi smunti si accalca alle porte nella speranza che dentro alle recinzioni ci sia qualcosa da mangiare. Sia i prigionieri che le guardie hanno il loro daffare nel tenere alla larga questi poveracci che restano davanti alle reti finché non se li porta via la morte.
Vediamo scene raccapriccianti attraverso gli occhi di Jim che le filtra a modo suo: il campo è una protezione, i giapponesi sono valorosi, il dottore che lo aiuta è infido, i suoi genitori, semplicemente, non ci sono più.
Quando la guerra finisce, queste lenti distorte continuano ad agire e Jim si troverà più volte ad uscire dal campo e a rientrarvi perché, là fuori, non è sicuro.
Ecco: lungi da deprimerci, racconti del genere dovrebbero farci il dono della prospettiva.
Siamo qui, con i nostri lavoretti, le nostre casette, i nostri piatti pieni, e ci lamentiamo che non si può andare in vacanza a Tenerife, che Netflix non offre una buona scelta di film, che senza green pass non si può mangiare all’interno del ristorante e non si può andare al cinema; che gli impiegati delle poste sono maleducati, che fa troppo caldo, che il vicino di casa fa troppe domande… ecc…
Almeno per la durata della lettura di libri così, è meglio mettere i nostri piccoli crucci nel cassetto.