Abbiamo la memoria corta, forse perché la nostra memoria è sempre più governata dai giornali e dalla TV, che cambiano notizie troppo in fretta. Ecco perché riporto un brano di Francesco Piccolo, tratto da “Il desiderio di essere come tutti”; siamo nel 1973:
Vibrione. Questa era la parola. Finora non esisteva, avrei potuto attraversare tutta la vita senza sentirla pronunciare. Il vibrione del colera. Un germe patogeno. Violentissimo. Si impianta nell’intestino tenue e distrugge tutto l’epitelio.
(…) a un certo punto ti veniva un dolore lancinante alla pancia, proprio fortissimo, e poi andavi in bagno e veniva fuori della roba bianca. Proprio così: bianca. E questa diarrea bianca cominciavi ad espellerla e non smettevi più (…). E poi, alla fine, morivi perché non avevi più acqua dentro il corpo. Disidratato, dicevano.
Alla televisione ne parlavano di continuo, i casi sospetti aumentavano, lo spavento dentro e fuori casa era sempre più incontrollato. Non ci occupavamo d’altro; tutto il resto dell’esistenza era sospesa, non contava più nulla, lavorare o non lavorare, comprare il late, uscire a fare una passeggiata. (…)
Certo, il colera in quegli anni non si è certo diffuso come il Covid19 oggi, ma sentite cosa dice dell’ospedale Cotugno, dove erano ricoverati i malati in quelle settimane:
Si vedeva qualche medico in camice bianco che usciva e parlava al megafono, per calmare i parenti dei ricoverati. Nessuno poteva entrare, e i medici erano consegnati: non potevano uscire. Il Cotugno era un luogo inaccessibile, misterioso. Restavamo tutti fuori, dai parenti a noi che guardavamo la TV. E quindi l’immaginazione su cosa ci fosse lì dentro cresceva, e diventava ogni giorno più mostruosa.
Notate le somiglianze?
Solo che allora non c’erano i social, e i complotti circolavano solo via voce, non via web.
Lo ricordo. Avevo 18 anni e tutti correvano a farsi il vaccino.
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