Non sono riuscita a leggere questa autobiografia senza fare il confronto, episodio per episodio, col film “L’ultimo imperatore” di Bernardo Bertolucci.
Per capire le numerose differenze, bisogna tenere a mente che l’autobiografia di Pu Yi è stata scritta in piena epoca Mao (la pubblicazione è avvenuta nel 1964).
Pu Yi non era una grande personalità: era debole di carattere, e i lussi in cui è vissuto gran parte della sua vita non hanno fatto altro che indebolirlo ulteriormente e incancrenire altri suoi difetti, tra i quali la crudeltà aveva un ruolo importante.
Nella biografia, Pu Yi parla del suo vecchio sè con rammarico e vergogna ma ci resterà sempre il dubbio di cosa pensasse davvero: di quanto fosse all’oscuro delle mire giapponesi durante l’occupazione del Manchukuo, dello sfruttamento bestiale del popolo cinese e della situazione internazionale.
La parte più interessante dell’autobiografia a mio parere inizia dopo la costituzione del Manchukuo, lo stato fantoccio: si vede un Pu Yi che pensa continuamente alla sua restaurazione come imperatore, si illude e poi cade, più volte, nella disperazione e nel terrore di venire ucciso, e allora si dà alla pratica del buddhismo e alle superstizioni (arrivando al punto di vietare ai servi di uccidere le mosche).
Quando il Giappone perde la guerra e il Manchukuo cade, Pu Yi finisce per cinque anni in un carcere russo, e, infine, in uno cinese.
Era pronto ad essere maltrattato, deriso, torturato e ucciso e invece… oh! Miracolo! Il comunismo è magnanimo!
E qui lo sbrodolamento inzuppa le pagine: tutti, anche i sopravvissuti a terribili massacri, lo perdonano; tutti si preoccupano solo della sua reintroduzione nella nuova società; la nuova società non è interessata ai suoi numerosi gioielli, e in carcere diventa un vero uomo. Così dice.
Negli ultimi anni avevo appreso qualcosa circa il mio effettivo valore dai miei tentativi di lavarmi gli abiti e fabbricare astucci per matite.
All’inizio avevo detestato il partito comunista, il governo del popolo e le autorità carcerarie, mentre ora non avevo motivo di avercela con loro, e più che mai sentivo che, se le cose stavano a quel modo, era per colpa mia.
La magnanimità dei contadini che avevo ritenuto rozzi, ignoranti e pronti a trar vendetta senza curarsi affatto della politica di clemenza e rieducazione. Adesso erano padroni del proprio destino, e dietro di loro stavano un potente governo e un esercito guidato dal partito comunista.
Una cosa era chiarissima nella mia mente: il partito comunista si serviva della ragione per conquistare la gente.
Mi fermo qui, ma avete colto il senso.
Impossibile sapere quanto Pu Yi fosse davvero convinto di queste lodi e quanto forte fosse la paura, ma anche se si resta col dubbio sulla sua sincerità (quanto ha esagerato i suoi crimini? Quanto ha esagerato la magnanimità del comunismo? Quanto ha taciuto?), questo è un libro che ho letto con piacere.
Voto: 3 su 5.
Ho studiato molto storia dell’Asia e in particolare, Indocina, Cina, Corea, Giappone. La storia della dinastia Mancese Quing, ultimi regnanti del celeste Impero ha portato via molto del mio tempo. In particolare la figura di Pu Yi, dalla città proibita al Man-Chu-Kuo nipponico. E la sua redenzione da uomo qualsiasi. Trovo questo libro, letto tanti anni fa, un po’ romanzato non tanto attinente alla storia vera, molto interessante. Quanto sconosciuto ai più oggi. La Storia accomuna grandi ascese come pesanti sconfitte, succede agli oligarchi, ai dittatori di solito e anche a vittime del loro tempo e della storia come il povero Yi. Ciao 🙂
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Vero, molto romanzato e forse proprio volontariamente, ma è stato pubblicato sotto Mao, non avrebbe potuto dire niente contro il regime 🥺
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Finché la mummia di Mao rimane in piazza Tienanmen nel suo mausoleo, il PCC non potrà mai cadere
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Tutto sommato, però, i cinesi non vivono male, rispetto ad altri regimi.
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