Oggi nascono movimenti per i diritti degli immigrati, dei gay, delle donne, dei malati, degli animali abbandonati, degli alcolisti, dei tossicodipendenti; delle vittime della strada, della violenza domestica, dei vaccini, delle multinazionali… e via di seguito.
Ma nessuno ha mai pensato a dare il via a un movimento per i diritti dei brutti.
C’è un festival, il No-Bel, ma è più un’occasione conviviale, per ridere di se stessi e sdrammatizzare la propria situazione; situazione che, al di fuori delle luci clownesche, non fa ridere per niente ed è più diffusa di quello che si pensa.
Il brutto, nella nostra società, è sottoposto ad ostracismo, e non se ne parla. Non ne parla neanche chi ostracizza, perché costui si giustifica in mille modi: nessuno ammette di non aver assunto un tizio perché era brutto, di aver scelto una donna la posto di un’altra perché era più bella, di provare simpatie lasciandosi guidare dal solo criterio estetico.
Ma fidatevi: è così.
Ecco perché il libro della Veladiano è meritorio: perché ha per protagonista Rebecca una bambina brutta. Irrimediabilmente ed oggettivamente (sì, oggettivamente) brutta.
La bruttezza assume caratteristiche crudeli nell’età adolescenziale: quando sei al di sotto del livello accettabile, se ti va bene, ti ignorano. Se ti va male, ti usano come bersaglio di battute e aeroplanini.
La Veladiano ha una scrittura poetica, ma troppo paratattica, che a volte stanca. Si va avanti con la lettura solo perché si vuol scoprire cosa tiene nascosto la bellissima zia di Rebecca (qualcosa che non è così “tremendo” come annuncia la copertina) e se la bambina riuscirà, in qualche modo, a sfangarla nel mondo.
Ce la fa, in qualche modo. Ma è un ripiego. Un modo di vivere in sordina, dedicandosi a una passione, il piano, che su una persona bella avrebbe potuto aprire innumerevoli porte e portoni.
Ho trovato poco realista la reazione dei genitori dei compagni di classe di Rebecca: è verosimile che un gruppo di adulti si scagli in questo modo contro una bambina perché è brutta? La mia è una domanda reale, non retorica: soprattutto perché la scrittrice ammette, alla fine del libro, che “Rebecca” abita da qualche parte, in una via della provincia di Vicenza.
I brutti sono una categoria disagiata.
Festa delle donne? E perché non una festa dei brutti, allora? (tanto, come inutilità, saremmo sullo stesso piano)
VOTO: 4/5
Un post intelligente. E perchè non una scuola per insegnare ai brutti l’autostima?
Marco
LikeLike
addirittura una scuola? forse sarebbe meglio integrare tale insegnamento nella scuola che già esiste. ma forse sono troppo utopica.
LikeLike
Un romanzo che ha avuto un grande successo, ma che io non ho apprezzato. Troppo favolistico, con i suoi personaggi improbabili, i buoni troppo buoni, i cattivi o insensibili troppo cattivi o insensibili, la bambina che essendo così brutta “deve” per forza avere un dono compensativo… non fa per me!
LikeLiked by 1 person