Se l’interesse per le storie bibliche precipita in caduta libera, non è perché esse siano noiose: sono, al contrario, piene di pathos, avventure, colpi di scena; ma il modo in cui vengono raccontate oggi negli ambienti religiosi è tutto fuorché avvincente.
Per fortuna ci sono gli scrittori…
“Le storie di Giacobbe” è il primo capitolo di una tetralogia. Inizia con un colloquio tra Giacobbe e il figlio Giuseppe vicino a un pozzo, di notte. Nessun dettaglio è superfluo: il pozzo rappresenta il passato, il regno dei morti, il mistero. La notte, con la luna, ammanta l’esistente di una luce particolare che ci permette di vedere le vicende passate in modo nuovo (e qui sorvolo sui richiami alle varie divinità lunari).
Qui è tutto un risalire alle origini (perfino delle piante e degli animali), al proprio passato: il mito si ripete, ci dice Thomas Mann, e i protagonisti stessi a volte, parlano al presente di eventi già trascorsi o usano i pronomi in prima persona quando in realtà stanno parlando di avi defunti molto tempo prima. Il mito è, non fu.
I personaggi biblici, che dalle letture in chiesa ci risultano così piatti e monotoni, qui sono descritti con tutti i loro pregi e difetti.
Giuseppe è un chiacchierone e spione: suo padre gli dice di non riferire certe cose ai fratelli, e lui fa il contrario. I fratelli combinano guai (più o meno gravi), e lui va a riferirlo al padre. Proprio di una simpatia unica.
Giacobbe ne ha fatte anche di peggio. Intanto, ha fregato la primogenitura al fratello Esaù imbrogliando il padre cieco (e pure, diciamolo, un po’ stupidotto).
Poi, a Schekem, non accetta di dare in sposa la figlia Dina al figlio del signorotto locale e questi la rapisce (faccio presente che a questo ragazzo era stato detto che avrebbe potuto avere la ragazza se si fosse fatto circoncidere, cosa che lui fece, ma inutilmente). I figli di Giacobbe, per vendicare l’onore della sorella, massacrano tutta la popolazione locale: Giacobbe non poteva non sapeva, ma li ha lasciati fare.
Quando i figli sono tornati da lui dopo aver compiuto scempi inenarrabili, Giacobbe ha brontolato, ha fatto la sua scenata, ma è comunque scappato portandosi dietro tutte le mandrie e il bottino (e questo signore qui si faceva chiamare Benedetto, perché diceva che le sue fortune gli venivano dal Signore… ah benon!)
Ah, per la cronaca: Dina è stata riportata in seno alla famiglia, ma era incinta. Giacobbe l’ha costretta ad abbandonare il figlio nel deserto appena nato…
Giacobbe non è neanche un mostro di intelligenza: si fa prendere per il naso per anni dal suocero Labano, che lo costringe a lavorare gratis per lui con la promessa di dargli in sposa la figlia Rachele, e quando arriva la notte delle nozze, non si accorge neanche che nel letto non c’è Rachele, ma sua sorella… (stesso imbroglio sull’identità che lui aveva fatto alle spalle di Esaù: chi fa la l’aspetti – ancora: il mito si ripete).
Insomma, questa gente non è proprio un modello di virtù.
Un altro messaggio che Thomas Mann vuole sottolineare (e lo fa spesso nel corso di questo romanzo) è che sono le passioni a muovere la storia: ecco perché la storia si ripete. Perché si ripetono le passioni. Ed ecco perché è necessario conoscere il passato, entrare nel pozzo, per capire meglio come comportarsi oggi.
Però una domanda mi sorge spontanea. Questo libro è uscito nel 1933, in piena ascesa dell’antiebraismo hitleriano. Considerando che brutta figura ci fanno qui gli ebrei, il romanzo va a rimpinguare la scorta di odio che già era notevole nel paese.
Perché Thomas Mann ha scelto proprio questo argomento in un periodo così poco consono?
Bellissima tetralogia! Buon pomeriggio. 🙂
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