Lo sospendo a p. 139 (su 338 pagine).
Colpa delle aspettative: credevo di trovarmi davanti alla storia della vita criminale scritta in prima persona da un criminale pentito, e invece quella vicenda è scritta nel suo primo libro, Cella 2455, braccio della morte.
Il libro che ho iniziato è invece una raccolta di riflessioni.
Inizia con la descrizione dei numerosi rinvii che la sua pena di morte ha subito: quei “bei” tira e molla della legislazione americana, che ti condanna alla camera a gas e poi ti prolunga la vita all’ultimo minuto, concedendoti una dilazione. La descrizione però poi si allunga con descrizioni e pensieri ripetitivi.
Chessman, condannato alla camera a gas per rapimento e stupro (lui si è sempre dichiarato colpevole di questi crimini, mentre ammette di averne commessi altri), trascorre undici anni nel braccio della morte. Ma dopo il primo periodo, pieno di odio e risentimento, cambia: scrive un libro sulla sua storia e questo lo fa riflettere e studiare.
Il suo è stato un caso nazionale foraggiato da una vasta campagna giornalistica: uno dei tanti momenti in cui l’opinione pubblica americana si è interrogata sull’utilità della pena di morte. Ovviamente, Chessman è contrario, e ci spiega le ragioni del suo punto di vista: sarà che anche io sono della sua stessa opinione, ma mi è sembrato convincente.
Mi ha lasciato invece perplessa la vicenda di Frances, la donna con due figli che va a vivere col padre di Chessman e che, quando il vecchio muore, si dice innamorata di lui e lo vuole sposare. Per quanto un criminale dica di esser cambiato, come puoi innamorarti di uno che è in prigione, che hai conosciuto in prigione, con cui non hai mai vissuto?
Magari lo finirò in futuro.
E’ comunque un buon libro per riflettere sul sistema giudiziario americano.