Borderlife – Dorit Rabinyan

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Questo libro, scritto da una scrittrice israeliana, è stata messo all’indice dal suo governo, che ne impedisce la lettura alle scuole superiori.

Ma complimenti, davvero. Esiste ancora la censura in un paese cosìddetto civile??

Motivazione? Qualcosa del tipo “mette a repentaglio il senso di identità ebraico”.

Ma per favore…!

Certo, in fondo è vero. Perché gran parte del senso di identità di un paese è costituito dall’esistenza di un nemico. E questo libro parla di una donna israeliana che si innamora di un palestinese.

Ora, lasciamo perdere il fatto che i due si incontrino a New York e che finiscano a letto dopo poche ore che si conoscono (mah, evidentemente negli Stati Uniti si fa così, però io queste cose le trovo sempre un po’ inverosimili). E non stiamo qui a disquisire sul fatto che la loro storia dura pochi mesi e che dunque si tratta di innamoramento e non amore vero e proprio (quello istituzionale, direi io, testato sulla quotidianità e sulla ripetitività una volta che l’ubriacatura dello Stato Nascente è passata): dopotutto, si tratta di un romanzo quasi rosa, e queste fisime me le pongo solo io! (A mia discolpa vorrei spiegare che l’ho comprato alla fiera del libro del mio paese: ci sono entrata alla ricerca di qualcosa di interessante, ma era piena quasi solo di libri per bambini e adolescenti: ormai ero entrata, non potevo uscire a mani vuote).

Il rapporto che nasce tra i due si porta dietro l’ombra delle due opposte nazionalità. Liat, la protagonista che parla in prima persona, fin dall’inizio è consapevole che la loro storia non potrà finire in un happy end: ammette subito che non ha il coraggio di presentare un palestinese alla sua famiglia israeliana, soprattutto con tutte le storie che ha sentito nel suo paese riguardo a palestinesi che sposavano israeliane e le costringevano a figliare e a sopportare botte e umiliazioni e cattività. Ecco, è questo l’aspetto che più trovo verosimile e degno di riflessione: la nostra capacità di fare qualcosa nonostante la consapevolezza che non stiamo andando da nessuna parte.

Ma ci metterei dentro anche la paura che abbiamo di mettere in piazza i nostri veri bisogni, perché stiamo sempre a chiederci cosa ne penseranno i nostri familiari e amici, perché abbiamo sempre paura di quello che penseranno di noi.

Non mi ritrovo ovviamente nella figura di questa Liat, perché non mi andrei mai a infognare in una storia del genere (chiamatelo cinismo, chiamatelo maturità, chiamatelo come volete), ma capisco benissimo questi due problemi: la consapevolezza che stai facendo qualcosa che non va da nessuna parte e la paura di quello che pensano gli altri. E quando leggo libri del genere, mi rendo conto che se dall’altra parte del mare c’è una che si è messa a tavolino per scrivere per mesi e mesi su questi argomenti, allora sono molto più simile al resto del genere umano di quello che voglio far sembrare.

Ma anche il resto del genere umano è più simile a me di quello che vuol farmi credere…

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