Stanotte sull’argine c’era una tigre.
I suoi occhi fluorescenti bucavano il buio, gli facevano male, sentivo l’oscurità lamentarsi delle ferite. Camminava con le anche che andavano su e giù, senza far rumore, solo un fremito delle fusa, un motore fatto di carne e parti molli; l’aria attorno ne veniva spostata a ondate, come pulsazioni che si propagavano fino al delta del fiume. Fuggiva, l’aria, dalla tigre che incedeva, padrona dell’acqua e della luna in essa sprofondata.
Ho allungato una mano per sfiorarla, e lei s’è lasciata toccare. Le mie dita si son perse nel pelo caldo: sarebbe stato bello affondarvi tutto il braccio, il busto, le gambe, sparire tra le righe gialle e nere, mutar colore strisciando da striscia a striscia in una camaleontica sopravvivenza.
Poi la luna s’è coperta, e con lei la tigre si è rivestita di notte, ha ceduto alla tenebra.
Ma la superficie del fiume è ancora increspata delle sue fusa.
La tigre sull’argine
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