Quando si inizia la lettura, lo stile ti dà subito un pugno nello stomaco: il libro è un unico grande paragrafo di duecento pagine; pieno di “disse lui” e “così lui” e “disse Reger” e “così Reger”; corsivi, ripetizioni. Siccome negli scrittori degni di questo nome lo stile non è mai casuale, sono andata a leggermi qualche recensione professionale e una mi ha lasciata perplessa quando parla di questo libro come “ironico”. Ma dove??
Forse proprio nel contrasto fra questo stile fuori canone e il dramma dei contenuti? Non ne sono sicura. Di certo, il dramma c’è: in primo luogo perché Reger è ancora sotto l’effetto della morte della moglie, l’essere che ha amato di più al mondo. E poi perché le polemiche contro l’Austria decaduta possono essere lette come polemiche contro il mondo attuale decaduto. A volte le parole di Reger sembrano quelle di un vecchio inacidito: niente che detesti più dello stato cattolico, niente che detesti di più di Stifter, di Heidegger, degli artisti di stato, degli insegnanti di stato, delle toilette viennesi, di Mahler, di Beethoven… detesta gli antichi maestri, eppure ha bisogno dell’arte per continuare a vivere dopo la morte della moglie; detesta gli esseri umani eppure ne cerca la vista quando rimane solo. Detesta il Burgtheater eppure, alla fine, ci va.
Mi viene un dubbio: che questo libro, con i suoi alternarsi di odio e amore, sia un inno alla vita, nel suo alternarsi di bello e brutto?
“Lei capisce che cos’è il vuoto quando ad un tratto si ritrova tra migliaia e migliaia di libri e di scritti che l’hanno completamente abbandonata e che di colpo per lei non significano più niente, se non appunto questo vuoto atroce, così Reger. Quando lei ha perso la persona più vicina al suo cuore, tutto le sembra vuoto. (…) Così capisce che non sono gli spiriti magni e neppure gli Antichi Maestri che l’hanno tenuta in vita per decenni, ma solo quell’unico essere umano che lei ha amato più di ogni altro.”